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Storia di una donna, madre.

Nov 29, 2022 | 2022, Storie

Ci sono pudori che, forse, non andrebbero attraversati.

E però, talvolta, decidere invece di affrontarli, può significare dar voce a parti di vita che esistono nella quotidianità di tante persone, ma che spesso si vorrebbero tener nascoste, magari addirittura negandone l’esistenza, tanto sono scomode e dolorose.

La realtà che viene più frequentemente rappresentata, più o meno ovunque, è una realtà adattata alle esigenze di consumo e vendita. E in questa rappresentazione della realtà, talvolta, persino il coraggio, e la sofferenza, sono usati solo per fare spettacolo.

E’, in ogni caso, molto difficile accostarsi a certe storie, quando non le si viva sulla propria pelle; quando si ha la fortuna di non doverle vivere sulla propria pelle. Ma se lo si voglia fare, bisogna vincere anche il pudore di sentirsi senza difese, quando ci si accosti davvero alle storie degli altri, per provare a trarne emozioni, e ragioni, che siano capaci di illuminare, con rispetto, quei frammenti di esistenza che una società della rappresentazione tende a rimuovere, a considerare residuali e non raccontabili, quindi, non esistenti, perché potrebbero mettere in discussione una immagine di artefatta felicità, funzionale però a vendere. A vendere qualsiasi cosa.

Un tempo, i figli colpiti da disabilità, o da problemi che la scienza non era in grado di conoscere, o affrontare, erano nascosti, negato spesso il loro stesso essere, giustificato magari, solo in nome di un dio dalle insondabili volontà.

Erano tenuti in casa chiusi, dalle loro stesse famiglie, o affidati a istituzioni reclusive: talora veri e propri luoghi di assoluta sofferenza.

Un tempo non lontano, in Italia, esistevano le “classi differenziali”, in cui, per tutto il Novecento, quasi, venivano relegati nelle scuole i ragazzi portatori di handicap, o quelli affetti da disturbi dell’apprendimento, o magari quelli troppo vivaci, o troppo poveri, per stare con gli altri; con i “normali”.

Furono le lotte del Sessantotto, a porre le basi per lo smantellamento di questo sistema escludente e ghettizzante, aprendo un processo che, nel 1977 produsse la Legge che abolì le classi differenziali, e i bambini poterono finalmente iniziare a stare tutti insieme, e a conoscersi.

Il disagio, la sofferenza, le difficoltà, cominciarono ad uscire di casa, e a chiedere di vivere una vita degna di essere vissuta, in città capaci di accogliere pienamente ogni loro abitante.

Un percorso, oggi, ancora tutto da inventare e completare.

Le disabilità, e le difficoltà, non sono tutte eguali.

Si presentano con differenti livelli di gravità: alcune precludono quasi ogni forma di esperienza e di vita cosciente; altre invece, pur gravi, consentono di maturare ed elaborare consapevolezza di sé e di vivere pienamente. Talune hanno natura degenerativa; altre cronica. Da alcune si può guarire, altre invece conducono prematuramente alla morte.

Le famiglie, che affrontano difficoltà e disabilità, non sono tutte eguali.

Vi sono italiani e stranieri. Ci sono famiglie con un livello di istruzione alto, cui corrisponde spesso una competenza economica adeguata, e famiglie con un livello di istruzione basso, cui corrisponde spesso una competenza economica insufficiente. Ci sono famiglie in cui prevale l’amore, e altre in cui prevale il dolore; ci sono famiglie in cui prevale la cura, ed altre in cui prevale l’indifferenza, o persino l’uso strumentale di una debolezza o di una disabilità.

E le famiglie non vivono tutte negli stessi luoghi.

C’è chi vive in grandi metropoli, in cui sono disponibili numerose risorse per fronteggiare l’insorgere di eventuali problemi, o per gestire quotidianamente situazioni complesse e difficili. E c’è chi vive invece lontano dalle città e solo con difficoltà può raggiungere, o essere raggiunto dalle terapie o dagli ausili necessari.

Queste sono solo alcune delle condizioni di contesto, in cui si muovono le persone, e ognuna di queste situazioni, s’intreccia con le altre, configurando realtà che potremmo definire di massima difficoltà, da una parte, o di difficoltà sostenibile, dall’altra, fino ad individuare ogni singola concreta esperienza, che, comunque, è caratterizzata dalla problematicità, dalla sofferenza, dal coraggio necessario ad affrontarla; dalla presenza, o meno, di un sistema di sostegno adatto, calibrato ed efficiente, oltre che giusto.

Una madre, ad Aquila, si trova ad affrontare la difficoltà di suo figlio, colpito da una malattia rara, non degenerativa, ma cronica, e, al momento, senza speranza di remissione.

Il primo strumento che lo Stato mette a disposizione, in una situazione di questo genere, è la procedura per il riconoscimento di una cosiddetta “ invalidità civile “. E’ una Commissione Medica INPS, a riconoscere, o meno, la sussistenza del diritto.

L’Invalidità Civile, per un minore, può consistere innanzitutto nell’erogazione di una cosiddetta “Indennità di Frequenza”, pari a poco meno di 290 euro mensili; cui può aggiungersi una “Indennità di Accompagnamento”, nei casi più gravi, pari a circa 522 euro al mese.

In certe condizioni, il riconoscimento della Indennità di Frequenza può consentire alla madre lavoratrice ( comunque al genitore ), di usufruire o di permessi retribuiti, per assistere al figlio ( tre giorni al mese ), o di un Congedo Straordinario ( la madre – comunque il genitore – ha a disposizione 2 anni di congedo, frazionabili, e retribuiti, nell’arco dell’intera vita della persona da assistere ).

Il riconoscimento di una Indennità di Frequenza, è, in genere, sottoposto a revisione, vale a dire cioè che, ad esempio dopo un anno dal riconoscimento, il bambino deve tornare ad essere visitato dalla Commissione perché gli venga ancora riconosciuto il diritto.

Nella quotidianità accade quindi che questo beneficio duri fino ad un certo giorno, e la revisione, pur riconoscendo ancora la sussistenza del diritto, magari, produca i suoi effetti burocratici – ad esempio quindi la possibilità di godere di permessi o di congedo retribuito – solo un mese dopo la cessazione del diritto precedente.

In questo caso, solo la casuale buona volontà di un funzionario INPS, può assicurare continuità nell’assistenza del minore; perché altrimenti, i benefici prima si interrompono, e poi ripartono.

E questo vale ad esempio, non solo per la possibilità di essere materialmente vicino al bambino, ma anche per la possibilità di usufruire gratuitamente di farmaci salva vita, o di esenzioni dal pagamento di ticket per esami strumentali assolutamente necessari a diagnosticare l’insorgenza di un problema che, purtroppo, data la tipologia di quella malattia rara, si presenta molto frequentemente, e richiede l’immediato intervento terapeutico, per salvare la vita del minore.

Ecco allora che si comincia ad intravedere la prima delle zone d’ombra che una madre deve affrontare, quando voglia essere vicina a suo figlio, quando voglia contrastare gli esiti potenzialmente gravissimi della malattia; quando voglia provare a costruire una quotidianità positiva e gratificante, nonostante le difficoltà.

Tale zona d’ombra, riguarda la relazione esistente tra malattia e un sistema di sostegno pubblico che non dovrebbe avere una mera funzione risarcitoria, per il male che si è costretti a combattere, ma che dovrebbe invece avere una funzione promozionale che consenta, per quanto possibile, di attuare quel dettato costituzionale che dovrebbe vedere lo Stato impegnato a garantire ad ogni suo cittadino, la possibilità di partecipare pienamente alla vita pubblica del Paese, oltre a garantirne il diritto alla salute. Ma qui, la questione è, se possibile, anche più delicata, poiché impatta su uno degli affetti in genere più totalizzanti che una persona possa provare: l’amore di una madre per suo figlio.

Uno stato sociale che non risponda alla domanda, non solo di aiuto, ma di promozione del miglioramento nei confronti di una condizione difficile, è uno stato sociale svuotato delle sue funzioni, e ridotto a dama di carità, il cui compito, sia pure encomiabile, non è in nulla paragonabile a quello che dovrebbe essere un moderno patto di cittadinanza, tra l’Italia e le sue madri, verrebbe da dire.

Ogni volta che le esigenze della burocrazia, sia pure talvolta importanti, confliggono con l’esigenza di prestare immediato ed incondizionato aiuto ad un bisogno reale, una ferita è inferta a chi già è costretto a confrontarsi quotidianamente con la distanza che corre tra i sogni che nutre per i propri figli, ed una quotidianità fatta talvolta di difficoltà anche pesanti e terribilmente tangibili.

Quando i cosiddetti Livelli Essenziali di Assistenza, prescrivono che, per una data malattia, il farmaco salvavita sia fornito gratuitamente solo nella farmacia dell’Ospedale, non si può, come accade ad Aquila, tenere la Farmacia ospedaliera chiusa il sabato e la domenica.

Può insorgere una esigenza; la persona può essere sprovvista del farmaco, le farmacie comunali potrebbero essere quel giorno sprovviste del farmaco, o la persona potrebbe non avere il denaro sufficiente a comprare quel farmaco, che una qualsiasi farmacia non è tenuta a fornire gratuitamente, e magari talvolta sarebbe anche obbligata, per quel farmaco, a richiedere una ricetta che, in situazione di emergenza, nessuno potrebbe rilasciare.

C’è il Pronto Soccorso, si potrebbe dire.

Certo, se questo non significasse magari intasare ulteriormente quella struttura già in forte sofferenza, per qualcosa che potrebbe essere tranquillamente fatto altrove, o se questo non significasse sottoporre un bambino ad un ulteriore stress e magari ad ore di attesa in un ambiente, di per se stesso difficile da abitare.

I Livelli Essenziali di Assistenza descrivono un trattamento fondamentale da assicurare, ma minimo ed economicamente compatibile con il bilancio dello Stato; ecco allora sopravanzare una ulteriore zona d’ombra: per una madre che voglia assicurare al proprio figlio una assistenza ed un supporto capaci di soddisfare ogni necessità, inizia un conflitto con le risorse, che la collettività mette a sua disposizione; come se una vita in cui recuperare tutte le opportunità esistenti per sopperire ai deficit che la malattia produce, sia un lusso non permesso. Quello che è permesso è affrontare i problemi più importanti; altri problemi, possono essere affrontati, solo se si sia in grado di sostenere le spese che essi comportano. Quindi, gli integratori, essenziali ad alcune funzioni vitali del corpo, non sono mutuabili; così come non lo sono alcuni ausili che consentirebbero minori crisi di quella malattia che è specificamente localizzata in alcune zone del corpo, cui gli ausili cui si deve autonomamente provvedere, sarebbero, appunto, un aiuto vero, non un capriccio.

Può accadere che non tutte le strutture dell’ospedale aquilano, siano in grado di fronteggiare quella particolare malattia rara, perché, anche qui, il bisogno di salute si misura con la sostenibilità economica di un sistema privato delle risorse necessarie da una evasione fiscale sistematica e sistematicamente condonata – come sta facendo l’attuale Governo del Paese – ma che sia necessario, per esami strumentali, e per particolari terapie, rivolgersi ad una notissima ed importante struttura ospedaliera di Roma.

E qui, la madre, si scontra con ombre ancor più sottili.

Le strutture ospedaliere, da anni, sono state trasformate in Aziende Sanitarie Locali. E cosa fanno, le Aziende ? Le aziende, innanzitutto, si fanno concorrenza tra loro.

Ecco allora che persino la malattia, diventa un terreno di scontro, e di rappresentazione, e anche di comunicazione esterna.

Ha molta più capacità di suscitare emozione, ed attenzione, e quindi finanziamenti, una medicina che possa significativamente intervenire in casi eclatanti, difficili, “spettacolari”, come può essere un complesso trapianto d’organi, piuttosto che la defatigante gestione di una malattia cronica, sia pure potenzialmente mortale, e rispetto alla quale molto si riduca a pura routine, sia pure delicatissima e fondamentale.

Una madre se ne accorge quando suo figlio è dimesso dall’ospedale, prima del solito tempo necessario al decorso, perché occorra liberare i letti per una emergenza telegenica, per quanto importante e drammatica, quale quella dell’arrivo di profughi bambini dall’Ucraina, che richiedano importanti cure mediche.

Non si dovrebbe mai esser costretti a fare la classifica delle disgrazie.

E non si dovrebbe trattare allo stesso modo, dando loro la stessa “indennità di frequenza” un bambino dislessico e un bambino che ha necessità continua di monitoraggio ed attenzione per intervenire nei momenti di crisi dei quali non ci si deve interrogare se avvengano, ma solo sul “quando” avvengano.

L’aziendalizzazione della Sanità, produce anche una organizzazione che entra in conflitto con la necessità di colloquio e confronto col paziente e con la sua famiglia. Ed ecco allora che la madre che scrive ai medici una mail per essere confortata su alcuni dubbi, o procedure da attuare, diventa un ulteriore impegno che non può aggiungersi agli obblighi già pesanti di rendicontazione e di burocratica gestione del sistema richiesti anche ai medici, e le sue domande possono restare senza risposta, magari non per cattiva volontà, ma solo perché non è codificata nel tempo di lavoro di un’azienda, la relazione tra medico e paziente. Ma può una madre accettare di restare senza risposte, perché il sistema non prevede che lei possa fare domande ?

Sarebbe ora che lo Stato si ponga il problema di affrontare le solitudini delle madri, e delle famiglie che affrontano difficoltà e disabilità, non solo, e non tanto, attraverso un approccio che vede nell’erogazione di una somma, mai realmente sufficiente peraltro, la soluzione al problema, o peggio, come ormai siamo abituati a vedere a livello locale, attraverso il continuo ricorso, da parte della Regione, o del Comune, utilizzando fonti di finanziamento comunitarie o nazionali, spacciate per proprie, ad una logica di “Bonus”, episodici, mai in grado di coprire il reale ventaglio delle esigenze e spesso tarati per essere messi in campo, solo in prossimità di appuntamenti elettorali.

C’è bisogno di una rete di servizi reali, che connetta le strutture pubbliche ed i loro compiti, da allargare e qualificare, alle strutture di privato sociale e di volontariato, dando un ruolo propulsivo e nuovo anche alle scuole pubbliche e ai processi di integrazione e confronto che lì si realizzano, per accompagnare le madri, cui non dovrebbe essere, ovviamente riservato in esclusiva il lavoro di cura, e quindi anche i padri, e le famiglie, più in generale – comprese le famiglie omogenitoriali che potrebbero svolgere importanti ruoli nei processi di affidamento dei minori soli, in attesa di maturare una legislazione degna sulle adozioni – con le loro specificità, di cultura, di lingua, di possibilità economiche, in percorsi personalizzati di sostegno e promozione.

E sarebbe necessario comprendere che i tempi di vita, e di lavoro, di una madre, che è anche una donna, ed ha suoi desideri, e bisogni, non si esauriscono con i due anni di congedo straordinario che possono essere concessi, poiché un bambino di due anni, cresce; diventa un bambino di sei anni, e di dodici anni e le esigenze crescono, e cambiano qualità, e la risposta non può essere una madre che possa solo decidere di smettere di lavorare per dedicarsi unicamente all’assistenza dei figli.

Occorre riformare, con la stessa cura e amore di una madre verso il suo figlio in difficoltà, uno Stato Sociale pensato in un’epoca in cui a prevalere era una forma fordista dell’economia, e poi progressivamente destrutturato, attraverso i processi di autonomia regionale e di privatizzazione del servizio pubblico, e che oggi andrebbe posto invece a confronto con una realtà economica e sociale frammentata ed un universo di bisogni cui non si può più rispondere con un approccio che sembra uguale per tutti, ma che, in realtà, produce disparità, diseguaglianze ed esclusioni inaccettabili.

La madre di cui raccontiamo, ha anche imparato, durante il periodo pandemico, a praticare iniezioni per via intramuscolare, di farmaci salvavita, per non sottoporre allo stress di continui tamponi di controllo, in tempo di pandemia da Covid 19, un bambino che ha spesso esigenza di frequentare l’Ospedale; forse allora è il caso di comprendere anche  che dovrebbe esistere un modo di organizzare la partecipazione delle persone destinatarie della cura, alle modalità di funzionamento e di risposta che offre loro la struttura pubblica. Le persone hanno un loro sapere, che vale la pena di conoscere e valorizzare.

Perchè è solo dando trasparenza, e pubblicità, a certi processi, che si evita il vizio tutto italiano di avere maggior riguardo di taluni che sono “più uguali degli altri”, che, in certe condizioni, diventa davvero insopportabile e moralmente ingiusto: non possono esserci “canali privilegiati” e “conoscenze” che accorcino distanze che tutti sono chiamati a percorrere. Il diritto ad essere curati ed assistiti, in modo eguale e non discriminatorio, ciascuno secondo le proprie effettive esigenze, dovrebbe essere la bussola che guida le decisioni di chi abbia la responsabilità di governare.

Fa parte della nostra evoluzione di essere umani, aver costruito la possibilità di attraversare la vita non da soli, di fronte alle insidie e alle difficoltà del mondo.

E noi dobbiamo restare umani.

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