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” Flaminia ” il film di Michela Giraud

Apr 15, 2024 | Recensioni

Non so immaginare, come sia vivere senza avere avere alcun filtro dentro sé stessi; ma essere, e voler essere; fare e voler fare, esattamente nello stesso istante ed in qualunque condizione, qualsiasi cosa passi per la testa. Non costruire mediazioni, né con sé stessi, e neanche col mondo intorno, anzi, neanche concepirla, una mediazione, ma sentire solo, inesauribile e senza limiti, la propria energia e la propria volontà di soddisfare immediatamente un bisogno, per quanto enorme o impossibile sia.

Qualcuno, definirebbe una condizione così, come assoluta libertà d’essere sé stessi: una genuinità profonda, e non inquinata da convenzioni sociali, o autolimitazioni: verrebbe da dire, come un bambino che ancora non introietti educazione e limiti posti dai genitori e da tutti gli altri adulti.

Qualcuno potrebbe, in un mondo soffocato dalle convenzioni, dal narcisismo e dal denaro come unica regola di vita, individuare questa condizione, come l’unica, capace di sovvertire l’universo chiuso e distorto nel quale viviamo: una sorta di indicazione pedagogica e pre-politica, dalla quale sola, poter partire per cancellare dalla società ogni ipocrisia e ogni gretto interesse materiale individuale, in nome di una consapevolezza più alta; in fondo, tutti desideriamo solo star bene e amare e si tratterebbe, essenzialmente, di ricostruire un ordine di priorità, nelle nostre vite, e dare il peso giusto, solo alle cose più importanti del vivere e, tra queste, certamente la capacità di riconoscersi reciprocamente, come persone, ognuna portatrice delle proprie fragilità, debolezze, e del desiderio di aprirsi ad un sentimento vero, quale che sia.

Qualcuno potrebbe, semplicemente, affermare che una condizione che non riconosca un ordine sociale, fondato sull’apparire e centrato sul denaro, sul potere, e sulla incapacità persino di avvertire il proprio egoismo, sia una condizione malata, da allontanare al più presto dal nostro sguardo. Una condizione anzi, persino inconcepibile, quanto più si restringa la cerchia di persone che possano essere ritenute degne d’essere frequentate, a partire da quelle che pensano che, regalare ai poveri , con un atto di beneficenza, quattro campi per giocare a padel, sia un gesto di umana comprensione, anzi, una indicazione di comportamento, che consenta ai poveri di aver cura della loro forma fisica.

Questa condizione umana è rappresentata dal personaggio di Ludovica, interpretato da una bravissima Rita Abela, che definisce con grande credibilità una giovane donna colpita da disturbi dello spettro autistico e che è la sorella-sorellastra, di Flaminia, incarnata da Michela Giraud, che è anche regista del film: “Flaminia”, appunto.

E’ Ludovica, che funziona da catalizzatore di tutta la storia. Ed è attraverso il difficile riconoscimento del legame affettivo che lega Flaminia e Ludovica, che diventa possibile alla storia compiere il più grande dei prodigi: il cambiamento di una persona.

Michela Giraud ha il torto di essere forse troppo scoperta, nel suo lavoro, di cui è anche sceneggiatrice.

Buona parte della cosiddetta “commedia all’italiana”, degli anni d’oro, era costruita effettivamente sulle esperienze personali, poi artisticamente reinterpretate, di persone comuni, che fornivano miniere di storie “reali”, o di sceneggiatori e registi, e attori, di cui però, allora, si sapeva pochissimo.

Invece Michela Giraud, deve fare i conti, paradossalmente, esattamente con un contesto del quale lei stessa, è parte, e che racconta, nel suo film. Il mondo dei “selfies” o dei social che inghiotte la realtà fino a trasformarla in “rappresentazione della realtà”. Fino a confondere i confini, nella testa delle persone, talvolta, tra cosa sia la realtà, e quella realtà che noi ambiamo a far conoscere agli altri, attraverso le moderne piattaforme social, che, troppo spesso, non raccontano persone, ma tentativi d’essere personaggio, e d’esserlo secondo regole, da altri stabilite.

E col suo film, Michela Giraud, sembra raccontare, di sé stessa, una sorta di “coming out” emozionale, rivelando che il suo personaggio di Flaminia, e la sua sé stessa fino ad oggi, possiede altre stratificazioni; uno spessore che non la riduce all’autoidentificazione con la donna pronta a tutto pur d’essere dentro la cerchia giusta, ma che ne rivela le fragilità, appena accennate, quando sfiora il racconto della sua sorella reale, nei suoi spettacoli di “stand up comedy”, con i quali il film entra in corto circuito, anche per la presenza di una serie di suoi colleghi che interpretano piccole parti ( Saverio Raimondo, Daniele Tinti, Stefano Rapone… ).

E’ come se Michela Giraud, avesse scelto il mezzo espressivo cinematografico, per tracciare una sorta di bilancio, per la sua esperienza, anche artistica, sin qui compiuta, di importante donna di spettacolo, e volesse raccontare d’essere pronta ad andare oltre il proprio autocostruito stereotipo.

Come cioè, se volesse rivelare l’origine dolorosa e complessa della propria corazza che espone trionfalmente e provocatoriamente, e anche autoironicamente, ogni volta che si esibisca su un palco, o dagli studi televisivi.

Michela Giraud, al contrario della rappresentazione di Ludovica, pone a sé stessa dei filtri; cerca delle mediazioni con la propria sé stessa/personaggio; si osserva dall’esterno, e decide quanto aprire di sé. Tutto il mondo di Michela/Flaminia, vuole essere estroflesso, in questa bulimia del rappresentare sé stessi, che sembra essere la cifra più vera della nostra attualità, mentre invece questa “proiezione pubblica”, altro non è che una prigione da scardinare.

E’ la sorella “malata”, a fornire la lima per segare le sbarre della prigione autocostruita.

Una prigione che è anche quella dei canoni della bellezza femminile; quella esaltazione odierna dell’essere “belli”, o meglio, “conformi” ad un canone rigidissimo che rende ciascuno, e le donne in particolare, una “maschera”, il cui unico agire consentito è sempre e solo quello derivante dall’accettazione di quelli che si vorrebbero considerare nostri pari, o di quelli con i quali si aspira ad entrare in relazione; come se il riconoscimento sociale, possa far premio su qualunque altra considerazione; amore, nel suo senso più largo, compreso.

L’assenza di riconoscimento sociale è, semplicemente, inesistenza, esclusione. L’assenza di riconoscimento sociale, conduce al di fuori di un mondo costruito per specchiare solo e sempre sé stesso.

Magari la storia può essere considerata esile, e non lo è, o, magari si può rimproverare a Michela Giraud il formato sintetico e iperbolico di certi passaggi che definiscono in modo forse troppo prevedibile certi personaggi che completano il film, ma io mi permetto di pensare che ci sono un talento e una intelligenza che potranno andare avanti in futuro, magari incattivendo ancor più la propria carica iconoclasta e mettendola in relazione con una propria maturità artistica e personale che si vede in controluce, come base del peculiare “carattere” comico che l’ha sin qui contraddistinta, e, al tempo stesso, come potenzialità di ulteriore sviluppo.

Non sono un critico cinematografico, ma solo uno spettatore che guarda, e che cerca di pensare a quel che ha visto per rintracciarne le motivazioni e il filo nascosto. Non c’è un messaggio, ma una storia, decide come essere narrata, ed è questo che le consente, quando si sia fortunati, di entrare in dialogo coi pensieri delle persone.

Ed è un bel dono, quando c’è.

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