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Merda, merda, merda !

Gen 16, 2023 | Recensioni

I detenuti sanno, cosa significhi aspettare.

E, per questo, possono recitare “ Aspettando Godot “ di Samuel Beckett. Loro, aspettano sempre. Aspettano l’ora del rancio; aspettano il giorno del colloquio; aspettano l’ora d’aria. Aspettano di poter uscire dal carcere.

E noi, sappiamo aspettare ?

Spesso, associamo al verbo “aspettare”, il verbo “dovere”. Devo aspettare; devi aspettare.

Una sorta di condanna. Un obbligo al quale ci si vorrebbe sottrarre.

Talvolta, persino un rimprovero alla nostra voglia sconfitta di un futuro diverso: te lo dovevi aspettare. Avresti dovuto aspettartelo.

L’attesa è un tempo lento. Quasi sempre.

Non passa mai e annoda lo stomaco, e fa sentire il vuoto intorno e scuote i nervi; frusta la pazienza e la frustra e la trasforma: in impazienza, in smania. Certe volte, persino in dolore.

Si può attendere qualcosa di terribile. E arriva sempre troppo presto. Supera la barriera del tempo che gli abbiamo frapposto contro, con una rapidità impressionante, capace di cancellare d’un colpo la memoria e il pensiero del futuro e si abbatte su di noi. Impotenti. Sbriciolando una attesa che era stata impossibile speranza forse, o tremore infinito, patito ascoltando il ticchettio dell’orologio che ci avvicinava al momento temuto.

Certe volte, l’attesa può essere un tempo felice. Una gravidanza, ad esempio. O il tempo che ci separa da un appuntamento gioioso; da un incontro d’amore ( per quanto, anche attendere un amore, può rivelarsi duro, e difficile, e colmo d’ansia e tensione, e lasciarci addosso ferite inguaribili ).

L’attesa sembra essere un tempo sospeso: una assenza di tempo, o, meglio, il suo scolorare e svanire progressivo, dalla nostra consapevolezza, che, per un accomodamento premeditato dell’istinto, ci porta a tenerci dentro, e a farci considerare, solo l’inizio, di qualcosa o di qualcuno, e la sua fine, sbiadendo sempre più il corso degli eventi nel frattempo: perché l’attesa è un tempo “in mezzo”: schiacciato in mezzo a qualcosa, che forse non sappiamo neanche individuare.

Perchè è difficile, mentre viviamo, comprendere fino in fondo, quale sia il tempo dell’inizio, e quale quello della fine, di qualcosa, o di qualcuno, e tutto, potremmo considerare, in realtà, un “frattempo”; una attesa. Un prolungamento indefinito di sfumature di presenza.

La vita stessa, diventa un’attesa: del suo termine finale; di una impossibile ricerca di senso, che si perde nel buio del palco, tra i rami spogli di un albero e parole che s’inseguono invano.

Il cinema di “Grazie ragazzi”, ci racconta una storia che imbroglia.

Mostra il tempo di un impegno assunto per caso, per disperazione, per sbadataggine o per tenacia che non trova miglior causa e lo trasforma, in una relazione tra persone invisibili ( i carcerati, ed un improbabile doppiatore ), che scoprono insieme la possibilità di dare al tempo una direzione, in attesa di trovarci un significato, mentre recitano un testo che ignora gli orologi e scherza col senso comune, mostrandone l’anima vuota.

La relazione fisica tra umani si costruisce solo dentro, e attraverso la storia di attesa e assenza che vuole essere rappresentata sul palcoscenico, e con essa confonde i confini e li mischia, mentre le persone diventano personaggi ed i personaggi cercano di essere persone migliori degli attori che li portano in scena.

Ma i personaggi che aspettano Godot – che è un assassino rumeno con una coperta sulla testa – non sono fatti della stessa sostanza dei sogni.

Sono detenuti. Persone che hanno commesso dei crimini, e che stanno scontando la loro pena; e comprendere le loro motivazioni a salire su un palcoscenico, è un processo che si ferma, quando il pubblico s’accorge che la rappresentazione scenica, incredibilmente, può confrontarsi, credibilmente invece, con un testo spigoloso e oscuro a tratti, e arricchirlo, addirittura, quando i personaggi ritrovano la propria anima di persone, capace di superare i limiti che la vita ha imposto loro.

Allora la relazione tra invisibili, dentro le mura del carcere, tra le assi del palcoscenico, diventa l’unica possibilità di dare un senso: alla rappresentazione, alle vite dei personaggi.

La realtà, ha le forme di un misuratissimo e potente Nicola Rignanese, che impersona il responsabile della Polizia Penitenziaria: “ l’unica che paga, se qualcosa va storto”, indurita dal ruolo e dall’abitudine; di Fabrizio Bentivoglio, fatuo attore, che però riesce ancora a comprendere quando dal palcoscenico scende giù una finzione più importante persino della realtà; di Sonia Bergamasco, burocrate che stenta a credere che, tra carte, e ristrettezze economiche e scaricabarile, possa esistere qualcosa capace d’appassionare.

Antonio Albanese, ci infila tutti in una bolla dentro la quale improvvisamente ci accorgiamo che solo la sincerità, e l’amore per quanto di più profondo attenga all’umano – la sua capacità cioè di indagare il mondo e cercarne l’essenza e la poesia – ci rendono veri, e perciò fragili, e perciò, fortissimi, invincibili, quasi.

E anche Vinicio Marchioni, tra i detenuti, ci offre uno sguardo sul percorso di leggerezza celeste che possiamo compiere, se ci abbandoniamo alla possibilità della poesia, persino quella difficilissima di Beckett.

Che non è il birignao privo di umiltà e misura che spesso ci tocca di leggere etichettato per poesia, sui social o nei festivals ( plurale non maiestatis ) dannunzianeschi.

Siamo fatti della materia di cui son fatti i sogni, ma anche di contraddizioni e cadute, perché, sebbene perfetti attori, siamo imperfette persone che vivono finali sempre imperfetti.

E però, usciamo dal cinema pensando che si possa cercare ancora, dappertutto, umanità, e, per questo: Grazie, Ragazzi.

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