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” Il destino è quel che è, non c’è scampo più per me”…

Set 14, 2023 | Commenti

 

Distat enim quae sydera te excipiant. ( Giovenale )

Dipende, infatti, da quali stelle ti ricevano. ( Quando nasci ).

Vi è un influsso delle stelle, sul destino dell’uomo, è il concetto, duplice, che è posto sullo stipite d’ingresso della cosiddetta “Camera dei venti”, di Palazzo Te, a Mantova.

Gli uomini hanno un destino.

Sul destino degli uomini influiscono le stelle; ingovernabili, per gli uomini, ma leggibili, forse, tramite le tecniche dell’astrologia.

Nella mitologia greca, il destino dell’uomo era affidato alle Moire. Cloto, Lachesi e Atropo. Una, tesseva il filo della vita di una persona; un’altra ne stabiliva il destino, immutabile, tale che neppure gli dei potevano intervenire per cambiarlo, e, l’ultima, tagliava inesorabilmente il filo, quando fosse giunto il momento, stabilito, della morte.

Io salgo su una piccola barca, in un giorno in cui il mare sia solo lievemente increspato dal vento. La barca esce in mare aperto, e mio zio, proprietario della barca, inizia ad accelerare la velocità del motore, per arrivare il prima possibile nel punto in cui pensa di poter iniziare a pescare.

Io sono seduto a prua della barca, e guardo le onde venirmi incontro e l’orizzonte. Ad un certo punto, un improvviso sbuffo di vento solleva un’onda, non alta, ma forte, davanti alla prua della barca. Le onde, soprattutto quando si vada veloci in mare, con una piccola barca, andrebbero prese sempre di trequarti, per consentire all’acqua di scivolare sotto la chiglia senza mettere in discussione la tenuta dello scafo. Mio zio, non si accorge di quest’onda proprio davanti alla punta della sua barca, e la prende dritta, di fronte a sé. La barca, sotto l’effetto della sua velocità e della forza del mare, impenna la prua, d’improvviso, e solleva poi in aria tutta l’imbarcazione. Io, che sono seduto tranquillamente, senza essermi afferrato a qualcosa, sobbalzo, e sono anch’io alzato in aria, in modo del tutto incontrollato. Nel ricadere, sbatto la tempia su una murata della barca. Il colpo, preso a peso morto, senza essere riuscito a pararmi, mi uccide.

Una tranquilla uscita in mare, in un giorno di mare quasi calmo, si trasforma in tragedia.

Era destino.

Era destino ?

Cosa, della nostra vita, possiamo dire con certezza ?

Che vi è una nascita, e che vi è una morte. Il percorso che compiamo sotto la luce del cielo, ci interroga invece, costantemente, della sua intelligibilità; sul suo senso.

Ed è questo, che ci spinge a cercare segni che ci consentano di interpretarla, la nostra vita. Ed è questo, che ci spinge ad aderire ad una “narrazione”, sia essa laica, fatalista, o religiosa, o ideologica del vivere. Come umani, non riusciamo ad accettare che il nostro vivere sia simile ad un ballo ad occhi chiusi, in bilico sulla casualità degli eventi, mentre noi proviamo a restare in piedi e a dirigerci verso una qualche direzione. Mentre noi abbiamo la volontà, ed il desiderio, di perseguire una direzione.

Ogni aquilano conosce una storia di morte, o di salvezza, legata alla notte del 6 aprile 2009. Ognuna di queste storie, sembra costruita apposta, per avvalorare l’idea che esista un preciso destino, per ciascuno di noi; una sorta di strada, cioè, che, pure senza conoscere, siamo obbligati a percorrere anche nostro malgrado. O, magari, per sottolineare invece l’assoluta casualità, e imponderabilità degli eventi dei quali, solo al loro termine, noi possiamo individuare il percorso effettivamente compiuto.

Desidero scriverlo ora, e con la massima chiarezza possibile.

Per chi creda nell’esistenza di un destino, nessuna argomentazione razionale è utile a consentire un ripensamento. Esattamente perché credere nell’esistenza di un destino non ha nulla di razionale.

L’idea che esista una sorte per noi già stabilita è, paradossalmente, confortante, e deresponsabilizzante, persino.

Se è stabilito che le cose vadano in un certo modo, nessuna mia azione; nessuna mia volontà; nessuna mia scelta alternativa ha il potere di mutare quelle cose. Le cose andranno come devono andare. E’ rassicurante, in una certa misura, una certezza di questo tipo.

Da un certo punto di vista, ha anche il potere di sgravarmi di ogni senso di colpa, o di ogni rimpianto. Se le cose siano andate in un certo modo, in realtà, alla fine, devo solo ammettere che non era in mio potere, farle andare diversamente.

Naturalmente, credere in un destino, ci può condurre ad una serie di aporie logiche.

A cosa serve, curarmi, se mi ammalo ? A nulla, a rigor di logica, poiché se è destino che io guarisca, guarirò comunque. O, al contrario, se è destino che io soccomba, perché curarmi ? Perchè soffrire dentro un percorso di chemioterapia, se è destino che io muoia ?

Se è destino che io non faccia incidenti, con la mia automobile, perché devo guidare tenendo gli occhi aperti ? D’altra parte, se è destino che io faccia un incidente d’auto, a cosa può mai servire, rispettare le regole del codice stradale ?

Ma nessuna aporia logica, potrà convincere dell’inesistenza di un destino, chi ad esso affidi la propria sorte. Perchè la nostra mente produce un perfetto meccanismo giustificativo per le cose che accadono. Naturalmente, solo dopo, però, che le cose siano accadute.

Varrebbe la pena, allora, chiedersi perché, ricostruiamo una storia, qualsiasi storia, solo partendo dal suo termine; termine che molto raramente siamo in grado di individuare partendo invece dalle premesse di una storia, di qualsiasi storia.

Noi umani, sembriamo avere un bisogno, essenziale al nostro equilibrio mentale, che è quello di fornire un “senso” agli accadimenti che viviamo. Immaginiamo cioè che i nostri percorsi, siano conoscibili e determinabili. Io mi sposto da un punto all’altro, e so la strada che farò: non sono preparato ad accettare che arrivi qualcuno o qualcosa a spingermi fuori strada, casualmente: se avviene, è solo perché si tratta della manifestazione di una volontà superiore alla mia.

Provo a fare un esempio estremo.

Statisticamente, un padre muore prima, del proprio figlio. La nostra esperienza “normale”, ci mostra che per la quasi totalità delle situazioni personali di cui abbiamo diretta conoscenza, questo, è quello che accade, che cioè un uomo muoia prima del proprio figlio.

Questo, noi, oggi, lo consideriamo “normale”. A questo diamo un “senso”; il “senso giusto”. Perchè ad una consistenza numerica ( la maggior parte delle volte ), diamo un valore morale. E’ un percorso semplice, sul piano delle certezze che può darci, ma spesso fallace. E ci conduce all’impotenza. Se sappiamo che in una maggioranza di casi le cose vanno in un certo modo, o se ci accorgiamo che i nostri tentativi di cambiare cose, le cui forze ci appaiano soverchianti, non hanno risultato, cosa ci muoviamo a fare ?

E quando, orribilmente, accade invece che sia un figlio, a morire prima del proprio padre, lo consideriamo “innaturale”. Come se la natura, avesse una “regola”.

Ma la regola naturale, è esattamente opposta.

La mortalità dei cuccioli d’animale, è altissima, in natura; per predazione o malattia. E, persino nella nostra storia umana, noi abbiamo pianto più figli, di quanti padri ci sia stato dato di piangere: quanti sono stati, o sono ancora oggi in alcune parti del mondo, purtroppo, le morti giovani per vicende di guerra ? Nel nostro recente passato, sono stati milioni, i giovani morti in guerra: intere generazioni spazzate via da conflitti decisi dai loro padri, che, però, non andavano al fronte.

Quindi, noi umani, di fronte a qualcosa di terribile, come la morte di un figlio, cui non potremmo mai attribuire un “senso giusto”, nonostante la sua, purtroppo, “naturalità”, cerchiamo di tollerarne la possibilità, solo attribuendola, ad un “destino”.

Quanto è falso, un simile modo di pensare ?

La nostra condizione umana, così fragile ed esposta, cozza terribilmente oggi – rendendola così intollerabile per noi – con una narrazione del vivere che esalta invece una sorta di onnipotenza, per alcuni almeno.

Dittatori; uomini ricchi oltre ogni misura; il Mercato in cui viviamo immersi, ci propongono personali invulnerabilità; collettivi miglioramenti della nostra salute; scoperte scientifiche e tecnologiche che ci fanno guardare al mondo come ad un teatro in cui tutto sia possibile.

Persino la consapevolezza di dover morire, dentro un mondo in cui gli orizzonti delle possibilità umane appaiono allargarsi indefinitamente, rende impossibile accettare quello che appare senza senso, e spinge ad attribuire al destino la spiegazione, per passi successivi, di ogni nostro accadimento, fino, appunto, al destino finale.

La paura della nostra mortalità, dei nostri limiti e della nostra finitezza cerca giustificazioni anche rabbiose ad ogni meccanismo che sfugga alla nostra crescente volontà di controllo.

Per molti, non è stato possibile accettare l’esistenza stessa di una pandemia, nonostante il tristissimo numero quotidiano delle morti, perché non poteva avere senso, un invisibile agente patogeno che ci costringeva a cambiare abitudini di vita, e ci metteva di fronte al rischio concreto della morte.

Per giustificare la propria miseria ( intellettuale, più che materiale ), molti hanno bisogno di odiare, di trovare un nemico: è questo, il loro modo di trovare un “senso”.

So di essere forse sin troppo semplicistico.

Ma, ogni giorno, mi chiedo a cosa valga vivere. Se la fine è nota.

Mi guardo intorno, e scorgo enormi problemi ed ingiustizie.

Distruzione del pianeta, e sua alterazione del clima; guerre; diseguaglianze; violenza; razzismo; integralismo religioso; dittature di ogni genere; fame e malattie… solo per citare alcuni dei disastri con i quali giornalmente ci confrontiamo, mentre il Mercato invece ci vuole vendere qualsiasi cosa per rendere la nostra vita più piacevole, confortevole, lussuosa, piena di privilegi e possibilità.

Viviamo costantemente, dentro una scissione che ci lacera e ci mette in una condizione di continua tensione, insoddisfazione e paura.

Provo a fare qualcosa, nel mio lavoro, ogni giorno, per consentire il rispetto di leggi, o contratti, o per tutelare le persone, e spesso incontro indifferenza, opportunismo, quando non prevaricazione. Persino tra le persone che ho accanto. Più spesso ancora, mi scontro con impossibilità oggettive poste dalle condizioni in cui viviamo, e alle quali è più facile arrendersi; come se fosse “naturale”, la precarietà del lavoro ed il suo sfruttamento, ad esempio.

E appare invincibile, il male.

Per chi abbia voglia e generosità da spendere per migliorare sé stesso, la vita degli altri, o del proprio mondo, la frustrazione è enorme e continua. La tentazione di mollare tutto, di occuparsi solo delle proprie cose, di quello che può rendere più confortevole, semplicemente, la propria vita e quella delle persona a lui care appare come una soluzione che salvaguardi anche un equilibrio mentale, oltre che proprio una condizione materiale.

Tutto sembra andare secondo un destino stabilito, e preciso. E invincibile.

E invece no.

Invece oggi, più di sempre, è necessario ribellarsi al destino umano, e alle stelle, che, da parte loro, se ne stracatafottono di noi, checchè ne pensino gli esegeti del Capricorno, o dei Gemelli, o del Cancro.

Oggi più che mai, io mi rivolto, perché noi siamo ( Albert Camus ).

Ci si deve rivoltare, perché anche un solo brandello di vita può acquistare senso, bellezza e piacere nel viverlo, perché abbiamo scelto di impegnarlo in qualcosa di degno e in qualcosa che ci renda felici o che renda felici persone che noi amiamo.

Ci si deve rivoltare perché non si può lasciare vittoria alla notte; perché è nostro compito tenere accesa una piccola fiamma da trasmettere a chi verrà dopo di noi, perché continui a cercare giustizia e amore, e perché nulla è già stabilito. Ma proprio nulla. Il futuro, non è mai scritto.

E’ proprio nella ribellione, il senso stesso del vivere; nel cercare spazi, possibilità; nel perseguire, anche contro ogni evidenza, la umana felicità, consapevole del proprio limite, ma non per questo meno piena.

E, francamente, questa, è anche una ribellione al Dio.

Perché io sono umano. E il mio orizzonte, non è l’eterno. Ed è qui, ed ora, che voglio la possibilità di veder corrisposto il mio amore, e realizzata la mia ansia di giustizia, e se morirò provandoci, alla fine, avrò vissuto, per davvero.

Caro Giovenale, che pensi che sia del cielo, la responsabilità del nostro vivere sulla terra, per me, puoi tranquillamente andare affanculo.

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