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I primi due spettacoli della Stagione Teatrale aquilana

Dic 15, 2022 | Recensioni

E dopo Giampaolo Morelli, Andrea Delogu.

Due spettacoli della stagione 2022/2023 del Teatro Stabile d’Abruzzo, due interpreti, televisivi, prevalentemente, ma anche cinematografici, che, in due diversi monologhi, hanno raccontato parte delle loro storie personali.

Entrambe gli spettacoli sono stati prodotti dalla “Stefano Francioni Produzioni”, con sede a Pescara, sul sito della quale si ritrovano, tra gli artisti facenti parte del gruppo, molti, dei nomi che lo scorso anno, e questo, hanno animato la Stagione Teatrale aquilana: da Giorgio Pasotti, a Luca Argentero, a Edoardo Leo, a Lino Guanciale, a Marco Bocci, a Paola Minaccioni.

Si è trattato di due prove d’attore/attrice, che possono essere guardate sotto molteplici punti di vista, senza pretesa di giudicare, ma seguendo, semplicemente, le impressioni di uno spettatore non particolarmente versato nelle arti critiche, e vagamente irritato dal permanere di problemi organizzativi.

Lo scorso anno, ad esempio, esattamente un secondo dopo l’apertura del sito per l’acquisto degli abbonamenti, le prime tre file di posti del teatro, avevano le poltrone già tutte vendute.

Il mouse più veloce del West, deve essere stato.

Certo, era un po’ triste, ad ogni spettacolo, assistere ad un vorticoso ricambio delle persone che occupavano quelle poltrone. Magari, ad acquistare gli abbonamenti, era stato un dopolavoro, o uno spaccio aziendale, o una segreteria di partito, e, a rotazione, tutti gli affiliati potevano usufruirne.

E io sono contento per loro, ma mi dispiace, quando qualche posto restava vuoto, forse perché le cose regalate, talvolta, non s’ha neanche la buona creanza d’apprezzarle.

Quest’anno, invece, ogni volta che si provava ad aprire il sito per acquistare un abbonamento del Turno A, ci si accorgeva, al momento di pagare, che il sito stava prenotando un posto nel Turno B, e si doveva ricominciare da capo. Una, due, tre, quattro volte, fino a consunzione.

O forse fino a farsi venire il dubbio che il proprio armamentario informatico, o il proprio software cerebrale, fosse affetto da un virus sprizzante incapacità da tutti i pori. Il che, è sempre possibile.

E, poi, quando finalmente si sia riusciti ad acquistare un abbonamento, ovviamente non del turno desiderato, sin dal primo spettacolo, si presenti davanti a te una simpatica signora, sempre accompagnata da uno degli addetti del teatro, che ti chiede di cederle il posto a causa di non meglio precisate sintomatologie invalidanti che le renderebbero impossibile godere della cultura elargita dal palco dal posto che lei ha acquistato: le è necessario sedere al tuo posto. Esattamente al tuo.

La disposizione d’animo, nell’assistere ai primi due spettacoli di questa stagione teatrale, potrebbe non essere quindi esattamente serena e positivamente orientata.

Ma avvisare di questa circostanza pre-giudiziale, dovrebbe essere accolto come tentativo di mostrare intellettuale onestà, almeno.

Si sa che si sta leggendo qualcosa, di qualcuno non esattamente entusiasta di quel che gli accade.

Due appena, poco più, che quarantenni, un uomo ed una donna, ci hanno raccontato parte delle loro vite, drammatizzandole, ovviamente, per esigenze sceniche, ed interpretandole liberamente, v’è da pensare. In fondo, non s’era in presenza di due sedute di psicoterapia.

O sì ?

Perchè, in questo caso, avrebbe potuto trattarsi di una terapia freudiana, in cui il terapista, in genere, non dice nulla, ma ascolta, con attenzione il paziente, fino alla fine della seduta, e poi lo saluta, ma, è il terapista, a farsi pagare; quello che ascolta, e non come noi, spettatori che, invece, abbiamo ascoltato prima e pagato poi, comunque. E, quindi, almeno per questa ragione, entrambe gli spettacoli non possono essere qualificati come psicoterapie. Di sicuro non sapremo mai, in ogni caso, se i terapeuti che, eventualmente, abbiano o abbiano avuto in cura il Morelli e la Delogu, abbiano ingiunto loro di metter su una tournée teatrale, per guarire dalle loro dislessie.

Curioso, che entrambe si siano raccontati dislessici.

Che è un bello scoglio da superare, da bambini, soprattutto, e che entrambe, hanno brillantemente superato, tanto da poterne raccontare, in omaggio all’idea, assolutamente da condividere, che le proprie difficoltà, vanno affrontate, con coraggio, e senza dar peso a chi ci condanna, con la superficialità di non sapere quali sono gli sforzi che facciamo per migliorare noi stessi, e per arrivare vicino all’idea che abbiamo di noi stessi.

Io, per esempio, non posso accampare nessuna dislessia, per giustificare le mie terrificanti manchevolezze.

In entrambe i casi, i due interpreti hanno danzato pericolosamente sul filo della prevedibilità. Capita a tutti, infatti, d’aver avuto amori infranti, o impossibili. D’aver vissuto dolori, o separazioni, o imbarazzi. D’avere canzoni che segnano momenti importanti della vita, più o meno belle… ( se dovessi giudicare di quelle che ho ascoltato, sarei obiettivamente feroce, ma mi rendo conto che non dovrei continuare a pretendere che solo la musica che mi piace, abbia diritto di cittadinanza; o perlomeno, diciamo che tutta la musica ha diritto di cittadinanza, ma, per entrare nelle mie orecchie, molta musica manca del dovuto permesso di soggiorno ).

Ma, se prendiamo “Amarcord”, anche lì, potevamo pensare che tutti abbiamo avuto, o abbiamo, uno zio scemo che s’arrampicava sugli alberi per urlare le proprie voglie, o un padre che s’incazzava per un nonnulla. E però, come Fellini insegna, la nostra capacità di raccontare noi stessi, si misura con la capacità di rendere universale, il nostro racconto. Farlo diventare simbolo di un momento storico, o di eterne umane tendenze e caratteristiche.

E allora, di fronte ai primi due spettacoli della Stagione Teatrale aquilana 2022/2023, credo si debba rinunciare ad immaginare uno “specifico teatrale”, il cui linguaggio, magari sperimentale, ci trasporti dentro mondi ed emozioni appartenenti forse più alla memoria, magari idealizzata anche, che al presente.

Il presente che viviamo è narcisistico. E Morelli, e la Delogu, hanno ragione, d’esser vagamente narcisisteggianti. Sono entrambe molto belli, e, in scena, sul palco, dal basso dello spettatore, all’alto del palcoscenico, la bellezza si vede, pure dall’ultima fila, e senza bisogno che gli attori indossino coturni.

Il presente che viviamo è autorappresentazione, essenzialmente. Ed ecco che due attori si rappresentano: rappresentano le proprie vite come fossero “exempla”: un genere letterario medievale ( recita Wikipedia ), in cui si narravano storie, esemplari appunto, con finalità educative, o ammonitrici.

Si tratterebbe di capire, se l’autorappresentazione diventa anche autoindulgenza, o se è capace di uscire da modelli preformati e costruire abiti sartoriali, di splendente vitalità. In realtà, però, ci si dovrebbe anche porre la domanda se, in questo preciso momento storico, l’attore che mostra la sua autoindulgenza, in realtà, non rappresenti, magari criticamente, la stessa autoindulgenza dello spettatore.

E’ stato meraviglioso ieri, infatti, ascoltare Andrea Delogu, raccontare la propria fascinazione per l’amore che sta vivendo, nei confronti di un uomo molto più giovane di lei; guardarla ammiccare leggermente ai lati del palcoscenico, nella parte nascosta allo sguardo degli spettatori, ed ascoltare le signore alle mie spalle, e l’intero teatro, chiedere di farcela vedere, la meraviglia di cui si stava parlando, e, quando la meraviglia esce fuori, ascoltare il teatro profondersi in un forte applauso.

Esattamente come mettere su Facebook la fotografia del proprio fidanzato, e ricevere una tonnellata di “like” e mille commenti favorevoli.

C’è un confine sottilissimo, quando si racconti d’essersi cacato sotto a scuola, come ha fatto Morelli, tra il trasformare questa storia in una barzelletta triviale, e farla vivere invece inducendo negli spettatori, un processo di identificazione con un bambino spaventato, per aver “commesso”, qualcosa di socialmente esecrato, ma naturalissimo, in fondo, purtroppo.

E c’è un confine sottilissimo quando si racconti, il mondo social degli approcci tra uomini e donne, come ha fatto la Delogu, tra il sollevare un velo su costumi ormai talmente imbarbariti, da non rendersene più neanche conto, e di questo compiacersi, e dar per scontata, come unica modalità, una abitudine al consumo, che ormai consuma anche i nostri desideri più segreti.

Una cosa è certa; che il pubblico, ha scelto.

Morelli è stato richiamato sul palco due, tre volte, dopo la fine dello spettacolo, la Delogu no. Pur se la si era applaudita a lungo, nel finale del suo racconto. Forse, si accorda maggiore autorevolezza ad un uomo, così, senza pensarci.

Io penso che gli autori, dovrebbero imporre a sé stessi uno sforzo più rigoroso. Perchè è vero che è bello, ed importante, poter ridere, o sorridere, a teatro, e anche identificarsi, magari segretamente, nelle storie che vengono raccontate, e poter anche assistere a spettacoli “leggeri”. Ma è altrettanto vero, che bisognerebbe osare di più.

La platea del Turno B aquilano, ha una età media alta.

Per dare futuro al teatro, e al teatro pubblico, in particolare, bisognerebbe avere il coraggio di scavare di più nelle nostre contraddizioni e nelle nostre debolezze.

La Delogu e Morelli, parlando di sé stessi, le hanno carezzate.

Bisognerebbe invece passarci la carta vetrata, sopra.

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