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Quasi Cento Ancora

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Storia della donna ch’era uscita dalla stanza

Mag 16, 2024 | Quasi cento ancora

Ciao, Rosa.

Ti scrivo queste righe, dopo tanto silenzio, tra noi.

Sono stati, e sono, mesi e mesi di dolore lancinante, per me. Sì, lo so. Bisogna essere attenti, alle parole che si usano. Esiste una gradazione del dolore, immagino, come esiste una gradazione del male. Nessuno nega che un male sia un male, ma anche il male ha i suoi scalini. I codici penali di tutti i Paesi, fanno una classifica, giusta o sbagliata, ora non importa, tra le forme del male, e, rispetto a ciascuna di esse, calibrano le pene. Quel che si deve pagare, per ciascun male che si faccia. Allo stesso modo, il dolore. Almeno in teoria.

Io, non so fare, invece, gradazioni di dolore. Non posso dire a me stesso di soffrire fino a dieci, se cado per terra con la bicicletta e mi sbuccio il ginocchio; e non posso dire a me stesso, di soffrire sino a venti, se i responsabili del mio lavoro, mi umiliano con i loro comportamenti.

Semplicemente, soffro. Al massimo, posso guardare me stesso da fuori, e cercar di capire quanto, mi faccia male qualcosa, e, soprattutto, se io abbia forza, energia e volontà, di uscire dalla sofferenza e provare a rivedere un’alba.

E quindi, io non so dirti, anzi, non oserei mai, dirti, se il mio dolore possa essere paragonato ad un tuo dolore. Il mio dolore non si allevia, se pensasse d’essere meno tagliente, di quello che puoi provare tu. E non s’esalta, perché io possa avere una prova provata che il mio dolore sia più tremendo del tuo. Non faccio gare. E non do giudizi.

Però, so quello che sento.

E, in questi mesi, il vuoto, e il silenzio, mi hanno privato di tutto. Di ogni gioia di respirare.

Non è passato un giorno, o un istante, in cui il mio pensiero non ti abbia cercata, e celebrata, Rosa.

Nelle strade che vedevo, e che insieme abbiamo fatto. Nei bar dove insieme abbiamo preso un caffè. Nella casa dove facevamo l’amore. Nella mia auto dove ti leggevo le pagine che più mi sembrava potessero raccontarti quanto ti amavo. Quanto ti amo.

Potrei raccontarti ogni singolo giorno trascorso senza le tue parole, il tuo sguardo, o le tue labbra, semplicemente ritrovando, e facendoti guardare, le gocce di sangue che mi sono cadute dalle ferite, in ogni luogo dove tu ed io abbiamo camminato, tenendoci per mano, o facendo finta di conoscerci appena.

Eppure, in questi mesi, la cosa più terribile, non è stata solo questa, ma il mio tentativo, costante, di non pensarti. Di accettare che mi hai lasciato, e senza neppure spiegarmi perché. Provare a cercare in me, ragioni per vivere, mentre invece, tu sei la mia unica ragione, per vivere. Sentire d’aver dentro un baratro, infinito, e lottare per non avvicinarmici mai, a guardarci dentro. Perchè era giusto rispettare la tua volontà, certo, ma anche perché, di fronte a quel baratro, io sarei precipitato senza salvezza. E non so immaginare, credimi, quanto avrebbe potuto essere persino peggiore di quel che è stato, e di quello che è.

Provo a farti un singolo esempio, per spiegare, ammesso sia possibile, una parte del mio dolore.

Ricordi, forse, la prima volta che, con l’auto, tu ed io siamo saliti al Gran Sasso a guardare la notte, e ci siamo nascosti in una stradina laterale, neanche asfaltata, che saliva improvvisa su una gobba di terra e arrivava ad un piccolo piano nascosto, a chi guidasse l’auto, più sotto sulla strada.

Oggi, rifare quella strada, significa guardare i monconi degli alberi che hanno tagliato, e i cespugli sradicati persino, e ascoltare le mute dei cani caccia, col collare dotato di sistema satellitare di segnalazione, che corrono abbaiando dietro una lepre che fugge spaventata e travolta, dove non dovrebbe esserci caccia; ed è come pensare al nostro amore, progressivamente privato d’ombra fresca, e di linfa che corre dentro le vene, e di possibilità di crescita e curiosità, e guardare impotente le radici tagliate, ed esposte fuori dalla terra, come braccia che, invano, cerchino pioggia di cielo per bere, e placare l’arsura, di te.

Ogni angolo di palazzo e incrocio di strada, e ogni fiore e ogni farfalla, di te mi parla e suggerisce, e io non posso parlarti.

M’hai raccontato che il segretario regionale del tuo sindacato, ha provato ad usarti violenza. E io ho pianto. Di dolore, per te, che sei stata sottoposta a questo, solo per voler essere migliore e meglio aiutare gli altri; come se ci fosse un prezzo osceno da dover pagare solo per realizzare le proprie aspirazioni, neppure egoistiche. Ma anche di rabbia.

Perchè io non ero lì a proteggerti. Perchè io non avevo saputo prevedere quello che poteva accaderti.

Ma anche di frustrazione, ho pianto.

Perchè mi hai chiesto di non reagire. Perchè mi hai chiesto di non parlarne. Perchè mi hai spiegato di non poter denunciare, solo perché sarebbe stata la tua parola, contro la sua. E lui era il segretario regionale.

Nessuno sapeva, del nostro amore. Tu, donna sposata, e io, uomo solo e lontano che non esisteva, se non nei tuoi pensieri. Ribellarsi, sarebbe stato anche, rivelare quanto io mi sentissi responsabile per te, e non potevo, e non dovevo.

Quello che ti aveva fatto quel tizio, me lo sentivo addosso come un marchio d’infamia per qualsiasi uomo, io anche, pure se non t’avrei sfiorato mai, neanche coi petali di un fiore. E sapevo, che tu avresti avuto bisogno che, invece, io esistessi. Non perché fosse tua necessità avere  qualcuno che ti difendesse, ma solo perché a me avresti potuto liberamente rivolgerti, e, forse, la mia sola presenza, avrebbe frenato l’orrendo sfregio che t’era stato fatto.

Non avevi neanche la libertà d’essere abbracciata da me, dovevi invece restare sola, tu ch’eri capace, d’esser sola, ma avresti avuto diritto a prendere la mano che ti tendevo.

Forse da quella storia che m’hai raccontato, hai cominciato a sentire che io non ero abbastanza. Che la nostra condizione era per te una gabbia.

Forse di questo sono responsabile. Forse sono responsabile di non aver saputo amarti, come tu avevi bisogno che fosse. E se oggi mi hai lasciato dietro le tue spalle è perché ritorni nella tua casa, con un uomo che, alla luce del sole, può arrivare a prenderti quando finisci di lavorare, ora che hai lasciato il sindacato, nel quale tante speranze avevi riposto, fino a fare sacrificio di te. Persino il sacrificio di un silenzio che avrebbe dovuto essere gran rumore.

Ho scelto di consegnarti questo foglio, scritto a mano, perché sta bruciando la nostra casa, e io non so se ne uscirò vivo; perché il ghiaccio dei monti si è sciolto e io ne sono rimasto travolto. Perchè mi sento colpevole, anche senza esserlo, forse.

Perchè volevo che tu sapessi che, nel buio di una infinita solitudine, io ancora guardo al fuoco d’amore che dentro m’arde di te, per cercare luce.

Colonna sonora : “Crystalised” – XX –

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