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Il linguaggio della burocrazia

Ott 4, 2022 | Storie

Una donna percepisce l’indennità di Disoccupazione, perché licenziata.

Può accadere che la donna, durante il periodo in cui percepisca l’indennità di Disoccupazione, resti incinta.
La Legge prescrive che, per poter percepire l’indennità di Disoccupazione, lo stato di Disoccupazione debba essere involontario, e che la persona, debba, nello stesso tempo, essere immediatamente disponibile ad iniziare una nuova occupazione ove questa le venga offerta.

Lo stato di gravidanza è un momento delicato, nella vita di una donna. Molte donne sono in condizioni, fisiche e psicologiche, di proseguire il loro rapporto di lavoro, quando siano regolarmente assunte, sino al momento in cui non scatti la cosiddetta “gravidanza obbligatoria”, vale a dire, al termine del settimo mese di gravidanza; molte, scelgono di usufruire degli elementi di flessibilità offerti dalla Legge, e preferiscono lavorare fino al termine dell’ottavo mese di gravidanza, e, in alcuni casi, addirittura fino all’ultimo giorno prima del parto. Tali possibilità sono regolamentate dalla legge, e tutelate da certificazioni mediche che dovrebbero essere accurate.

Ma, in molti altri casi, la gravidanza può presentarsi a rischio, vuoi per la madre, vuoi per il nascituro.
In questi casi, la Legge, previa certificazione medica sia di un ginecologo curante, che della Medicina Legale della ASL competente, cui spetta il compito di emettere uno specifico provvedimento di “interdizione”, prova a tutelare il buon esito finale della gravidanza, attraverso l’espresso divieto ad effettuare prestazione lavorativa, fino alla data presunta del parto.

Tale tutela, la Legge la estende anche alla Lavoratrice che usufruisca della indennità di Disoccupazione. D’altra parte, se la Lavoratrice momentaneamente disoccupata, con una gravidanza a rischio, fosse chiamata a prestare una attività di lavoro, ella dovrebbe, obbligatoriamente rifiutare, poiché la legge tutela il bene primario della salute della madre e del nascituro, prima ancora del suo obbligo a rientrare a lavoro in presenza di un’offerta, mentre percepisce l’indennità di disoccupazione.

La Lavoratrice, che percepisca l’indennità di Disoccupazione, quando sia a conoscenza che la propria è una gravidanza a rischio, sarebbe tenuta ad attivare tutte le procedure previste dalla Legge per informare l’INPS di tale evenienza.
Ella, peraltro, sarebbe anche incentivata, sotto il profilo economico, a porre in essere queste procedure, poiché, dal momento in cui la ASL emetta il provvedimento di Interdizione, e fino al compimento del terzo mese dopo il parto, la sua indennità di Disoccupazione sarebbe sospesa, ed ella percepirebbe dall’INPS un trattamento di Maternità, che, appunto, nel sospendere il trattamento di Disoccupazione, in realtà lo prolunga per un numero di mesi pari a quelli precedenti il parto – dal momento dell’Interdizione – e fino ai tre mesi successivi al parto appunto.
Un beneficio economico che, insomma, può anche essere notevole, a seconda delle condizioni individuali, aumentando, fino ad un massimo anche di dieci/undici mesi la percezione di una indennità, pur senza essere a lavoro.

Vale la pena, ora, di raccontare un caso concreto.

Una donna, che percepisce una indennità di Disoccupazione, resta incinta, ed ha una data presunta del parto, fissata al prossimo 18 ottobre. Ella dovrebbe, comunque, comunicare all’INPS la propria gravidanza obbligatoria, a far data dal 18 agosto, interrompendo così il trattamento di Disoccupazione per il periodo di normale astensione obbligatoria per gravidanza, di cinque mesi complessivi.

Se ella avesse voluto approfittare della propria condizione, per lucrare qualche mese in più di indennità, è immaginabile, avrebbe cercato di certificare un rischio, mesi prima del momento in cui avrebbe dovuto partorire.

Ella, in data 21 luglio scorso, utilizzando una specifica procedura presente sul sito INPS, che si definisce “ scrivi alla sede “, pone all’INPS un quesito : “ Quanti giorni mancano alla fine dell’erogazione della NASPI ? “.
E’ consapevole infatti, che il suo periodo di copertura derivante dalla indennità di Disoccupazione, è al termine, più o meno, e, appreso che la propria gravidanza sta dando dei problemi, vuole sapere entro quando possa/debba presentare istanza di Interdizione, per poter restare tutelata fino al terzo mese dopo il parto.
Vale la pena ricordare qui, che ella sarebbe entrata in gravidanza obbligatoria il 18 agosto ( ventotto giorni cioè, dopo questa domanda posta all’INPS ).

Lo stesso giorno, a distanza di qualche ora, sempre per il tramite della stessa procedura, INPS risponde testualmente: “Restano da pagare 36 giorni di NASPI“.

La Lavoratrice si tranquillizza, e si reca alla ASL per chiedere il provvedimento di interdizione anticipata, sulla base di un certificato rilasciato dal ginecologo curante, in data 9 agosto, ottenendo un provvedimento di Interdizione anticipata per 9 giorni, visto che, il 18 agosto, comunque, sarebbe entrata in maternità obbligatoria, in un periodo, comunque, che ella riteneva già coperto dalla sua Indennità di disoccupazione, visto che l’INPS, il 21 luglio, vale la pena ripetere, le aveva scritto che restavano 36 giorni ancora di NASPI da pagare, cioè, secondo i suoi calcoli, fino al 26 agosto.
La sua richiesta di Interdizione anticipata, era dettata quindi da un reale problema, e non da un accorgimento furbo, per prolungare artificialmente e senza diritto un sostegno economico: non ne avrebbe avuto bisogno, almeno secondo le sue valutazioni.

L’INPS, però, respinge la sua domanda di Maternità anticipata, e, interrogato sulle motivazioni, l’Istituto, testualmente risponde : “ La risposta dell’INPS – data al quesito della Lavoratrice – si riferisce ai giorni ancora da pagare; essendo la NASPI pagata in via posticipata, al momento della richiesta, i pagamenti erano stati effettuati fino al giorno 30 giugno 2022, pertanto, i 36 giorni decorrono dal 01/07/2022, e non dalla data della richiesta del conteggio. La richiesta non può essere accolta, poiché l’inizio del congedo di maternità anticipata al 09/08/2022 non si colloca all’interno della NASPI, con data fine 06/08/2022”.
Finita l’Indennità di Disoccupazione, finita quindi anche ogni possibile tutela economica della Maternità.

In sostanza, mentre la Lavoratrice chiede quanti giorni, alla data del 21/07 residuano, del suo trattamento di NASPI, l’INPS risponde, che restano 36 giorni da pagare, senza specificare che tale conteggio decorre dal 01/07.

Forse è possibile discutere della corretta comprensione di un testo in lingua italiana. O forse è possibile discutere della corretta formulazione di una domanda.

Quello che non è possibile discutere, è la strumentalità della risposta dell’INPS alla domanda della Lavoratrice. Si tratta di una risposta ambigua e fuorviante, ad una domanda invece precisa: “ quanti giorni restano…”.
Non degna di un Ente Pubblico, il cui compito dovrebbe essere quello di erogare prestazioni cui i cittadini hanno, fino a prova contraria, diritto.
Non degna di una pubblica funzione che dovrebbe essere amica del cittadino e non invece burocraticamente inappuntabile, forse, ma terribilmente lontana dall’offrire una concreta assistenza a chi in tranquilla buona fede abbia solo bisogno di chiarezza per tutelare al meglio, sé stessa e una nuova vita che deve nascere.

La lingua italiana, è vero, si presta a molteplici interpretazioni; nel senso e nella forma.
Siamo abituati però, troppo spesso, a leggere in ogni sorta di comunicazioni ufficiali, formulazioni funzionali alla sola tutela di interessi economici molto precisi e pressochè inattaccabili ( Assicurazioni, Banche, Società Finanziarie, grandi erogatori di servizi pubblici, come acqua, luce, gas, telefonia etc. ), ma non ci aspetteremmo che questo atteggiamento prevaricatorio fosse praticato anche da un Ente, le cui entrate economiche, derivano in larghissima parte dalla contribuzione che Lavoratrici e Lavoratori, ogni mese, si vedono trattenuta in busta paga e che è chiamato ad erogare prestazioni in forma solidaristica e mutualistica.

Gli antichi Romani dicevano che: “ Ignorantia legis non excusat “, la mancata conoscenza della Legge, cioè, non è una scusante per comportamenti non previsti dalla Legge stessa; ma dicevano anche che “ Summum ius, summa iniuria”, vale a dire cioè, che l’applicazione letterale di una Legge, può condurre ad una intollerabile ingiustizia.

E quando questo accade, non resta che cambiare la Legge. O chi è chiamato ad applicarla.

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