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” Perfect days ” forse non sono così perfetti, i giorni che Wim Wenders ci racconta

Gen 17, 2024 | Recensioni

Io sono uno dei tanti poveri ragazzi, che si sono rovinati, giù a New Orleans, in quel posto che si chiamava “La casa del sole che nasce”, o, magari, del “sole che s’alza”… se uno volesse giocare con le parole, e con i doppi sensi delle parole, per far intendere che la principale attività della casa, fosse quella di far alzare qualsiasi parte del corpo entrasse dalla sua porta…

E bisogna saperlo, che tutto quello di cui ha bisogno un vero giocatore d’azzardo, come solo io potevo essere, è un valigia e un baule, per andarmene via da tutto, quando sarà il momento, e l’unico momento in cui un giocatore d’azzardo, stupido, perché un giocatore d’azzardo è uno stupido, possa sentirsi soddisfatto di sé, è solo quando sia talmente tanto ubriaco, da sentirsi freddo, per terra.

Hirayama s’alza da terra, ricompone con pochi gesti essenziali, il suo letto che poggia direttamente sul pavimento della sua piccola stanza, e compie ogni gesto del suo mattino, secondo una sequenza che era stata accuratamente predisposta sin dal giorno prima, ed entra poi nel suo furgoncino, per andare a lavoro, e sceglie, tra le musicassette che conserva lì, con quale canzone iniziare il mattino, mentre guida, e la canzone è “The house of the rising sun”, nella versione degli Animals, una versione che ha esattamente 60 anni.

Forse, Wim Wenders, con questa scelta musicale, ci racconta un antefatto. Qualcosa che si colloca prima del suo racconto; o forse ce ne vuole dare un indizio, una possibilità. O forse, non importa poi molto, perché la canzone forse non ha alcun legame con la storia che si sta per raccontare, ma è una perfetta colonna sonora per un mattino che nasce a Tokio, capitale del Paese del Sol Levante.

Un mattino in cui un uomo, solo, inizia la sua giornata di lavoro.

Una giornata di un lavoro particolare, umilissimo, nel pensiero di molti tra noi. Hirayama è un uomo che fa le pulizie, e s’occupa di pulire i bagni pubblici della sua città, Tokio.

Con un certo raccapriccio, scopriamo che anche i giapponesi, buttano cose per terra. Lasciano i bagni disordinati e sporchi, e, con una certa dose di identificazione, ci immaginiamo seduti in terra, come Hirayama, con dei guanti alle mani, e impegnati a pulire meticolosamente, con forza e dedizione, ogni singolo angolo, compresi quelli più nascosti, di un bagno pubblico: quei bagni che, nella nostra esperienza quotidiana, sono luoghi maleodoranti, talvolta lerci, nei quali siamo abituati ad entrare e espletare i nostri bisogni, senza toccare nulla e senza aspettarci mai di trovare pulito, igienicamente sostenibile. E Hirayama è lì, a lavorare, senza alcun timore a mettere le mani dove noi sappiamo ci saranno, per certo, residui di deiezioni, cui evitiamo persino di pensare, anche quando siano le nostre.

Verrebbe in mente, che l’abnegazione al lavoro, sia un tratto della personalità giapponese del protagonista; che faccia parte del loro senso dell’ordine e della correttezza formale; del loro spiccato senso del dovere, almeno per quel poco che ne conosciamo noi occidentali, fruitori di film, cartoni animati, libri, racconti.

E invece, il compagno di lavoro di Hirayama, è un giovane che parla, mentre Hirayama preferisce il silenzio; è un giovane un po’ scapestrato, ritardatario, arruffone, non esattamente attento a compiere il suo lavoro in modo impeccabile. Anzi, sembra pensare che il suo lavoro non sia poi così importante, non importante certo quanto la ragazza da cui è attratto e che occupa quasi ogni suo pensiero.

E’ proprio Hirayama, che è così. Silenzioso, metodico, abitudinario, solitario.

Non ha bisogno di spiegare i suoi comportamenti. Sembra essere esattamente, e solo quello che fa.

Annullato dentro un flusso vitale ciclico, in cui gli atti necessari del vivere quotidiano – lavarsi, mangiare, dormire, vestirsi – somigliano alle pietre miliari di una strada che si percorre, sempre nello stesso verso; sempre con la stessa cadenza; sempre sentendo le medesime sensazioni; sempre con la consapevolezza che, ad ogni passo, ci aspetta solo la prossima pietra e quella precedente è rimasta dietro le spalle. Semplicemente, ineluttabilmente.

Wenders dipana dinanzi ai nostri occhi, questo susseguirsi di giorni, di atti compiuti abitudinariamente, fino a comporre una storia che somigli al percorso di un orologio. Un percorso obbligato, ineludibile e prevedibile. Ripetitivo.

Ma esattamente in questa trama, che sembra essere un tessuto ordinatamente filato dentro telai ineluttabili, s’aprono asperità, screziature, da due diverse direzioni.

L’una, esterna.

Nel quotidiano dipanarsi degli atti giornalieri che sembrano assorbire ogni vitalità di Hirayama, accadono impercettibili eventi, che non mutano il disegno d’insieme del tessuto, ma lo slabbrano, lo tirano, lo tentano, verso altre direzioni; altre possibilità, altre trame che, però, tutte, restano sospese, incomplete, inattuate, inadatte, insufficienti forse a mutare la traiettoria di una vita che, per sé stessa, ha scelto di percorrere binari, e non intricati sentieri di bosco.

L’altra, interiore. Inattesa.

Hirayama legge. Ogni sera, prima d’addormentarsi, insegue storie. Hiarayama sogna; sogna in bianco e nero, confusamente, riflessi della sua vita giornaliera, sprazzi di luci ed ombre, che non affiorano mai compiutamente ( Wenders, ha un conto aperto, con i sogni… “Fino alla fine del mondo” ). Hirayama ascolta musica, usando preziosi supporti analogici. Hirayama fotografa, con pellicola analogica, sempre lo stesso sfolgorio di cielo, che balena tra le foglie di un albero, un albero “suo amico”.

Hirayama sembra avere un patrimonio interiore ben più ricco di quanto la sua vita monotona ( ? ), lasci immaginare.

Queste onde, tenui, che s’alzano nel mare dei giorni perfetti di Hirayama, non ne deviano però mai la rotta, scelta anni prima, in contrasto con la famiglia forse. Una rotta che pare tracciata per poter giungere alla perfetta atarassia. Ad una vita cioè, libera dalle passioni. E siccome libera dalle passioni, libera anche dal dolore.

Ed è qui, che, mi nascono i dubbi su questo film.

Un tempo, qualche maestra elementare non molto avveduta, perché magari aveva frequentato le scuole Magistrali, dove il greco antico non era materia di studio, impegnava i suoi allievi, in esercizi di “bella calligrafia”, senza rendersi conto che, già la parola “calligrafia”, significa “bella grafia, scrittura”. Gli studenti sapevano che la “bella calligrafia”, impegnava le proprie capacità estetiche, pittoriche, potremmo dire: non richiedeva esercizio di pensiero, ma abilità meccanica, manuale.

Wenders, sembra proporci una vita libera dalle costrizioni della modernità.

Niente cellulare, niente internet, niente supporti digitali; ma anche niente televisione, scarpe alla moda. Un atteggiamento monastico, di chi si lava nei bagni pubblici, di chi non ha vestiti per sé; di chi non cucina, per sé o per altri, ma si reca in popolate tavole calde, dove consuma velocemente un cibo ordinario. Nelle relazioni umane di Hirayama, questa sua rinuncia al vivere, si trasforma nella possibilità di toccare la meraviglia dell’autenticità, ma senza coinvolgimento.

Come se il coinvolgimento distogliesse dal vero scopo del vivere.

Wenders sembra proporci la rinuncia, come strada che conduca alla serenità, al sorriso, all’accettazione di quel che non possiamo cambiare.

E se questa è la proposta, a me non piace.

La scelta musicale, che accompagna la scena finale del film, è un brano interpretato da Nina Simone, “Feeling good”, uno standard, in realtà.

“E’ una nuova alba, un nuovo giorno, una nuova vita, per me…il fiume scorre libero, ed è così che mi sento, e le gemme sono sugli alberi, pronte a fiorire, ed è così che mi sento… e mi sento bene”.

Un uomo racconta, ad Hirayama, che sta lottando contro un cancro che ha già lasciato metastasi nel suo corpo, e Hirayama gli propone di giocare a calpestare ciascuno l’ombra dell’altro. Nel gioco, la morte si allontana. Il sorriso bambino regala la sua vitalità ai due uomini adulti, fino ad un istante prima perfetti sconosciuti.

Hirayama, mentre ascolta Nina Simone, sorride, illuminato dal sole, poi sente i suoi occhi riempirsi di pianto; e poi ancora sorride, e poi ancora vorrebbe piangere.

La pienezza della vita, non si può contenere dentro la rinuncia. La pienezza della vita trabocca, per quanto vogliamo provare a tenerla sotto controllo. Per quanto vogliamo provare a farla scorrere dentro binari che ci autoimponiamo.

Lou Reed, canta, in “Perfect days” che una giornata, è perfetta solo con te, che mi fai dimenticare me stesso. Solo dalla relazione con l’altro, nasce, la perfezione.

E che si raccoglie solo quel che si semina.

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