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Sul Ventunesimo secolo

Set 30, 2022 | Istantanee

Eric John Ernest Hobsbawm, moriva esattamente dieci anni fa: il primo ottobre 2012.

E’ stato, probabilmente, il più grande storico del ‘900, da lui definito, in un libro memorabile, “ Il Secolo breve “.

Nel Settembre del 1999, la casa editrice Laterza, pubblicava una sua lunga conversazione con il giornalista Antonio Polito: “Intervista sul nuovo secolo”.

Il tentativo era quello di gettare lo sguardo oltre il XX secolo, per interrogare le possibilità del XXI: il 2000 appariva come una data spartiacque, e, forse, gli occhi di uno storico, per una volta, avrebbero potuto volgersi al futuro, invece che al passato.

Rileggere quel libro, a distanza di ventitre anni dalla sua pubblicazione consente di apprezzare sino in fondo la lucidità dello sguardo di Hobsbawm; non si tratta soltanto di esaminare se alcune delle tendenze, la cui realizzazione egli indicava come probabile per il futuro, siano poi divenute reali, o meno – e si sarebbe tentati di scrivere che alcune delle sue intuizioni sono state assolutamente profetiche -, ma di cogliere quanto profonda sia stata la sua capacità di segnalare grandi correnti storiche in movimento, e mostrarcele, perché potessimo intervenire su di esse.

E si tratta anche di prendere atto di quante occasioni abbiamo perduto senza intervenire su dinamiche fondamentali, e quanto grave sia stata, e sia,  questa cecità, che non era certo quella degli occhi di uno studioso che, all’epoca in cui il libro veniva redatto, aveva 82 anni.

Colpisce, alla vigilia degli attentati del settembre 2001, la sua capacità di vedere come, tra le forme possibili della guerra, si avanzasse la possibilità che il conflitto bellico non avvenisse più soltanto tra Stati, ma anche tra Stati e organizzazioni private: pensiamo alle organizzazioni terroristiche transnazionali, come Al Qaida, o l’ISIS, ma anche alla potenza del narcotraffico internazionale, capace di porre sotto scacco uno stato come il Messico, ad esempio, ma capace anche di infiltrare l’intera economia del pianeta con l’enorme massa di liquidità che è capace di generare.

Ed era mirabile, la sua capacità di cogliere gli aspetti problematici, ed irrisolti ancora, dei processi legati alla globalizzazione dell’economia che, mentre, richiede standardizzazione e uniformità nelle tecnologie e nelle leggi, finisce col dominare, pur tra tensioni, una politica invece incapace di dotarsi di strumenti di intervento globale e produce forme di reazione che Hobsbawm preconizzava, proprio per raggiunto limite di tollerabilità a questo tentativo di uniformare tutto, nel nome di un mercato sempre più svincolato da ogni possibile controllo.

Pensiamo ai movimenti che hanno provato a combattere, in nome della solidarietà, una globalizzazione fondata solo sul profitto, ma anche alla risposta che i rappresentanti di grandi ricchezze, cioè proprio coloro i quali di più hanno tratto vantaggio dalla libertà dei capitali, propongono invece alle comunità nazionali: in primo luogo il populismo demagogico; una forma di mobilitazione che lo storico inglese indicava come capace di sopravvivere ai processi di spoliticizzazione delle masse, ma pericolosamente lontana dalla politica democratica; in secondo luogo la chiusura alle diverse emigrazioni, in nome di un presunto diritto primigenio di alcuni ad essere su un determinato territorio : “ noi eravamo qui da prima, noi siamo quelli che sono sempre stati qui: gli altri sono arrivati dopo “.

E, sosteneva Hobsbawm, quanto maggiore sarà la ricchezza nel mondo, proprio derivante in larga misura da questi processi di globalizzazione, tanto più sicuramente sarebbe stato possibile prevedere che l’eguaglianza, persino quella politica e giuridica, che sembrava essere un dato acquisito ( si pensi alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo ), invece sarebbe diminuita.

Ed è esattamente quel che vediamo accadere oggi, anche in quelli che consideriamo Stati di Diritto, quando le diverse condizioni di accesso ai diritti si configurano come un vero e proprio sistema di Apartheid, che esclude intere fasce di persone, e  si sovrappone a quello che stigmatizza la pelle di colore diverso, quando quest’ultima sia definita ad esempio “clandestina”, o quando le case recintate e sorvegliate dei ricchi si separano fisicamente, nelle città e nelle metropoli del mondo, da infinite e degradate periferie di persone senza speranza.

Specularmente, si indeboliscono gli Stati nazionali, avverte Hobsbawm, sotto la duplice spinta di una minore volontà dei cittadini ad obbedire alle leggi, quando si sia loro insegnato, da anni,  che l’unico fine del proprio vivere sia una felicità individuale colorata di irresponsabilità, e sotto l’attacco furioso dell’ideologia neoliberista ad ogni funzione e ad ogni intervento dello Stato, per cui la persona dovrebbe essere sola di fronte al libero mercato.

E lo storico inglese intravede le implicazioni profonde, in particolare negli Stati Uniti, dell’intervento in politica, nelle campagne per l’elezione del Presidente della Repubblica, di una ricchezza individuale capace di compiere, da sola, azioni che un tempo solo le grandi organizzazioni collettive potevano. Ecco che in largo anticipo, già egli coglieva una traiettoria che ci avrebbe portato a Donald Trump, e di cui ancora non possiamo valutare la portata delle devastazioni prodotte e che ancora possono prodursi.

Straordinaria, poi, la sua capacità di porre all’Occidente il problema della Russia,  – di cui non abbiamo compreso la portata della catastrofe umana che l’ha colpita, quando, dopo la scomparsa dell’URSS, l’unica cosa che abbiamo saputo proporre loro, è stata l’applicazione del libero mercato, senza alcuna tutela o capacità di adattamento alle condizioni di quel Paese, con conseguenze materiali ed umane devastanti e capaci di alimentare un profondo desiderio di rivalsa, legittimato dal loro mito fondativo, per il quale, la capacità di tenere uniti territori ed etnie diverse, si ritrova solo nell’esperienza della guerra ( la Seconda Guerra Mondiale, in particolare, combattuta agli ordini di Stalin ) – avvertiva Hobsbawm, che, contemporaneamente, segnalava la pericolosità, per la Pace, della rappresentazione che di sé stessi davano, e danno, gli Stati Uniti come gendarmi del mondo.

Ed in questo quadro globale egli riflette sulla crisi strutturale che ha colpito la Sinistra nel mondo; sotto il profilo economico, con l’instaurarsi di una società basata sul consumo, e sotto il profilo intellettuale, quando si sia identificata la Libertà, semplicemente con la possibilità di scelta, assolutamente individuale e senza alcun riguardo alle sue conseguenze sociali. E Hobsbawm pone qui una riflessione per nulla indagata purtroppo, in questi anni, quando cerca di porre in luce che quanto rendeva possibile alla Sinistra agire in maniera collettiva, è esattamente quanto rende possibile una politica democratica, che esiste perché e fino a che sia possibile organizzare le persone e farle agire collettivamente; cosa che sta divenendo sempre più difficile, per chiunque.

L’assenza di consapevolezza su questo tema ha consentito, in questi anni, l’emergere, e l’affermarsi di forme politiche che della Democrazia, forse conservano un guscio svuotato, dopo aver reso impronunciabili tutte quelle parole, peraltro mai davvero difese, a Sinistra, che richiamavano ad una responsabilità e ad una pratica collettiva.

La Sinistra si è attardata in una visione conservatrice del passato, cedendo alla Destra la capacità di porsi alla guida del progresso, e non ha compreso quanto fosse decisiva, per la Democrazia stessa, e per la sua qualità, la possibilità di suscitare costantemente una partecipazione di massa alle discussioni, alle elaborazioni e alle scelte.

Infine, vale la pena di sottolineare di quel testo, a parte la vista lunga di Hobsbawm, secondo cui il prossimo futuro non sarebbe stato ancora il tempo per un Papa asiatico o africano, ma per un Papa latino-americano forse sì; e a parte la sua lungimiranza nel prevedere che, purtroppo, non vi sarebbero stati progressi in direzione di un’Europa Federale – a meno che non si dovesse rispondere a crisi gravissime – anche per la possibilità di scelta che la Gran Bretagna avrebbe sempre avuto, di assecondare il suo atlantismo viscerale, dirigendosi verso gli USA ( anche se, e in questo sbagliava, egli non credeva possibile la Gran Bretagna abbandonasse l’UE ) , certe sue considerazioni sul destino dell’uomo che, ancora oggi, ci interrogano, con tutta la loro vibrante e problematica attualità.

Egli guarda alla materialità della condizione umana e si accorge che, tra i fattori di produzione, sono proprio gli esseri umani, quelli ad essere più costosi: tanto costosi che, nonostante il violento processo di sostituzione dell’uomo da parte delle macchine, gli uomini continuano a costare più di quanto producano, ed esprime questo stato dei fatti con una frase bruciante: “ gli esseri umani non sono adatti al capitalismo “.

Anche perché hanno raggiunto la possibilità di prosciugare il serbatoio delle risorse non riproducibili del pianeta, e basti guardare alla condizione del Mediterraneo oggi, egli sostiene, per comprendere sino in fondo, se non si voglia mentire a sé stessi, quale sia l’impatto del libero mercato sull’ambiente.

Ecco allora che Hobsbawm, da lontano, ci lascia aperta la porta per andare oltre le sue elaborazioni, purché si abbia il coraggio di saper scegliere, quando si guarda la realtà, tra quanto ha e avrà un impatto sulla storia e sulle condizioni dell’uomo, e della donna, e quanto invece è solo rappresentazione o autorappresentazione fuorviante e priva di futuro.

Ma per far questo, occorre coraggio, umiltà e capacità di uscire dal conformismo che produce l’assenza di studio e di ascolto, e la facile acquiescenza al potere.

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