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Avatar. Meno fantasia di un cartone animato.

Gen 17, 2023 | Recensioni

Con le festività di fine anno, al cinema, arrivava il nuovo cartone animato della Disney.

Un tempo, era l’occasione di incontrare la rielaborazione di favole ascoltate sin da bambini, e spesso incantarsi, per i disegni, e la musica, e la capacità di portare sullo schermo un nuovo linguaggio.

Sergej Michajlovic Ejzenstejn ( quello della “ Corazzata Potemkin “, per capirci ), era un ammiratore, di Disney.

Quest’anno, il Natale italiano è stato caratterizzato dalla proiezione di “Avatar 2 : la via dell’acqua”.

Andare al cinema a vedere questo film, significa entrare dentro un mondo colmo di segni e segnali, ed occorre avere familiarità col suo primo capitolo, per sentirsi pienamente coinvolti dentro la storia e decifrarne i passaggi, o provare ad interpretarne le parti non immediatamente evidenti.

Si entra dentro una saga.

Ed è un percorso da iniziati, almeno in parte.

E’ abbagliante, la magnificenza della realizzazione grafica, e delle tecniche di ripresa di questo nuovo capitolo. Ogni minuscolo pezzetto del grande schermo si anima e richiama attenzione. Gli occhi si perdono, incapaci di decidere se fissarsi su un particolare, o seguire il centro della storia, pure incredibilmente evocativo e potente: tutto pulsa di vita.

Per il tempo del film, ci si chiede come davvero, su un pianeta lontano dal nostro, possano essere le creature che lo abitano, e se davvero, le loro dinamiche sociali possano essere così simili alle nostre, o se i loro mari siano popolati di esseri così incredibili, ed immensi. E, soprattutto, si passa il tempo chiedendosi se la capacità di connettersi con gli altri, che è la caratteristica di ogni essere in quel pianeta lontano, animale o vegetale, o umano che sia, se così possiamo esprimerci, e di sentirsi reciprocamente ( “io ti vedo” è la frase che nel film indica il momento in cui le coscienze si incontrano davvero ), non sia la chiave della possibile salvezza del nostro, in cui l’unica connessione per noi interessante, è quella con la rete internet, ed è misurata in velocità, non in intensità e tanto meno in condivisione.

Queste domande, o questi giochi mentali che affollano la testa, durante tutto l’arco del film, dimostrano la capacità del regista, degli attori che hanno dato vita agli “avatar” ( la discesa in terra di una divinità che s’incarna, secondo l’induismo, o più prosaicamente, la rappresentazione grafica che un utente scelga per rappresentare sé stesso all’interno di un sito o di una simulazione informatica – tipo il tizio che ha impersonato Matteo Messina Denaro, per trenta anni libero in giro per Palermo, la Sicilia, e l’Italia… – ), e di tutti i tecnici che hanno reso possibile il film, di creare un universo, è il caso di scrivere, perfettamente coerente e credibile, nel quale immergere lo spettatore e fargli sospendere, per il tempo della narrazione, ogni possibile incredulità.

Quel che si vede è tutto vero, e la storia si dipana in tutta la sua complessa drammatizzazione su più piani narrativi, ognuno dei quali converge, poi, in una battaglia finale, che tutti coinvolge, dall’esito non definitivo e che preannuncia nuovi capitoli.

Ma, tutto questo, ha a che fare con il cinema ?

Si può sospendere, la propria incredulità, ma i sensi non possono smettere di funzionare. E andare a vedere un film, oggi, ma ancor più un film come questo che, sebbene non sia esattamente una rappresentazione per bambini, attira indiscutibilmente un pubblico molto giovane, significa infilarsi dentro un masticatoio oleoso al sapore di mais esploso e maleolezzante. E il ruminìo scrocchierellante non è tipico solo dei bambini, bensì anche dei loro accompagnatori adulti, che, alle quattro del pomeriggio, dopo il pranzo domenicale, non si fanno alcuno scrupolo nutrizionale, o di opportunità, o educativo, di riempire sé stessi e i propri pargoli, molti dei quali drammaticamente in sovrappeso, di qualsiasi cosa possa essere ingurgitata, e zuccherosamente bevuta, attentando alla propria e alla altrui salute.

E a nessuno venga in mente che si tratti di una moralistica e facile tirata da vecchio arrogante frequentatore di cinema d’essai.

Ai miei tempi, nei cinema si fumava e si sgranocchiavano arachidi o semi di zucca tostati, le cui bucce inondavano i pavimenti delle platee.

Nulla da insegnare, o rimpiangere, quindi.

Ma oggi, la crescita esponenziale del consumo, ha trasformato una sala cinematografica, in una rosticceria priva di sistemi d’aerazione, in cui la quantità del mangiato, prevale tranquillamente sulla qualità della visione, mutata in un puro pretesto che non sospende l’incredulità, ma obnubila le facoltà intellettive, quel tanto che basta per ingozzare incoscientemente ragazzini e ragazzine che avrebbero bisogno di correre e divertirsi e non d’essere messi a tacere con la bocca piena, per il sollazzo dei genitori, che portano bimbi appena usciti dalle culle, a guardare film, col pretesto che piacciano loro storie, la cui intelleggibilità impegna menti ben più attrezzate.

E certo fa vacillare la mia.

Pare quasi che l’unica funzione di questa cinematografia, sia quella di indurre il consumo ingordo di zuccheri e grassi saturi.

La storia di questo secondo capitolo della saga è una classica lotta tra bene e male, in cui il male è rappresentato da una civiltà terrestre in agonia, che, forte della propria superiorità tecnologica, per sopravvivere alla propria autodistruzione imminente, inizia l’invasione di un pianeta che i suoi abitanti hanno saputo invece abitare conservandolo allo stato primigenio, ed adattandosi ad un rapporto paritetico, con la Natura, piuttosto che perseguirne lo spietato e avido, e autolesionistico sfruttamento.

Francamente, traspare il senso di colpa statunitense per essere andati a distruggere e cancellare dalla storia, la civiltà di popolazioni autoctone, col pretesto di civilizzare l’Ovest. E, d’altra parte, su questo terreno, noi europei, non possiamo vantare alcuna verginità, avendo colonizzato, con la pervasività delle malattie esportate, e con la forza dello sterminio brutale, interi continenti; noi italiani, dal canto nostro, non abbiamo mai fatto i conti con la nostra brutale colonizzazione dell’Africa; né ci siamo fatti scrupolo d’usare gas contro eserciti e popolazioni civili: una pratica orrenda solo se ad ordinarla è Saddam Hussein ( e proprio il 17 gennaio, ebbe inizio la stupidissima Prima Guerra del Golfo ); anzi, noi italiani, ci vantiamo tutt’ora di aver sconfitto il turpe e selvaggio nemico etiope, celebrando la nostra vittoria all’iprite, con l’intitolazione a quella battaglia, di una delle vie più centrali di Roma ( via dell’Amba Aradam ), di cui nessuno sente il bisogno di cambiar nome.

Ed è interessante notare come sembri non esserci alcuna mediazione possibile, né una pacifica e fruttuosa convivenza, tra la tecnologia e il suo potere invasivo e distruttivo, e la natura con le sue forze cieche.

“Avatar” teorizza l’impossibilità di redenzione degli umani sforzi capitalistici di asservire la natura per trarne profitto, ed indica una via d’uscita neo-hippy legata al ritorno ad uno stato semiprimitivo, in cui si sia consapevoli, delle opportunità che la tecnologia offre, ma le si rifiuti integralmente, perché intrinsecamente distruttive e perturbatrici di equilibrio.

Se questi fossero i termini della discussione che abbiamo davanti a noi, rispetto alla sfida rappresentata dal cambiamento climatico, non v’è dubbio alcuno che noi umani non rinunceremo mai a distruggere e mangiare tutto quello che abbiamo intorno.

Arrivando rapidamente ad autoestinguerci.

A parte spendere otto euro di biglietto per guardarlo comodamente seduti al cinema mentre ci rimpinziamo di succedanei di più sani stupefacenti, nessuno di noi sarebbe disponibile a stare seminudo in un mondo dal quale ci separa solo una tenda aperta, senza televisione satellitare e collegamento internet per iniettarci dosi omeopatiche di solitudine coi social network.

Verrebbe persino il sospetto che questo film sia costruito, mentre sembra parteggiare per una vita che sappia armonicamente coesistere con l’intero universo creato, con l’intento invece di convincerci che non esistano reali alternative alla brutalità tecnologica dei marines spaziali, predatori e assassini senza scrupoli.

Se, insomma, la metafisica del regista James Cameron, contrappone senz’altra alternativa, all’Inferno terrestre, popolato di manipolatori e violenti professionisti dello sfruttamento e dell’asocialità, un Paradiso alieno, popolato solo da pittoreschi esseri viventi e da buoni selvaggi; noi avremmo invece bisogno di un Papa che inventi un Purgatorio possibile, in cui lo spirito distruttivo del capitalismo, sia fortemente temperato da una giustizia sociale redistributiva fondata sull’eguaglianza e sulla necessità stringente di amare, rispettare e tutelare la natura e l’ambiente. Nel nostro stesso interesse.

Dal cinema, non si può uscire falsamente consolati, sperando in una improbabile fioritura sulla terra di alberi-anima cui connetterci per imparare i segreti di una Natura che, per quanto bellissima, resta esattamente quella statua di sale indifferente che Leopardi aveva raccontato.

Di certo si esce consapevoli d’essersi confrontati con un’opera profondamente popolare, e, perciò stesso, capace di produrre modificazioni nel reale, e nel suo linguaggio. Formale e sostanziale.

Io però, il terzo capitolo, quando uscirà al cinema, lo vedrò dopo dieci anni: giusto per rendermi conto di come, e da chi, sarà popolata la Terra a quell’epoca. Se sarò ancora vivo naturalmente, e se esisteranno ancora i cinema, o se per vedere un film sarà sufficiente connettere la presa USB, che avremo impiantato da qualche parte nel nostro corpo, con qualcosa che susciterà in noi l’impressione di condividere una esperienza con qualcun altro.

Perché una remota possibilità che James Cameron abbia ragione e io torto, esiste.

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