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Quasi Cento Ancora

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Storia della lettera scritta al ragazzo che leggeva

Dic 7, 2022 | Quasi cento ancora

Il silenzio, sentito da dentro le orecchie, somiglia ad un mare notturno e leggero. Ad ogni respiro, quando l’aria finisce, pare che l’onda scompaia dentro la rena, e si lasci dietro scintille schiumose, che sono carezze mai ricevute.

In questo momento, da te, ascolto il silenzio delle parole che non ti senti più di dirmi. E questo silenzio particolare, somiglia ad un brivido di freddo, sotto la luna da cui scendono foglie passite, senza più il colore dei tuoi occhi che mi guardano. Che mi guardavano.

Questo, di bello, avevano, ed hanno i tuoi occhi, che se l’incontravo, nel mio continuo tentativo di guardarti tutto, senza perdermi nulla di te, neanche un fiato; mi toglievano il mio di fiato. Mi costringevano ad inghiottire aria e a cercare di nuotare verso la superficie. Verso una qualsiasi superficie dalla quale riemergere, colmo di te, e d‘incredulità, perché mi guardavi. Era come quando, da bambino, scappavo per evitare le botte degli altri, e riuscivo ad arrivare dietro l’angolo, dove s’apriva la strada per casa, e potevo sentirmi sicuro, che il cielo non mi scurisse di nuvole ghiacce.

I tuoi occhi per me, son sempre stati la carta da regalo ch’era già un regalo, senza bisogno che io aprissi nulla.

Non mi hai mai detto tante parole.

Sei sempre stato più attento ad essere, e a fare, per me, ed in questo non sei mai riuscito a capirmi, fino in fondo. Tu, abituato a far di conto sempre con la concretezza materiale del tuo essermi vicino, della tua capacità di rendere reale ogni mio sogno bislacco, non t’è mai riuscito di capire quanto fosse importante per me che tu mi dicessi. Non ti rimprovero di nulla. Non l’ho mai fatto e non lo faccio ora. Ma io avrei avuto bisogno anche di sentirmi dire che ero importante e non mi bastava che tu me lo dimostrassi ogni istante, tenendomi per mano. Io volevo sentirmi dire che m’amavi. Io avrei avuto bisogno che tu mi dicessi di te, e d’ogni cosa di te. Immagina tu quanto, son stupido, e quanto bene fai, anche per questo, ad allontanarti da me.

Avrei voluto ascoltare i tuoi pensieri, ogni volte che una lancetta d’orologio si fosse mossa. Avrei voluto leggere le tue parole e i tuoi desideri. Avrei voluto misurarmi coi tuoi dubbi e con le tue certezze. Avrei voluto farti da cuscino e da sacco d’allenamento.

Troppo poco m’è capitato di farlo. Dev’essere per questo che son giorni che digrigno i denti e ogni respiro m’è un mare che mi precipita dentro e m’uccide il cuore. Ora, mi basterebbe quasi che tu mi salutassi, almeno.

Sto guardando, fuori dalla mia finestra un albero nero d’inverno.

Ma i suoi rami nudi sono protesi verso il cielo, e vogliono toccarlo, e rubargli calore e acqua. D’inverno, l’albero, non muore, ma si difende, e aspetta.

Anche io ho aspettato. Ho aspettato tanto, e sempre, di poter fare l’amore con te. Di poter finalmente sentire la tua pelle sotto le mie dita.

Mi si rompe la gola, se ci penso, a te nudo, che non puoi più nasconderti, quanto sei bello e quanto eri mio. Non me ne è mai importato nulla di come tu ti vedessi allo specchio. Perché tu sei una di quelle poche persone del mondo che non si cura di sé. Tu non cerchi d’avere, e sei, e basta. E mentre sei, t’immagini bimbo, e ferito che deve dimostrare d’essere uomo e vorrebbe solo esser compreso nella propria fragilità di vetro, che pare scorza e roccia ed invece può sciogliersi al calore ed ha paura di sciogliersi, e allora si guarda e si trova brutto, e non si crede. E mentre tu non ti credevi, io, a te solo, credevo. E mentre tu ti difendevi, io non ti attaccavo e avrei voluto tu comprendessi che in nulla mai, avresti dovuto difenderti da me.

E quanto mi dispiace non esser riuscito a farti sentire amato, e bellissimo, quindi; più bello d’ogni mia immaginazione. Talmente tanto bello che mi sento il cuore bruciare adesso, a pensarti, ora che sei lontano e mi togli il fiato, perché non posso vederti, perché mai più potrò vederti e toccarti. Quanto mi fa male il cuore, che mi pare accartocciato, come tutte le lettere che ho provato a scriverti, sino ad ora, e che ho buttato via, io che so che per te le parole, non servono a nulla e forse, adesso, non servirebbe più a nulla nemmeno cambiare la realtà.

Vorrei non essere triste.

Vorrei esser felice, per te che vai a cercare in un altro uomo la felicità che io non sono stato capace di darti. Vorrei saper suonare il violino, e volare dentro l’aria grigia del fumo di un camino, e di cielo innevato, per saper suonare la musica che ami e lasciartela cadere sulle dita, come mille farfalle colorate di polline e petali vivi di primavera, mentre baci un altro  e senti d’essere completo e vivo, e mai più solo. E protetto.

Vorrei aver avuto il coraggio che meritavi, quando m’hai chiesto di essere noi. Di non aver paura, ad essere noi, davanti al mondo. Io e te, anche se uomini, insieme. Vorrei aver avuto il coraggio di non pensare al dolore che avrei dato a mia madre, e a mio padre, e ai miei amici, e ai miei fratelli, che si sarebbero vergognati di me, e di questo amore per te che io non avrei mai dovuto sognare e avere. Vorrei non essere stato tanto vile da non aver capito, che quello che io consideravo il cielo, per te era solo il pavimento su cui imparare a camminare.

Vorrei aver portato, senza paura, i miei amici e le mie amiche a guardare, quel muro sul quale avevo scritto il mio nome, ed il tuo insieme. Te lo ricordi ?

Era un muretto grigio e triste, dietro al centro commerciale a Pettino, sull’orlo di un prato incolto e invernale. E quanto colore – necessario mi era, e mi è quel colore – mi sembrava invece di vedere dentro il mio nome, e il tuo, che si toccavano, come le dita delle nostre mani mentre ti sono dentro. E che felicità, a mandarti la foto di quei nostri nomi segreti,  insieme.

Vorrei che questo amore che ho da darti avesse ancora un senso, ed un tempo, per te. Mi sembra d’essere un vaso che si riempie di pioggia fino all’orlo spezzato, incapace di trattenere l’acqua che sgorga ed esce, e bagna la terra e si perde, e non riesce più a toglierti la sete. E vorrebbe.

Mentre scrivo, penso che smetterò di vivere, quando avrò finito di scrivere. Penso che non meriterò il giorno, perché sono senza coraggio. Perchè le mie mille parole non valgono un centesimo, appetto ai tuoi fatti.

Ci sono due passeri, adesso, su quell’albero nero fuori dalla finestra. Forse, solo a starsi vicini si scaldano contro l’inverno, e son volati via adesso. Forse perché l’ho guardati troppo ed hanno sentito quanto il mio sguardo non fosse degno, ma solo smarrito.

Ricordo la prima volta che t’ho visto. Che t’ho visto davvero, intendo, perché t’avevo sognato, la notte prima e tutta la mia vita prima.

Tu non t’accorgesti che ti guardavo, da lontano, mentre eri seduto dentro quel prato circondato dal traffico, davanti all’ospedale San Salvatore. Avevi girato lo sguardo dalla mia parte, e forse t’attraversavo la vista, o forse invece non ero niente altro che una macchia indistinta contro l’asfalto spezzettato. E poi ci siamo incrociati, quel giorno stesso.

Tu stavi entrando dentro l’Università, ed io ne stavo uscendo. Ricordo il disegno delle tue labbra, e che mi sono fermato sulla porta, per lasciarti entrare. Un amico comune che ci presentava, ed io evitavo di guardarti. Perchè t’avrei baciato lì. Perchè ero sicuro che chiunque, te compreso, guardandomi, si sarebbe accorto che di me non era rimasto più niente ed era tutto ai tuoi piedi. Perchè tu, e tu solo potessi raccogliermi, se avessi voluto. Se volessi.

Non lo so, se leggerai queste mie righe.

Non lo so, cosa penserai leggendole. Magari ti sentirai stanco dei miei tentativi di venderti uno spiffero d’aria tra porte chiuse, come fosse invece un cielo limpido e traversato dalle nostre risate libere. O magari non riuscirai a comprenderne il senso e cercami, allora, e chiedimi.

Adesso, il silenzio somiglia solo al silenzio. Al niente.

Al niente che sono.

Un vecchio cantante jazz, in un film, si chiedeva come fosse possibile, che dentro il mare ci fossero i pesci, e dentro il corpo ci fosse l’anima, e che solo il mondo, fosse dentro il niente.

Io ti ho sempre chiesto di lasciarmi essere il niente nel quale tu, intero mondo, e universo, volavi. Non t’avrei mai lasciato cadere, amore mio. Mai.

Colonna sonora. ” Forbidden colours ” Sylvian and Sakamoto

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