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Amsterdam

Nov 1, 2022 | Recensioni

Nel 1940 esce “Il grande dittatore”, di Charlie Chaplin.

Chaplin lavorava al film da quattro anni prima. In quel film, il Vagabondo, Charlot, per la prima e ultima volta, “parla”, e pronuncia, forse, il discorso più importante dell’intera storia del cinema. Di sicuro, il più emozionante.

Robert De Niro, in “Amsterdam”, pronuncia forse il suo discorso più importante, al cinema, e trasmette inquietudine, profonda, e rabbia per i continui tentativi del potere di manipolare il mondo, piegandolo al proprio egoismo, alla propria famelica autoconservazione.

Verso la fine dell’800, un certo positivismo scientifico, in alcuni casi animato da altruistiche ed umanitarie ragioni, inizia a ritenere importante l’eugenetica. L’idea cioè che fosse giusto impedire la riproduzione di individui umani malati, o deformi, o devianti, al fine di ottenere una razza umana, ed una civiltà non inquinate da debolezze, o malvagità, o invalidità. Gli individui “tarati”, andavano sterilizzati, anche contro la loro volontà. In un’epoca in cui s’era convinti dell’esistenza di profonde differenze tra “razze” umane, ciascuna caratterizzata da misure craniche, o colore della pelle, o forma degli occhi, o comportamenti comuni, tanto diversi tra loro, da far considerare quasi gli appartenenti alle diverse “razze” umane, come appartenenti a “specie” diverse, di umanità.

Il passo successivo dell’eugenetica, fu quello di incontrare i teorici dell’esistenza di razze superiori ad altre. La tecnologia, il dominio sul mondo conosciuto, fecero riconoscere ad alcuni, la superiorità “scientifica” della razza umana bianca, e, ad altri, di una particolare razza umana bianca sulle altre, quella che chiamavano ariana.

Mischiare le razze era contrario alla “natura”; la “natura” prevedeva il dominio del forte sul debole: era diventato possibile, e facile, teorizzare, con pretesa di scientificità, che una razza, tra tutte, avesse il diritto, persino il dovere, il “destino”, di prevalere sulle altre, e di spazzare via, le razze inferiori, vero cancro dell’umanità.

Un trio, è protagonista del film: due, sono due reduci della Prima Guerra Mondiale; uno, un medico altruista, segnato dalle ferite di guerra, alla schiena e al volto, dove ha perso un occhio; l’altro, un avvocato nero, anch’egli gravemente ferito al volto, segnato da una profonda cicatrice alla mascella; e un’altra è un’ infermiera, che li ha curati, estraendo dai loro corpi le schegge metalliche di granate e bombe, che poi ha trasformato in surrealistici servizi da thè, ed in quadri che superano, in audacia, quelli di Frida Khalo.

Proprio dal loro ingresso clandestino entro una clinica, negli Stati Uniti Uniti d’America, dove si pratica  la sterilizzazione forzata, iniziano a comprendere la portata enorme di quel che sta loro capitando, dal momento in cui due di loro, i due uomini, erano tornati negli USA da Amsterdam, dove avevano trascorso un periodo felice dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, perdendo per questo,  di vista l’altra, e, dal momento in cui si ritrovano tutti e tre, fortuitamente, nel corso di un tentativo di comprendere cosa avesse condotto all’omicidio di un generale dell’esercito statunitense, e di sua figlia, del cui assassinio sono entrambe strumentalmente accusati dal sicario, che può accusare impunemente davanti alla folla ignara, ma disponibile a credere ad una spiegazione che sottintende una serie di pregiudizi radicati, uno strano personaggio, povero probabilmente, costretto a raccogliere il suo occhio di vetro da terra, e un nero, che per definizione è colpevole, e che, per di più  tiene tra le mani la borsa della vittima.

I tre protagonisti si muovono in un mondo in cui aver cura degli altri è ritenuto, quanto meno, eccentrico, se non sospetto o, decisamente, immeritevole di considerazione sociale.

Il film ci porta nelle piaghe della guerra: ci mostra, come se fosse un delicato catalogo di freaks ante litteram, una intera marginale umanità di tentativi di sopravvivenza nonostante la perdita degli arti, o la necessità di indossare busti metallici e farsi crescere baffi o barbe per celare cicatrici terribili; una sopravvivenza che, persino, cerca la bellezza nella propria quotidiana lotta contro la miseria ed il dolore: cantando; suonando, restando insieme.

Quella bellezza che pare incrinata da una vena di pericolosa eccentricità, dell’infermiera, una splendente Margot Robbie, proprio perché innamorata, contro ogni decente convenzione sociale e razziale, dell’avvocato nero, e proprio perché ostinata, nel tentativo di trasformare in arte, le schegge metalliche di armi assassine che hanno trafitto e lacerato corpi umani; un tentativo di redenzione, persino della materia bruta.

Quella bellezza, e quell’amore, che il medico finisce col cercare non più dalla moglie, per cui aveva deciso di abbandonare gli amici ad Amsterdam, e che lo rifiuta, visto che la sua altolocata famiglia lo ritiene indegno persino di esercitare la professione medica, dalla quale non ricava un guadagno, ma solo la frequentazione di mutilati non più funzionali ad una società tesa al solo arricchimento personale, bensì da una coraggiosa infermiera nera, che abbraccia la causa dei tre protagonisti, solo perché ne intuisce la dimensione di giustizia, senza bisogno di parole che la convincano.

Quella bellezza che l’avvocato nero scopre sia nell’amicizia che il medico gli offre, tendendogli la mano, unico, sul campo di battaglia in Francia, e che tratta lui, e i suoi commilitoni neri, non come indegni addirittura di indossare l’uniforme di quel Paese che gli chiede persino di morire se necessario, gli USA – a loro viene infatti data solo l’uniforme dell’esercito francese – ma come semplici, e preziosissimi, umani; sia nell’amore che trova nell’infermiera che lo ha curato, e cui rimane fedele in dodici anni di separazione; sia nella propria vocazione di uomo di legge, una legge posta finalmente al servizio dei deboli.

Questi tre personaggi, paiono collocarsi sul fondo di una scala gerarchica della rispettabilità – a partire da un Christian Bale magnifico nel tratteggiare senza diventare macchietta, questo medico, per metà ebreo, sbilenco e dedito alla sperimentazione di antidolorifici vagamente allucinogeni – oltre che sul fondo di una aggrovigliatissima matassa che, invece di sciogliersi, li fa affondare sempre più dentro una situazione che pare inestricabile, fin quando l’avvocato – John David Washington, per inciso, il figlio di Denzel, e qualcosa nel patrimonio genetico deve pur esserci… – rompe lo schema della gerarchia sociale cui sembrano tutti condannati e decide di seguire il suo amore per l’infermiera, iniziando così a dipanare il filo che li porterà allo scontro finale con gli ambigui “cattivi”, colonne della rispettabile società americana e degli affari multinazionali.

Il film prende le mosse da una storia vera che riguardava un generale pluridecorato dell’esercito statunitense, cui si offre la possibilità di togliere dal governo un indegno handicappato come Franklin Delano Roosvelt, mobilitando i reduci della Prima Guerra Mondiale, come era già accaduto in Italia, con Mussolini, e con Hitler, in Germania.

E dà i brividi, guardare alla facilità con cui, mestando nel torbido, lavorando segretamente, usando la violenza senza nessuna remora morale, diventi possibile presentare agli occhi del mondo una realtà totalmente diversa, e lontana, e ben più turpe di quella che si vuol nascondere e che invece è la motivazione vera per cui si ingannano le masse.

La mano di David O. Russell, talvolta sembra quella di Wes Anderson, mentre ci racconta con leggerezza questa cupa favola realistica ( in cui Mike Myers cita se stesso tornando ad essere spia, prima ancora di Austin Powers ), e talvolta supplisce a qualche debolezza di sceneggiatura fidando nelle capacità di un grande gruppo di attori ( magnifica, la fissità di bambola robotica posseduta di Anya Taylor Joy, momentaneamente strappata alla sua magica scacchiera ).

Il biglietto, lo vale tutto, e, per questo, non racconto il finale, che, come se certe coincidenze avessero una origine celeste, riguarda anche noi, e i nostri tragici anniversari, e la nostra pericolosa realtà.

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