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L’ultimo film di Martin Scorsese: una esperienza necessaria.

Ott 23, 2023 | Recensioni

All’uscita dal cinema, esattamente di fronte al cinema, la luna in cielo, strappa le nuvole e illumina la notte. Una luna che uccide i fiori, a maggio, dopo una loro breve, intensa, e meravigliosa primavera. Una Luna che, nella mitologia Osage, tribù nativa americana, è la Nonna, che trasmette le preghiere, e la memoria; mentre il Fuoco, è il Padre, e la Terra è Madre.

E, all’uscita dal cinema, dopo aver visto l’ultimo film di Martin Scorsese, si comprende, pienamente, tutto il brutto che abbiamo intorno. Spazi abbandonati. Palazzi senza anima, vernici scrostate; parcheggi per auto trasformati in luoghi d’incontro, bar in mezzo al traffico; luci al neon e asfalto. Automobili che non si fermano, davanti alle strisce pedonali. Stoppie e arbusti ovunque, nessuna cura, per gli alberi, stenti, rimasti in piedi.

Il film “Killers of the flower moon” racconta la fondazione del capitalismo dell’energia fossile. L’impronta originaria che, ancora oggi, senza scrupoli, opprime e inquina il pianeta.

Un vecchio adagio, recitava che, all’origine di una grande ricchezza, c’è sempre un crimine. Non so se sia la verità, ma so che il racconto di Scorsese non permette speranza alcuna, accanto alla ricchezza.

All’origine del petrolio americano, c’è l’avidità, la manipolazione, la violenza, l’omicidio. C’è il razzismo: quello più profondo e sconvolgente, di un popolo che, come raccontava Max Weber (“L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”) , scorge nei propri successi, comunque raggiunti, i segni della predilezione di Dio, e della propria salvezza eterna. E c’è la costruzione di una rete di complicità soffocanti; mascherate da Logge Massoniche; da Ku Klux Klan , o, più immediatamente, da solidarietà di classe, necessarie a mantenere la ricchezza, a trasformarla in potere, a renderla inscalfibile, da chiunque ne metta in discussione la privatissima proprietà.

Viene in mente la straordinaria parte recitata da Donald Sutherland, nel film “JFK” diretto da Oliver Stone.

Al procuratore che indaga sull’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, Donald Sutherland, nella parte di un agente segreto, racconta il funzionamento materiale di una macchina di potere. La macchina di potere ha bisogno di denaro: vive per il denaro. La macchina di potere è disponibile, per il denaro, a compiere ogni sporca operazione possibile: dal truccare le elezioni in Italia, nel 1948, fino, appunto, all’assassinio del Presidente degli Stati Uniti d’America. Non ci sono ordini precisi, se non al massimo livello di segretezza tra coloro che detengono ruoli e interessi strategici; ma compartimenti stagni, in cui ogni sistema di autonomo potere ( lobby militar industriale, pezzi delle Forze Armate e dei Servizi Segreti, organizzazioni criminali… ), si muove per proprio conto, per raggiungere l’obiettivo finale, senza esplicitare neanche le motivazioni profonde, ma con la consapevolezza feroce di perseguire il proprio esclusivo interesse, e senza alcun ripensamento morale.

E’ un film che non ha colonna sonora, se non nei momenti in cui racconta le cerimonie degli Osage, affidando, in quei casi, il commento musicale a Robbie Robertson, musicista rock nativo d’America, recentemente scomparso ( e questa coloritura delle scene, suona come un omaggio a lui ), e, dentro questo spettrale silenzio della realtà, che incombe, su ciascun spettatore e lo avvolge costringendolo a entrare totalmente nella storia; risucchiandolo senza che mai possa uscirne, si svela, sin da subito, il disegno spietato che presiede allo svolgimento del racconto, in ogni sua sfumatura; sin dal colloquio iniziale tra il personaggio interpretato da un centratissimo e violentissimo Robert De Niro, nella sua ostentata apertura e magnanimità, e uno sconvolgente Leonardo Di Caprio, capace di rendere con analoga, potentissima, credibilità, ogni aspetto caratteriale e umano del suo personaggio, un uomo irrisolto, ambiguo, ambivalente. Un modernissimo uomo affascinato dalla facilità del denaro e dei piaceri e, allo stesso tempo, servile e cinico, forse innamorato, ma irrimediabilmente autoindulgente ed egoista. Dotato della terribile forza d’esser convinto delle bugie che si racconta.

Il disegno di potere e di violenza indifferente, è il filo che si dipana davanti agli occhi di chi segua il film, con crescente orrore ed angoscia consapevole.

E’ come assistere alla strategia di predazione di un branco di leoni, che circondano la preda, la stancano e sferrano poi un finto attacco, che indirizza la vittima, dove esattamente sarà sbranata, proprio mentre immagina d’esser scampata al pericolo.

Non c’è un gesto di troppo. Non c’è alcun momento in cui si possa deflettere dall’obiettivo che ci si sia dato. Non c’è alcun momento in cui possano sopravvenire dei dubbi, riguardanti il male che si sta compiendo. Il male, diviene una necessità somministrata caritatevolmente, esattamente nel momento stesso in cui invece, si professa e si mostra il massimo della comprensione umana e della propensione al bene, nei confronti di una intera comunità indigena, divenuta ricca, per puro caso; dopo essere stata cacciata via dalla propria terra d’origine, fin nel posto più sperduto e privo d’attrattive e di risorse d’America, gli Osage divengono la popolazione col più alto reddito pro capite del mondo, perché proprio lì, si trova il petrolio: un petrolio di cui sono gli unici proprietari, e di cui, soli, possono trasmetterne i diritti ereditari.

Ecco allora che un incidente della storia, si trasforma nel centro di un gorgo in cui una intera umanità di avvoltoi desidera solo tuffarsi e ritagliarsi la propria parte, anche arrivando a riaprire le tombe degli assassinati, per rubare loro i gioielli con cui venivano sepolti.

E non si tratta, soltanto, di una malvagità umana, che può pure esistere nelle singole persone; ma si tratta di una malvagità che si erige a sistema: un sistema che non ha bisogno di giustificazioni ideali, o ideologiche, per compiere le proprie devastazioni e per portare morte; ma, ed è questo il tratto davvero inquietante del racconto di Scorsese, basta a sé stesso: si autolegittima, e, in questo processo, presenta poi sé stesso come una buona società.

Timorata di Dio, nelle sue pubbliche espressioni, e rispettosa delle leggi, formalmente, mentre il suo reale codice di funzionamento, è quello di una orrida struttura della criminalità organizzata, che ha già costruito il suo Terzo Livello, di medici, avvocati, amministratori delegati d’azienda, direttori di giornali, sceriffi locali e politici.

“Killers of the flower moon”, ci racconta come funziona il processo di accumulazione primario, e come da questa accumulazione di risorse, nasca un potere che, capillarmente, estende la sua funesta ombra, e di sé tutto perverte e sporca.

La tribù di nativi americani, qui, espia il suo peccato originale.

La rinuncia alla propria cultura e alle proprie tradizioni ( una rinuncia incompleta in verità, nel suo restare ancorata alla propria lingua e alle proprie più ancestrali e umanissime credenze ), in nome di un denaro che, ed è questo che quella umanità proprio non comprende, non può fermarsi alla acquisizione di uno status fatto di vestiti, automobili, scuole o agiatezze di vario tipo, ma richiede invece movimento e continui processi distruttivi in nome di sé stesso e della propria pervasiva influenza. Ogni cosa, è attraversata dal denaro e la brama di accumulazione distrugge tutto quello che si frappone tra esso e il proprio ulteriore accrescimento.

Se si debba compiere un crimine, dice Robert De Niro a Leonardo Di Caprio, non ci si dovrebbe porre a rischio per piccole cose. Occorre puntare in alto. Talmente in alto, che nessuno può essere risparmiato da quella brama di profitto. Neppure i parenti, neppure i complici, neppure gli amici.

La logica e le azioni di quello che, formalmente è un Vice sceriffo, ma che in realtà, è il padrone di tutto, svelano quindi la trama intera di un potere che non ammette repliche o tentennamenti, ed è talmente inflessibile e duro da svuotare la resistenza di chi guardi il film, mettendolo al centro della scena: in quella città, dove i titolari dei diritti petroliferi, vengono uccisi uno dopo l’altro, con modalità simili a quelle con le quali si può macellare un animale, e dove, quando si tratti di raggiungere ulteriori vette di crudeltà ed efferatezza, non si esita. Mai. E dove, pubblicamente, si fa continua mostra di generosa attenzione e premura, verso quelli che sono, comunque, considerati inferiori.

Fiori da abbattere, perché le piante più grandi possano crescere.

Magnifica, l’interpretazione della nativa americana, protagonista della storia, l’attrice Lily Gladstone, sottoposta a terribili sofferenze, eppure capace di un guizzo finale, di infinita dignità, che smaschera l’ultima viltà di Leonardo Di Caprio, mai capace di assumere, fino in fondo le proprie responsabilità, e quindi incapace di vivere pienamente un percorso di possibile redenzione. Una ultima bugia pone fine ad un amore che, forse, nonostante tutto, esisteva ancora.

Ed è l’estrema amarissima lezione morale di un film che racconta, senza trincerarsi dietro una posizione precostituita, una storia, lasciandola agli occhi di chi la guardi; senza redenzione, o lieto fine o moralismi.

La giustizia, è patteggiamento, chi dovrebbe essere in galera a scontare le sue pene, usufruisce di sconti, e muore in un letto proprio. Il mondo continua.

Nell’inquadratura finale, gli Osage danzano, e ricordano, oggi.

Come se l’unico modo di preservare una possibile giustizia, sia quello di farla trascorrere, dagli antenati che ci accompagnano alla morte, fino ai nostri discendenti che continuano a vivere: non sono le umane istituzioni a fare Giustizia. Ma gli uomini, e le donne, possono continuare sé stessi nella vita di altri fiori; nella consapevolezza di sé, che, finalmente, porti fuori dalla Storia l’orrenda brama di potere e di denaro che ci governa, ancora oggi.

Scorsese, prova a mettere distanza, tra sé e il film realizzato, come se volesse ridimensionarne l’impatto politico; trasformando, l’intera storia, nelle scene finali, in un radiodramma-verità sponsorizzato da una marca di sigarette – che, pur di far ascoltare il proprio nome al pubblico radiofonico, non si vergogna d’essere nelle mani di sordidi assassini – trasmesso alla radio e recitato in un teatro davanti al pubblico, e riservando a sé stesso il racconto, dal palco, dell’epilogo della storia, ma finendo invece col darle una dimensione esemplare, di ammonimento, inascoltato, per il futuro.

Ma che film.

Io ne sono uscito a pezzi. Triste. E circondato dalla bruttezza delle nostre periferie cittadine, riservate a quelli che la corsa del denaro e del potere, nelle mani di pochi, ha lasciato indietro. Eppure determinato a lottare, contro tutte le manipolazioni che continuerò ad incontrare.

Per quello che posso.

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