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Un pensiero lungo 14 anni.

Mar 31, 2023 | Storie

Pubblicato su “Il Centro” a febbraio del 2009

E’ in atto una crisi politica al Comune de L’Aquila, che potrebbe condurre anticipatamente al voto la Città.

Una simile ipotesi sarebbe un danno grave per L’Aquila. Che ha bisogno di governo, e di scelte, in una fase di crisi economica e sociale dai contorni drammatici. Mi permetto di intervenire sul tema per chiedere a tutti gli attori politici e istituzionali una seria assunzione di responsabilità. Ma anche precise consapevolezze e determinazioni concrete.

La nostra città è stata lasciata, dopo quasi un decennale governo della coalizione di centrodestra, in uno stato di declino morale, economico, urbanistico, organizzativo e di Bilancio. Il simbolo di tale sfascio è la rovina della città attuata con la determinazione di dare il via alla cosiddetta metropolitana di superficie. Tale stato si è acuito con i provvedimenti dell’attuale Governo nazionale che hanno sottratto rilevanti risorse alle disponibilità comunali.

La maggioranza che i cittadini hanno eletto due anni fa al governo de L’Aquila ha il dovere di costruire le risposte alla marginalizzazione della città, e ha il dovere di farlo nel segno di una netta discontinuità con il passato. Ancor più necessaria dopo il preciso segnale, che i cittadini hanno voluto inviare, di rifiuto di questa politica, ricevuto con l’astensionismo di massa alle Elezioni per il Consiglio Regionale dello scorso dicembre.

Ciò che appare più urgente è affrontare i nodi reali della città, nel merito, avendo il coraggio di non trincerarsi dietro vuote formule che non parlano più a nessun cittadino, e su questi stabilire l’azione di governo, ove  ve ne siano le convergenze. Provo ad indicarne alcuni:

  • Esiste una Questione Morale legata all’urbanistica della città. Quello che oggi appare è la prevalenza dell’interesse privato dei costruttori edili e della rendita fondiaria che, volta per volta e in continuità, a prescindere dal colore della Giunta Comunale, contrattano con l’Amministrazione interventi al di fuori di un qualsiasi quadro programmatorio, ponendo poi la città di fronte al falso dilemma se compiere un intervento o meno con lo stucchevole dibattito sulle “incompiute” o su quelli che “dicono no” a tutto. Nessuno che si chieda cosa serva davvero alla città, e soprattutto cosa non serva. Tale quadro va integralmente rovesciato, in nome di un interesse pubblico prevalente. Interesse pubblico che non può sempre orientare le proprie risorse solo a completamento di progetti privati, soprattutto in un momento in cui, col federalismo fiscale prospettato dal Governo, tali risorse rischiano di essere ancora più scarse, ponendo la città, di fatto, sotto il ricatto di interessi privati barattatti per sviluppo, naturalmente, “in variante”;

  • Il Governo si appresta a varare provvedimenti che prevedono che i servizi pubblici, solo eccezionalmente siano di proprietà pubblica: quale è la determinazione della Giunta Comunale nel riorganizzare le municipalizzate aquilane, anche abbattendone i costi, come proposto da anni dalla CGIL che chiede una unica azienda municipalizzata multiutility che trovi sinergie industriali con altre aziende pubbliche regionali, e non solo,  e risolvendo anche per questa via ad esempio il problema dei rifiuti ?

  • Occorre, in tempi rapidi, assumere una decisione politica sulla cosiddetta metropolitana di superficie, e non attendere che il quadro delle risorse disponibili, di per sé, determini la decisione politica, ed occorre che si proceda per danno erariale nei confronti di chi ha preso tutte le sciagurate decisioni che hanno devastato la Città;

  • Occorre che le determinazioni di Bilancio coinvolgano le Parti Sociali, strutturalmente, in sede preventiva e in sede consuntiva, anche intervenendo sullo Statuto Comunale, proprio nel momento in cui invece il Governo nazionale provvede a scegliersi l’interlocutore sociale e a operare nel segno della restrizione degli spazi di libertà e di democrazia:

  1. Occorre determinare con trasparenza, e nel segno dello sviluppo innovativo, il rapporto, anche sul piano urbanistico, dell’Amministrazione comunale con l’Università, che va supportata, e con la ASL e la medicina del Territorio, che sono nodi essenziali dell’economia e del futuro, anche occupazionale del nostro Territorio, oltre che di investimento sui giovani;

  2. E, infine, occorre una idea di priorità infrastrutturali, anche immateriali,  nei Nuclei industriali, nelle periferie e nelle frazioni, e nel rapporto con il territorio provinciale e regionale e con la Capitale, e tra le priorità occorre inserire la vivibilità urbana, la possibilità di camminare e correre senza auto, la possibilità di socializzare senza l’obbligo al consumo: il restauro e la messa in sicurezza del patrimonio urbano, il verde pubblico, la ripavimentazione stradale.

Naturalmente l’elenco potrebbe essere ben più lungo, ma credo che il punto essenziale per  L’Aquila, e per la sua Amministrazione, risieda nel dare concreti e reali segnali ai suoi cittadini della fine di una stagione in cui le scelte politiche siano solo il frutto di mediazioni non trasparenti tra interessi parziali. E’ necessario rispondere in tempi brevissimi per provare a rispondere in modo articolato e complesso, anche con misure di welfare locale, e politiche tariffarie differenziate e progressive, alla tremenda crisi in atto. Chi non comprenda la portata della posta in gioco, in un tempo di grandi mutamenti, è destinato alla scomparsa politica, e alla gravissima responsabilità di aver reso il capoluogo di Regione una vera nullità, sul piano regionale, nazionale e europeo.

Zona Franca Urbana, la fiera degli equivoci

27/05/2010

Ad ottobre del 2009 la Commissione Europea approva l’istituzione delle Zone Franche Urbane ( in Italia, sono 22 ), e il connesso regime di aiuti ( esenzioni fiscali, esenzioni contributive ).

Nella lettera al Governo italiano, la Commissione Europea rimarca che questo regime di aiuti:

  • interessa solo le piccole e le microimprese ( rispettivamente, come meno di 50, o con meno di 10 dipendenti, entro certi limiti di fatturato annuo ), costituite dopo il 1/1/2008;

  • interessa quartieri svantaggiati, da rivitalizzare, di aree urbane e può coinvolgere aree abitate da un massimo di 30.000 persone;

  • non mira ad incentivare investimenti e a creare occupazione, quanto a porre rimedio all’esclusione sociale;

  • richiede una strategia integrata, che coinvolga l’istruzione, gli alloggi, la lotta all’esclusione, lo sport;

  • viene accettato dall’Unione Europea, perché avrà impatto molto limitato sugli scambi.

Lo strumento della Zona Franca Urbana, nato in francia, è stato introdotto nella legislazione italiana nella Finanziaria 2007 dal Governo prodi, con le finalità individuate nella lettera della Commissione europea di accettazione del regime di aiuti proposto dal Governo italiano.

E questo strumento, ancora formalmente da approvare dall’Unione Europea per L’Aquila, è nella legge 77/09, come una delle risposte ( altre sono i Contratti di programma, ad esempio ), individuate dal Governo per far fronte alle conseguenze economiche del sisma.

Restano però aperte alcune questioni:

  1. Nella Legge sono individuati 45 milioni di euro disponibili, ma non è specificato se siano il totale dell’intervento, o la cifra utilizzabile per ogni anno di vigenza del regime di aiuti ( tale questione non è stata sciolta dalla Delibera CIPE che autorizza la Zona Franca per L’Aquila, né è sciolta la questione dell’intensità di aiuto per singola impresa, peraltro ultimamente ridotta, in via generale, da un provvedimento governativo );

  2. Nella legge è ben specificato che i 45 milioni fanno parte delle risorse complessivamente stanziate per la ricostruzione delle aree colpite dal sisma ( che sono insufficienti ), e non sono quindi aggiuntivi;

  3. La legge prevede che tale regime di aiuti possa riguardare più di 30.000 persone nell’area colpita dal sisma, ma su questo, bisognerà attendere altri pronunciamenti governativi ed europei, e che possa riguardare solo le imprese costituite dopo il 6/4/2009, in deroga a quanto stabilito in via generale per le Zone Franche Urbane;

L’art. 107.2.b della versione consolidata del Trattato sull’Unione Europea, recita che sono compatibili con il mercato interno “ gli aiuti destinati ad ovviare ai danni arrecati dalle calamità naturali, oppure da altri eventi eccezionali”. Sarebbe possibile, perciò, immaginare una specifica misura di sostegno all’intera area colpita dal sisma, capace di riverberare i suoi benefici per l’intera provincia di L’Aquila, per il grado di interconnessione socio-economica che lega tutto il territorio. Ma non è stata questa, la strada scelta dal Governo, perché non ha, né la volontà politica, né le risorse. E, sul territorio provinciale, la lotta per raggiungere questo obiettivo è stata sino ad ora inadeguata ed insufficiente.

Ecco allora che la Zona franca Urbana per L’Aquila rischia di essere l’unica risposta al tessuto economico e produttivo colpito dal sisma, ponendo anche una pesantissima ipoteca sul futuro, perché sostiene un tessuto fatto solo di piccole e microimprese, i cui livelli di fatturato non potranno certo consentire innovazione e tanto meno ricerca.

La Zona franca de L’Aquila, secondo le regole dell’Unione Europea, non ha la finalità dunque di sostenere l’economia e gli investimenti, ma quella, nobilissima, di intervenire sulle esclusioni sociali. E quindi è la risposta, incoerente, alle necessità di rilancio e riqualificazione del tessuto economico e produttivo colpito dal sisma.

E questa storia, andrebbe raccontata per come è. Altrimenti, si è subordinati ad una propaganda che distrugge ancora di più le aree colpite dal sisma.

Non è mestiere del sindacalista

24/6/2010

L’articolo 4 L.77/09 ( ricostruzione de L’Aquila ), prevede che siano trasferiti alla Regione abruzzo, immobili appartenenti allo Stato, e gestiti dall’Agenzia per il Demanio, o dal Ministero della Difesa, e affida alla regione il compito di predisporre programmi di intervento per la ricostruzione di edifici pubblici con l’obiettivo di salvaguardare il ruolo operativo de L’Aquila quale capoluogo di Regione.

Nella nota 622 del 21/10/2009 il presidente della regione Abruzzo chiede un programma stralcio, del valore di 200,85 milioni di euro, per garantire la tempestiva esecuzione di lavori su 27 immobili della città di L’Aquila e della Provincia.

Una Deliberazione del CIPE del 6/11/2009 assegna al Presidente della Regione le risorse richieste per gli immobili individuati.

Dei 27 immobili individuati, ben 12 fanno riferimento a strutture di Forze dell’Ordine ( compresi i Vigili del Fuoco ); 4 sono strutture ecclesiastiche; 2 sono strutture del settore Giustizia; 4 fanno riferimento alla Regione Abruzzo; 2 alla Provincia; 1 al Comune e 1 all’INPS.

Sempre nella Delibera del CIPE del novembre scorso, si dice che entro il 30/6/2010, il Presidente della Regione deve rimettere una Relazione sullo stato degli interventi effettuati, atteso che si tratta di immobili particolarmente importanti per la ripresa dell’attività della Regione.

Forse, non è mestiere del Sindacalista, ma alcune domande meriterebbero risposta:

  1. Chi ha deciso, e perché, i 27 immobili individuati sono prioritari ? C’è stato un qualche livello di negoziato con qualcuno, su questo ?

  2. Le risorse indicate e stanziate dal CIPE sono effettivamente nella disponibilità del Presidente della Regione ?

  3. Se le risorse sono disponibili, e se sono state utilizzate, quali procedure sono state poste in essere per i relativi affidamenti dei lavori ? O, al contrario, quali procedure saranno utilizzate per l’affidamento dei lavori ?

  4. Qual è lo stato dell’arte, ad oggi, sugli immobili individuati ? Ed è predisposto, come il Presidente della regione assicura che sarà fatto, nella sua nota, un programma quadro completo di intervento su tutti gli edifici pubblici colpiti dal sisma nell’area del cratere ? Si può conoscere questo programma, o negoziare ?

Dovrebbe essere di estremo rilievo la trasparenza e il controllo di legalità su questi punti, e la negoziazione degli interventi, per capire se le risorse siano utilizzate con priorità coerenti con gli obiettivi; se si colga la necessità di ridare funzionalità al Capoluogo di regione, se, alla trasparenza delle procedure si affianchi la regolarità dei rapporti di lavoro, se ai lavoratori dei Settori Pubblici coinvolti sia assicurata una transizione dignitosa e sicura; se gli interventi siano inseriti in un quadro organico di ridisegno urbanistico delle funzioni cittadine de L’Aquila.

Ma, soprattutto, credo, dovrebbe essere prioritario affermare che esiste un diritto delle Forze Sociali a negoziare con il Presidente della Regione e Commissario per gli interventi sulla ricostruzione, risorse e priorità di intervento. Per dare trasparenza, partecipazione e democrazia al processo di ricostruzione.

Dare. Significa che oggi, non c’è.

Sanità equilibrista

Vale la pena leggere il Programma Operativo 2010 per la Sanità, presentato dalla Regione Abruzzo al Governo.

Il Piano Operativo si pone tre priorità.

Raggiungere l’equilibrio economico-finanziario
Non, curare i cittadini abruzzesi, dar loro migliori servizi e più prevenzione. Ma curare il Bilancio. L’equilibrio nell’uso delle risorse è importante. Ma la Sanità non è un’azienda. E’ un Diritto Universale dei cittadini. E’ una priorità imposta dal Piano di Rientro dal deficit, ma è declinata semplicemente come taglio delle risorse disponibili. A prescindere da quello che un Servizio Sanitario Pubblico potrebbe e dovrebbe fare, in relazione con le specificità sociali, economiche, demografiche, geografiche, epidemiologiche, del territorio in cui si opera. Questioni queste ultime, totalmente ignorate dal Piano Operativo Regionale.
Riqualificare offerta ospedaliera e servizi territoriali
L’unica riqualificazione descritta è la chiusura di tre presidi ospedalieri pubblici, senza il coraggio di specificare quali. E perché.
Migliorare la qualità percepita dai cittadini
Quella che va migliorata è la “qualità percepita”, non la qualità reale. D’altra parte, è meglio fare pubblicità, che non rimediare a Liste d’attesa di mesi, o anni, per ogni semplice esame diagnostico. Situazione che “costringe”, chi se lo può permettere, a rivolgersi alla Sanità Privata. O ad andare fuori Regione, aggravando per questa via il deficit. La Salute delle persone dipende dalla loro disponibilità di reddito. In Abruzzo.

Ai Medici di Base è chiesto di ridurre le prescrizioni. Semplicemente. E saranno posti sotto esame quelli che spendono troppo. Ancora una volta, la Salute delle persone non c’entra nulla. Quella che può essere la scrupolosità di un medico è percepita, e qualificata, come spreco.

Il ridisegno dei confini delle ASL, la chiusura di alcuni Presidi, implica la ridiscussione delle Piante Organiche. Ma il Piano Operativo non prevede su questo un ruolo del Sindacato. Ruolo che è duplice, a tutela dei Lavoratori della Sanità, e a tutela dei cittadini e del Territorio. Ma sarà un ruolo da conquistare. Per evitare che al Sindacato resti il solo ruolo di concordare come si fa Mobilità da un luogo di lavoro ad un altro per i Lavoratori in esubero; che è l’unico ruolo che il Piano Operativo assegna al Sindacato, visto che non si parla di contrattazione, quando il Piano Operativo prevede la rideterminazione del salario aziendale, il blocco totale del turn-over, e assunzioni da effettuare esclusivamente attraverso forme contrattuali flessibili, o “in convenzione”. Il Piano Operativo disegna una Sanità che ha l’obiettivo di ridurre i Salari e che “comanda” i suoi Lavoratori, o ne ricatta la disponibilità attraverso il perpetuarsi della precarietà e della frammentazione.

Il Piano Operativo raggiunge il culmine dell’ipocrisia e dell’equilibrismo quando parla de L’Aquila.

La ASL aquilana, aveva stipulato una Assicurazione per il rischio sismico, per tutte le strutture sanitarie della città: Presidio Ospedaliero e Sanità Territoriale ( Collemaggio ).
Nel settembre 2009 una Delibera della ASL aquilana stabilisce come debbano essere utilizzati i 47 milioni di euro che l’Assicurazione ha erogato dopo il sisma.
Il Commissario della ASL Avezzano-L’Aquila-Sulmona, appena insediato, cancella quella Delibera.

A pagina 43, del Piano Operativo Regionale c’è una Tabella. Al rigo 3 della Tabella si riporta la voce di Bilancio “Entrate proprie” della Sanità abruzzese, che per il 2009 ammontano a 108 milioni di euro, e sono previste per il 2010 a 63 milioni di euro. La differenza fa 45. I soldi che l’Assicurazione ha erogato per il risarcimento del danno subito dalle strutture aquilane con il sisma del 6 aprile 2009, sono entrati nel Bilancio Regionale della Sanità, e lì scomparsi per abbattere il deficit, forse, o il debito.
Il Piano Operativo si preoccupa di scrivere che per riparare l’Ospedale San Salvatore saranno richiesti ulteriori fondi al Governo ( chiedere non costa nulla ), e dimentica, volutamente, le strutture della Sanità territoriale di Collemaggio. Che resteranno danneggiate per anni, forse sino alla loro privatizzazione.

Nulla naturalmente si dice del ruolo dell’Università all’interno della ASL aquilana.

La Sanità abruzzese resta commissariata. La Asl de L’Aquila, resta commissariata. Quando ci sarà concesso di tornare ad una normale dialettica democratica ? C’è qualcuno che possa porre questa esigenza con la sufficiente forza ?

Penso ce ne sia abbastanza per una rivolta delle coscienze, innanzitutto. E penso che sia un errore grave rassegnarsi alla logica e alle scelte che presiedono a questo Piano Operativo. Occorre mobilitare intelligenze e costruire alleanze per riscriverlo radicalmente.

Altrimenti ne pagheremo duramente le conseguenze, che però saremo chiamati a “gestire”. Nel ruolo della foglia di fico sulle scelte scellerate altrui.

Strategie per la Ricostruzione -Istruzioni per lo smontaggio –

30 luglio 2010 alle ore 7:39

Il 20 luglio 2010 è stato pubblicato il Documento “Linee di indirizzo strategico per la ripianificazione del Territorio”, a cura del Commissario Delegato per la Ricostruzione, Presidente della Regione Abruzzo, e della Struttura Tecnica di Missione.

E’ un Documento molto complesso ed articolato. In cui convivono importanti spunti di interesse e clamorose dimenticanze. Affermazioni di principio inaccettabili, e posizioni condivisibili. Sfasature temporali e posizioni teoriche corrette, ma contraddette dal contesto e dagli atti sin qui compiuti sul Territorio dal Governo e dalla Protezione Civile.
E’ un Documento in cui brillano le assenze. Non c’è il Lavoro; non c’è la Cultura; non c’è la ASL, e non c’è l’Università; non ci sono i fenomeni migratori; non c’è l’immenso campo della cura della persona; non c’è L’Aquila città Capoluogo di Regione.

Non è questa la sede, e non posso certo pretendere di farlo da solo, per contrapporre a questo Documento una riflessione complessivamente alternativa. Posso solo provare a segnalare alcune questioni che a me sembrano di rilievo, e su cui sarebbe importante aprire un pubblico dibattito, con l’obiettivo di costruire un insieme di consapevolezze e proposte realmente partecipate. Una visione del nostro futuro.

Innanzitutto, il Documento si dà un orizzonte spaziale: si propone cioè di costruire Linee Guida per l’intero territorio del Cratere, che comprende 57 Comuni a cavallo tra le province di L’Aquila, Pescara e Teramo. Questa area geografica è battezzata “Città-Territorio”. In questo modo si tagliano le relazioni con i Comuni non colpiti dal sisma, ma collegati a L’Aquila da intensi rapporti storici economici e sociali; non viene in alcun modo considerata la relazione tra L’Aquila e la sua Provincia, nei centri più importanti di Avezzano, Sulmona e Castel di Sangro. E’ una scelta. Per me non corretta, e dalle pesanti implicazioni.

Il Documento si propone di gerarchizzare le relazioni tra Territori, proponendone anche specializzazioni, tra flussi di mobilità e infrastrutture. L’approccio è interessante, ma da approfondire. Dentro un Abruzzo policentrico i flussi, materiali e immateriali, devono costruire una rete, di cui sono essenziali i nodi: fino a ieri, i nodi erano frutto di stratificazioni storiche, economiche, sociali, e politiche, ora occorre pensare nuovi nodi di connessione: questa materia, di ampia suggestione, oggi merita delicatezza nelle scelte, lungimiranza e condivisione.
La logica che informa il Documento, è quella del “piano di impresa per il posizionamento nel mercato”. Se questa logica ha un senso, non può però essere l’unico senso possibile: si comprende perciò che il Documento assegni alla Istituzione Locale l’unico ruolo di “facilitatore” della contrattazione tra progetti di Soggetti Privati, con il compito di favorire una “selezione sociale basata sul merito, la responsabilità, il rischio”, ma si tratta di una visione di fondo che elimina, alla radice, l’idea di coesione sociale, di eguaglianza nelle opportunità, di intervento a tutela di interessi deboli, ma prioritari per il bene comune. Si tratta di una visione di fondo che cancella il ruolo della Istituzione Pubblica di promozione degli interessi socialmente rilevanti.

Per converso, il Documento si preoccupa di segnalare la necessità, stringente, di non consumare altro suolo, di tutelare le acque, il paesaggio e l’ambiente, di intervenire sul rischio idrogeologico, ma lo fa a valle degli interventi del Progetto C.A.S.E., in una condizione cioè in cui l’intervento sul suolo e sugli spazi c’è già stato, pesante e senza partecipazione dei Cittadini. Il Documento si preoccupa dei fenomeni di spopolamento e di invecchiamento della popolazione dei Comuni montani e minori, e propone di tenere lì servizi, commercio e istruzione, sanità; proprio mentre le scelte del Governo, e in parte anche le scelte della Regione Abruzzo, vanno in una direzione radicalmente opposta. Il Documento ignora del tutto le problematiche e anche le opportunità che i fenomeni migratori producono su questo quadro.

Il Documento assegna a tutto il Territorio del Cratere un ruolo, dentro la scelta strategica della Regione di essere Piattaforma dello scambio e dell’attraversamento tra Tirreno e Adriatico. Ma in questa ottica la città de L’Aquila viene esclusa dalle grandi direttrici dei flussi della mobilità, sia su gomma, che su rotaia: le azioni di sistema proposte privilegiano tutte la direttrice Roma-Pescara, passando per Avezzano, arrivando alla beffa di proporre un parcheggio di scambio in Piazza d’Armi, a servizio di una fantomatica fermata del tram che dovrebbe condurre alla stazione ferroviaria.

Il Documento ignora sostanzialmente i temi della Ricerca e dell’Innovazione, arrivando a fare un elenco di centri di ricerca presenti nel Territorio, tra i quali figurano situazioni ampiamente decotte ( il Parco Scientifico e Tecnologico ), situazioni in profonda crisi ( CNX ), situazioni fuori dal cratere ( il CRAB ), dimenticando clamorosamente l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. Senza che sia posta una reale strategia di comunicazione tra Enti presenti, senza che sia delineata una strategia di attrazione per altri Centri nazionali o internazionali, senza che vi sia un riferimento organico all’Università, se non per dichiarare la necessità di supporto che questa dovrebbe avere a servizio di imprese private.

Tutta la discussione sul Turismo prescinde dalla situazione post sisma dei Beni Culturali e delle Emergenze Artistiche, che pure potrebbe essere oggetto di una nuova economia del restauro e del riuso, pur contenendo alcune indicazioni teoriche che potrebbero essere utilmente praticate.

La proposta sugli spazi urbani è troppo teorica e letteraria, pur essendovi presenti importanti indicazioni relative alla tutela dei terreni agricoli, ma ignora del tutto gli spazi pubblici e di socialità, di comunicazione, e, paradossalmente, mentre il Documento è molto preoccupato, giustamente, del Trasporto Pubblico su gomma extraurbano, sembra lasciare all’attuale stato di difficoltà finanziaria quello urbano che pure ha nuove e pesanti esigenze da soddisfare.
L’intera tematica del ciclo dei rifiuti non compare affatto nel Documento, così come non vi compaiono scelte di impiantistica urbana “intelligente” e non sono delineate scelte strategiche sull’Acqua, anche alla luce della recente riforma che ne privatizza la gestione. Troppo generica appare la discussione sulle fonti energetiche rinnovabili.

L’unica forma di sostegno all’economia di cui si fa cenno è la Zona Franca Urbana. Del tutto inadeguata al Territorio e portatrice potenziale di pericolosi squilibri.

L’Aquila città Capoluogo di Regione è solo un “centro di competenze”.

Integralmente ignorata è la dimensione di una Politica Culturale, della Musica e dello Spettacolo.

La ASL, anche con il suo potenziale di Ricerca e di rapporto con l’Università non è neanche citata.

Va aperto un pubblico dibattito, che coinvolga tutti gli Attori Sociali, e i Cittadini, ed è da questo dibattito che possono uscire davvero delle linee di indirizzo strategico per il nostro Territorio. Va costruito un reale sistema che governi la partecipazione degli Attori Sociali e dei Cittadini alle scelte. Senza questi elementi di fondo ci troveremmo di fronte ad un Documento, che, a prescindere dalla bontà o discutibilità delle sollecitazioni, sarebbe integralmente da rigettare, perché figlio di una logica che prevede uno solo che comanda e tutti gli altri, soli, e senza voce. 

31 luglio 2010

Personale opinione sul Documento “Linee di indirizzo strategico per la ripianificazione del Territorio”

12 agosto 2010 alle ore 17:14

Il Documento “Linee di indirizzo strategico per la ripianificazione del Territorio” è costruito senza l’apporto degli “Esperti”, che dovrebbero affiancare il Presidente della Regione e la sua Struttura tecnica di Missione, presentati alla città il 26 luglio scorso, viste le loro affermazioni pubbliche, secondo le quali, per molti di loro, quello era il primo giorno di presenza a L’Aquila.  E’ un Documento che non può essere sottovalutato, soprattutto per il ruolo rivestito oggi da chi lo ha redatto, e perché appare ovvio che tutte le azioni dell’oggi dovrebbero essere orientate alla realizzazione delle Linee strategiche individuate: il futuro disegnato in questo Documento, dunque, influenza le azioni del presente.

Dopo aver letto le 142 pagine del Documento, viene immediata una questione di metodo: se porsi in una logica “emendativa”, che cioè, conservandone l’impianto suggerisca correzioni più o meno profonde, o se sia giusto invece porsi in una logica globalmente alternativa, ed immaginare cioè un altro Documento, del tutto diverso. In entrambe i casi, si tratta di scelte molto impegnative. Poiché si tratta di immaginare il futuro del territorio colpito dal sisma, e di immaginare gli strumenti di governo della crisi rappresentata dagli effetti del terremoto, in un contesto nazionale e internazionale a sua volta in profonda crisi economica.

Personalmente, ritengo che il Documento non possa essere emendato.

E questo per quattro ragioni di fondo che ne condizionano l’intero impianto, persino al di là del merito delle scelte operate:

  • Non è condivisibile l’idea di “città-territorio” che propone, che comprende tutti i Comuni del cratere: fin quando la divisione amministrativa resterà quella attuale, occorre ragionare per cerchi concentrici: dai Comuni colpiti, alla Provincia, alla Regione, allo Stato nazionale, all’Europa, al resto del mondo, indagandone le relazioni e proponendone di nuove;

  • Il Documento non specifica mai seriamente in quale forma giuridica dovrebbero applicarsi le scelte che immagina per il Territorio, lasciando la sgradevole impressione che ciò possa avvenire per strade non trasparenti: esistono oggi tutta una serie di strumenti programmatori, ad ogni livello: e in ciascuno di essi dovrebbero essere individuate risorse ed idee per il Territorio in una logica di disegno unitario: oggi questo non accade, ad esempio il Masterplan della Regione Abruzzo non contiene alcun elemento di intervento specifico sull’area colpita dal sisma, così come non vi è traccia di interventi specifici nel Piano delle Infrastrutture, senza contare che le risorse disponibili sono tutt’altro che certe. Viceversa, fortissima è l’esigenza che i livelli Istituzionali Locali recuperino in tempi rapidi la loro piena potestà giuridica, cancellando gli innumerevoli commissariamenti, e che si costruiscano Conferenze dei Servizi che rapidamente decidano sugli interventi di ampio raggio, con il coinvolgimento democratico dei Cittadini, e stimolando, per le azioni di investimento produttivo, gli Accordi di Programma tra le Parti Sociali;

  • L’unico strumento che il Documento individua per il sostegno all’economia del Territorio è la Zona Franca Urbana. Si tratta di uno strumento inadeguato, dalle risorse incerte e potenzialmente pericoloso, poiché stimola le imprese ad avere una dimensione minima, e non ne stimola la crescita dimensionale, unica in grado di consentire che la competizione si sposti dai costi e dai diritti all’innovazione, alla qualità alla ricerca;

  • L’unico ruolo che il Documento assegna al soggetto Pubblico è quello di “facilitatore” degli affari privati: un’idea di edilizia e di urbanistica contrattata, così come di sviluppo minimale che hanno prodotto enormi danni prima del sisma, e sarebbero fatali ora.

Una idea di sviluppo per il nostro territorio non può che partire da uno sforzo di elaborazione collettiva dei Soggetti Sociali, e di tutti gli Enti, e da un dibattito pubblico, costante e strutturato nel tempo e che produca condivisione.

Non pretendo di avere il monopolio delle proposte, ma provo ad indicare alcune questioni che mi appaiono davvero strategiche, e che nel Documento non sono contenute:

  1. L’articolo 107.2.b della versione consolidata del Trattato sull’Unione Europea dichiara compatibili con il mercato interno “gli aiuti destinati ad ovviare ai danni arrecati dalle calamità naturali”. E’ possibile perciò immaginare un regime di aiuti specifico, sul piano fiscale e su quello degli investimenti: occorre una veloce e decisa trattativa del Governo con l’Unione Europea in questo senso. Sarebbe fondamentale per tutto il Territorio colpito dal sisma, per i prossimi anni. Nell’attesa di una specifica Legge sulla ricostruzione, ogni anno, in occasione della redazione della legge Finanziaria, va previsto il rifinanziamento di tutti i capitoli della Legge 77/09, nonché di quella parte della legge 366/90 che finanzia nello specifico il trasferimento tecnologico verso le imprese del Territorio dei risultati della Ricerca effettuata nel Laboratorio di Fisica Nucleare del Gran Sasso;

  2. Il Documento redatto dall’OCSE nel giugno del 2009 costituisce un contributo fondamentale per ripensare l’economia del Territorio, a partire dal ruolo dell’Università e di tutti gli altri Centri di Ricerca, e dalle opportunità tecnologiche innovative nella ricostruzione: dal piano energetico, alle tecniche costruttive e di restauro, al turismo, al riuso e riciclo dei materiali, ai Laboratori formativi e di scambio tra ricercatori e tra ricercatori e imprese, alla formazione e alta formazione, alla ricostruzione “intelligente” nei servizi innovativi, ed ecocompatibile etc.  Si tratta di un Documento da discutere, certo, ma estremamente stimolante;

  3. Dentro il circuito della Ricerca, in rapporto anche con l’Università, va inserita la ASL;

  4. La Cultura, la Musica, lo Spettacolo, sono fattori di identità del nostro Territorio, e devono costituire un volano della ricostruzione, anche rispetto all’uso di nuove tecnologie e alla Rete;

  5. I Beni Artistici, le Emergenze storiche e architettoniche costituiscono oggi, di per sé, un formidabile laboratorio di ricostruzione e restauro, su cui convogliare risorse, intelligenze e sperimentazioni, persino in funzione turistica;

  6. Il Piano Regolatore della città de L’Aquila è stato stravolto da decenni di edilizia contrattata e dal Progetto C.A.S.E. : è urgentissimo elaborare e approvare un nuovo Piano Regolatore, che dia corpo all’idea di “Città-connessa”, costruito anche in rapporto con i Comuni del territorio che, da sempre, sono in relazione con la città Capoluogo; sul piano della infrastrutturazione materiale e immateriale e delle relazioni con gli altri livelli territoriali, quale snodo dei rapporti Est-Ovest e Nord-Sud; sul piano della salvaguardia rigorosa degli equilibri idro-geologici, paesaggistici e ambientali; sul piano degli spazi urbani di socializzazione in particolare giovanile, sottratta alle logiche del consumo; sul piano della mobilità urbana ed extraurbana privilegiando decisamente il trasporto pubblico e quello su rotaia con il riuso delle linee esistenti; sul piano della logistica e della infrastrutturazione di servizi “intelligenti”; sul piano del ciclo dei rifiuti da completare e della tutela delle acque come bene comune pubblico; sul piano degli insediamenti produttivi e di servizio alle imprese etc. E, nel frattempo, va costruito un agile “corpus” normativo locale che governi la transizione fino al nuovo strumento regolatorio;

  7. Occorre una idea strategica di governo del progetto C.A.S.E. : sul piano innanzitutto delle risorse necessarie alla sua manutenzione ordinaria e straordinaria negli anni; sul piano del suo riuso futuro, e di tutti i servizi, anche sociali, necessari, sul piano dei collegamenti di mobilità, sul piano di una graduale e progressiva compartecipazione degli inquilini ai costi connessi;

  8. Le dinamiche demografiche, lo spopolamento dei Comuni Montani impongono una idea di accoglienza, a partire dai Lavoratori, anche migranti, che sono qui a partecipare alla ricostruzione: occorre costruire politiche specifiche che favoriscano una equilibrata nuova residenzialità, a partire dal mantenimento e potenziamento di servizi, compresa la comunicazione a banda larga, e commercio ;

  9. La cura della persona e l’Assistenza sono terreni di economia sociale tutti da esplorare, anche per sottrarli a logiche di depauperamento dello Stato Sociale e di clausura che nasconda i problemi delle famiglie;

  10. Il nostro è un Territorio in larga parte vincolato: è da qui che si riparte per pensare all’offerta turistica, costruendo finalmente quella rete di offerta integrata che fino ad oggi è stata in larga parte inesistente, connettendo anche qui con lo sport e le sue eccellenze nel territorio, una capacità di pensare il tempo libero che segnali una nuova qualità urbana e del Territorio.

Del Documento proposto dal Commissario per la ricostruzione, vanno comunque recuperati una serie di spunti e sollecitazioni, che segnalano questioni vere. Ma, a me pare urgente, soprattutto, affiancare alla logica rivendicativa di questi durissimi mesi, una battaglia altrettanto intransigente e rigorosa sul piano della proposta. Che è un terreno molto più difficile e complesso, ma senza il quale, alla fine, saranno i poderosi interessi materiali strutturati, anche criminali, che già hanno agito in questi mesi, e agiscono, a definire quale sarà il futuro del nostro Territorio. Qualcuno lo potrà definire “Mercato”, io non vorrei fosse un Deserto la cui unica stella polare sia la moneta.

  

Sulla Centrale a Biomasse da realizzare a L’Aquila

1 dicembre 2010 alle ore 10:24

Il 30 agosto scorso, la regione Abruzzo ha dato il proprio parere favorevole alla Futuris Aquilana srl per la realizzazione di una centrale per la produzione di energia elettrica e termica, ottenuta dalla combustione di biomasse, da costruire nel nucleo industriale di Bazzano, entro 12 mesi dal momento del rilascio dell’autorizzazione. L’Azienda intende realizzare un impianto, capace di produrre 40 GWh/anno bruciando 60.000 tonnellate/anno di biomassa, che verrebbe fornita tramite un accordo “di filiera” da una serie di aziende forestali e agricole: l’Azienda Cimini nell’Alto Aterno, l’azienda Fiordigigli di Paganica, la Colafor, una Cooperativa di Collarmele, l’Associazione Agricola CIA, il GAL Marsica.

L’investimento necessario per la realizzazione della centrale dovrebbe aggirarsi sui 30 milioni di euro, per dare occupazione ad una ventina di addetti alla centrale, e ad un’ottantina di persone nella filiera agricola.

Si tratta di un investimento che ha margini di profitto sicuri, grazie alle enormi facilitazioni che la legge concede a questo tipo di impianti, che dovrebbero contribuire a ridurre l’inquinamento generato dall’uso  e dalla produzione di energia da carburanti fossili.

 

La prevista realizzazione di questa centrale ha aperto un duro dibattito tra i cittadini, tra essi e le Istituzioni. Sono molte le paure che un impianto di questo genere suscita. A partire dalla definizione di biomassa fornita dalla Legge. Per la Legge sono biomasse ad esempio anche i reflui degli allevamenti o la frazione organica dei rifiuti solidi urbani. La Regione ha autorizzato la Futuris Aquilana per un impianto che bruci “biomasse vegetali solide vergini”, ma, allo stesso tempo, l’Azienda ha facoltà di cambiare il proprio progetto, anche “sostanzialmente”, dandone comunicazione preventiva alla Regione 30 giorni prima. Su questo punto, andrebbe posto un vincolo formale, invece, che obblighi la Futuris Aquilana, al solo utilizzo di biomasse vegetali solide vergini. Pena la decadenza dell’autorizzazione.

C’è qui un serio difetto di trasparenza nei confronti dei Cittadini. Tutto l’iter autorizzativo è avvenuto nel chiuso di segrete stanze e procedure solo burocratiche, che non hanno coinvolto le popolazioni, cui non è stata consentita alcuna partecipazione democratica, ma solo di subire scelte da altri determinate.

Sarebbe doveroso intervenire su questo punto, costruendo un Protocollo di Intesa che consenta ai cittadini di “entrare” nell’azienda, di verificarne i comportamenti concreti, in ogni momento. Soprattutto dal punto di vista delle precauzioni che vanno prese rispetto alle emissioni, all’uso dell’acqua, al trattamento dei residui della combustione, all’inquinamento acustico, alle problematiche che il trasporto della biomassa su camion certamente produrrà in un’area già drammaticamente congestionata dal traffico.

Monitoraggio continuo, sotto il controllo di un’autorità indipendente, ad esempio l’Università de L’Aquila, e trasparenza in ogni scelta, potrebbero essere alcuni elementi su cui lavorare per ridurre sia l’impatto effettivo che un impianto del genere produrrà, sia l’impatto psicologico che comunque grava su popolazioni già duramente provate dal sisma.

 

A questo proposito non depone bene il comportamento della Futuris Aquilana, che nella procedura autorizzativa ha chiesto di derogare ai limiti imposti dalla Legge per l’emissione di ossidi di azoto ( responsabili delle cosiddette “piogge acide” ) , e di anidride carbonica. E’ necessario l’esatto opposto. Un investimento certificato e verificabile per il massimo abbattimento possibile delle emissioni nell’aria.

Così come sarebbe necessario che ogni anno, l’Azienda e i componenti della filiera agricola, siano impegnati in modo vincolante, e controllato, a produrre almeno il 5% della massa bruciata in quantità equivalente di rimboschimento definitivo, anche quale rassicurazione che l’alimentazione della centrale non provochi effetti insostenibili di disboscamento e desertificazione del territorio.

 

Vanno quindi cambiati radicalmente i comportamenti sin qui avuti dalle Istituzioni che hanno autorizzato questo impianto (Regione in primo luogo, ma anche Provincia, Comune e Consorzio Industriale di Sviluppo); In particolare, dalla procedura autorizzativa, risulta che la Centrale sia inserita nel Piano Regolatore generale del Comune de L’Aquila, il che andrebbe francamente verificato; così come si evince che il Sindaco ha emesso un “parere igienico-sanitario” a seguito di uno scambio di note, non contenuto nella procedura stessa, tra Sindaco e Azienda nel periodo tra maggio e giugno 2010.

Ma va anche cambiato il comportamento dell’Azienda, che deve comprendere che un impianto di questo genere si può realizzare solo a patto di costruire un rapporto di fiducia vero con i cittadini. Non basta essere una Azienda che opera nel campo delle energie rinnovabili, per essere una azienda “pulita”.

Ricostruzione quasi impossibile. Luigi Fiammata e Valente Perilli

28 dicembre 2010 alle ore 17:57

In uno Stato di Diritto, il principio stabilito da una Legge, dovrebbe essere regolamentato coerentemente, e non contraddetto radicalmente dagli atti applicativi che ne dovrebbero rendere effettiva l’attuazione.

L’art.3 lettera a), della Legge 77/2009 stabilisce che:

Per soccorrere le esigenze delle  popolazioni colpite dal sisma del 6 aprile 2009 sono disposti:  la concessione di contributi a fondo perduto …….. per la ricostruzione o riparazione di immobili adibiti ad abitazione considerata principale …….. dichiarati inagibili o danneggiati ovvero per l’acquisto di nuove abitazioni sostitutive dell’abitazione principale distrutta. Il contributo di cui alla presente lettera è determinato in ogni caso in modo tale da coprire integralmente le spese occorrenti per la riparazione, la ricostruzione o l’acquisto di un alloggio equivalente. L’equivalenza è attestata secondo le disposizioni dell’autorità comunale, tenendo conto dell’adeguamento igienico-sanitario e della massima riduzione del rischio sismico. “

Dovrebbe apparire dunque evidente che una limitazione  dell’erogazione di contributi, con negazione della copertura integrale della spesa necessaria alla riparazione delle abitazioni danneggiate dal sisma, sarebbe contraria alla Legge, impossibile, dal punto di vista della coerenza tra un principio e i suoi atti applicativi.

Ed invece è quello che accade a L’Aquila e nei 49 Comuni del cosiddetto “cratere”.

 

Già l’Ordinanza 3790/09 della Presidenza del Consiglio dei Ministri assicurava l’integrale copertura delle spese per la riparazione e per l’adeguamento sismico, solo dal 60% all’80% delle vigenti norme antisismiche, per le prime abitazioni, le parti comuni e con la limitazione all’80%, fino a 80.000 €, per una seconda casa (nel caso di non fruizione del contributo per la prima o per le unità immobiliari non adibite ad abitazione), obbligando i cittadini colpiti dal sisma ad una scommessa con il proprio futuro; costringendoli cioè o ad accettare un rischio, nel caso del ripetersi di un sisma drammatico, o ad autofinanziare, in parte, l’adeguamento antisismico della propria abitazione ( chi se lo può permettere ). L’Ordinanza in questione, contraddice contemporaneamente due Leggi dello Stato: La legge 77/09 per la ricostruzione dopo il sisma, e tutta la normativa antisismica che obbligherebbe a precauzioni necessarie in una zona ad alto rischio come la nostra.

L’Ordinanza 3881/10 della Presidenza del Consiglio dei Ministri ha ulteriormente limitato questo diritto commisurando le riparazioni da effettuare al costo massimo di “produzione” per l’Edilizia Economica e Popolare della Regione Abruzzo, commettendo qui una palese ingiustizia che ignora totalmente lo stato di fatto e la diversificazione delle tipologie abitative danneggiate, contraddicendo ulteriormente la L.77/09, in nome di una inconfessabile assenza di risorse per la ricostruzione.

La Regione Abruzzo con D.G.R. 09/08/2010 n°615 ha stabilito il costo massimo di “produzione” per l’Edilizia Economica e Popolare  per tutto il territorio della Regione;

Al Titolo V di questa Delibera sono previste deroghe al limiti massimo di costo fissato secondo le facoltà sancite dal D.M. 05/08/1994, con possibilità di aumento fino al costo unitario sufficiente per il recupero e la perfetta funzionalità antisismica e adeguamento energetico del patrimonio edilizio devastato dal sisma. Una deroga che sarebbe stata più che giustificata all’interno dei Comuni del cratere. Ma La Regione Abruzzo non ha dato corpo a questa facoltà che pure le era legislativamente concessa, condannando, non solo la propria Edilizia Economica e Popolare, ma tutta la ricostruzione cosiddetta “pesante” ad essere inadeguata strutturalmente a fronteggiare i rischi derivanti da terremoti futuri e negando la riqualificazione degli abitati. E precostituendo una condizione che ferisce profondamente i cittadini già effettivamente colpiti dal sisma, privandoli del loro diritto ad un integrale ristoro del danno subito.

Ed infatti, ecco che arriva il Decreto n°27 del 02/12/2010 del Commissario della Ricostruzione che  regola il limite massimo del contributo, per le abitazioni classificate “E”, senza che sia visibile una distinzione tra le abitazioni all’interno del Centro Storico, e quelle fuori dal Centro Storico ( de l’Aquila e degli altri Comuni colpiti ), ed è da presumere quindi che i massimali di spesa debbano considerarsi i medesimi, ai sensi dell’Ordinanza 3881/10 della Presidenza del Consiglio dei Ministri tenendo conto di quanto stabilito dalla D.G.R. n° 615 della Regione Abruzzo, producendo l’effetto di un limite massimo a mq, di superficie netta abitabile ( compreso l’adeguamento energetico ), pari a circa 1200 euro, palesemente insufficiente alle necessità.

Viene riconosciuto, nel caso di demolizione e ricostruzione integrale, il costo dello smaltimento delle macerie.

Vengono incredibilmente limitati (anche rispetto alla 615 valida per tutto il resto del territorio regionale) i costi per le spese tecniche e per le indagini geognostiche e nei materiali. A titolo esplicativo queste indagini, che nella 615 sono riconosciute al 3% della spesa ammissibile, per il Decreto 27, qualunque sia l’estensione di un aggregato strutturale, sono limitate a 20.000 € (cifra risibile per grossi aggregati con strutture stratificate e complesse).

Inoltre rimangono ad oggi insoluti i problemi di come trattare ( anche sotto il profilo civilistico), in regime di limitazione del contributo occorrente, il rapporto tra le parti esclusive e le parti comuni nei condomini e, ancora più in generale, il problema delle seconde case quando l’avente diritto non ha usufruito di contributi per altre abitazioni.

Tutte queste problematiche che impediscono la presentazione delle pratiche a poco più di 2 giorni dal termine perentorio del 31 Dicembre 2010 per ottenere diritto all’accesso al contributo, senza che intervenga immediatamente una proroga, produrranno effetti drammatici per la cosiddetta ricostruzione pesante : cittadini e tecnici, nell’intrico di rapporti tra diritti limitati e non chiariti potranno operare sostanzialmente due scelte, per restare dentro i termini previsti:

o sceglieranno di non procedere all’adeguamento antisismico (cosiddette pratiche super “B” ), sia pur parziale, dei loro fabbricati “rabberciando” in qualche modo gli edifici, o dovranno costruire particolari rapporti con le ditte incaricate della ricostruzione, presentando progetti che aumentino i volumi edificabili, e cedendo alle stesse ditte, a titolo di compenso, i volumi eccedenti rispetto a quanto già edificato prima del sisma ( operazione questa resa possibile dal cosiddetto “Piano Casa“ che consente aumenti volumetrici fino al 35% del preesistente ), aprendo per questa via la strada ad una straordinaria ed ulteriore cementificazione del territorio, al di fuori di qualsiasi possibilità regolativa. Vi è un altro effetto potenziale, ancor più pericoloso, se possibile: nella concitazione del momento diventa molto appetibile l’offerta di una Ditta che assicura di iniziare e proseguire i lavori senza chiedere anticipazioni di spesa ai cittadini, costruendo per questa via un possibile canale di riciclaggio di denaro sporco.

La cosiddetta “ricostruzione pesante” diventa così o una “ricostruzione leggera”, o aperta ad ogni scorreria urbanistica, o peggio, e con i cittadini sotto ricatto e convinti che i tecnici che, sin qui non hanno presentato i progetti, siano degli incapaci.

Se questa poi è la regola, economica e urbanistica che vale anche per i Centri Storici, rischiamo di celebrare il 2010 come l’anno in cui è diventato chiaro che L’Aquila, e i Comuni colpiti, non potranno essere ricostruiti.

Due anni

5 aprile 2011 alle ore 11:55

Il tempo si accumula, come un’erba secca che spacca il senso delle parole.

Il tempo affonda le sue radici di vipera dentro il cemento e scinde l’intonaco della nostra esperienza individuale, dal ferro armato della nostra dimensione collettiva. Sino a rendere impossibile la loro unione. Sino a separare la nostra percezione della realtà. Come se qualcuno ci raccontasse, mentre ci guardiamo vivere.

Il taglio profondo della notte, che ha cancellato vite, e sepolto il suono delle nostre certezze, ha ridefinito il paesaggio. Interiore e del giorno. Misurando una distanza incomunicabile e nascosta. Innanzitutto tra la vita e la nostra morte, anche degli affetti. Indicibile. Per pudore, per la velocità delle lancette dell’orologio, per la solitudine che ci coglie di fronte ai pensieri abissali. L’impossibile da dire diventa il velo che ci trasciniamo dietro di fronte al mondo, cercando di scostarlo dal viso. Una ragnatela invisibile, che non è lamento, ma peso.

Ma quella notte è diventata subito immagine, definizione che altri hanno dato di noi, dentro una crisi generale di sistema. Spettacolo impudico di membra sparse, delle pietre, delle facce, delle idee accelerate dalla presa diretta. Subitaneo comando e controllo abbattuto su di noi, e magnificato nella sua dimensione di unica voce narrativa. Non c’è altra vita oltre il rappresentato. Un verme osceno che definisce la spina dorsale di sensazioni e pensieri, regola l’agenda del quotidiano, e distorce persino la percezione di noi stessi, che diventiamo quello che altri rappresenta di noi.

Scompare la responsabilità quotidiana di ciascuno: il lavoro e le faccende domestiche; la costruzione del pensiero e dell’azione politica; la socialità dell’ozio e del negozio; la cultura della lettura e della musica. Resta l’eccezionale che diventa la nostra normalità. Come vivere nudi davanti agli sguardi altrui. Comando e controllo. Accessi negati e pranzi in fila. Il medico che non parla al paziente, e gli impone la cura, per il suo bene, altrove deciso . La condizione malata e irresponsabile viene prodotta, indotta, inoculata, magnificata, resa indispensabile e accettata come necessaria. Comoda perfino.

Tutta intera, una classe dirigente, cessa di pensare la propria autonomia. Anche comprensibilmente, sul piano umano. Devastante, sul piano delle conseguenze. Eccezioni ci sono, a partire dal Rettore dell’Università. Presto costrette a ripiegare sul piano di una sopravvivenza che è bene superiore, ed è insieme lo scambio da pagare perché non ci deve essere discorso generale, che non deve disturbare. La necessità del ricovero fa a pezzi, letteralmente, ogni altra istanza. Il bisogno materiale, vero, cui rispondere, diventa il puro pretesto dell’esercizio eccezionale della sovranità indiscutibile, cui tutti devono piegarsi. Il mezzo diventa il fine, senza neanche disturbarsi a dichiararlo.

Sul paesaggio maciullato si stende protettiva l’ala dell’affare economico, del potere governativo e della propaganda. E costruisce e alimenta e rappresenta il consenso. Il mondo si definisce in un’unica e potente dimensione narrativa, cui è impossibile sottrarsi. No. Non è impossibile. Ma non conviene, e, spesso, non vi è la forza necessaria, semplicemente.

Sono rubati i luoghi e le parole. E tutto è deroga, eccezione, esproprio. Come un sasso nello stagno, produce cerchi concentrici di onde: chi può cerca di avvicinarsi al buco centrale per alimentare la propria inutile visibilità, gli altri restano periferici e possono solo sentire le vibrazioni del comando sotto di sé. Sopra di sé. Esclusi. Ma nessuno decide chi, come, dove e perché si lancia il sasso. Che è in altre mani. Neanche si percepisce questa condizione, diventata immediatamente, per effetto della rappresentazione che definisce l’agenda, da eccezionale, normale, e necessaria. Una egemonia culturale pervasiva, allestita in poche ore. E ancora durevole.

Il tempo di questi due anni ha generato scissioni continue. E autistiche. Chiuse in sé stesse.

Ogni tentativo, collettivo e individuale, di rompere la crosta di questo tempo, è stato contrastato sapientemente. Con offese giornaliere. Di portata nazionale, echeggiata da tristi epigoni locali. Servi.

La tecnica legislativa, amministrativa, ordinamentale e procedurale ha contraddetto sistematicamente e scientificamente il racconto rappresentato della realtà, nel frattempo diventato interiore, storia. Che il sovrano conceda, al suo buon cuore, richiede solo genuflesso ringraziamento. Non discussione, che diventa crimine. Le risorse economiche necessarie sono la corda che un Ministro tende o accorcia per togliere il fiato all’impiccato. E contemporaneamente inafferrabili, e, quando necessario, oggetto di smodate elargizioni e compravendite.

Nelle prime ore si dichiara di voler istituire una nuova figura penale: il reato di sciacallaggio; nella Legge, diventa reato invece la riproduzione illegale dei simboli della Protezione Civile. Diritto d’autore. E migliaia diventano le norme legali che piegano il diritto. L’Ordinanza diventa la cifra di una democrazia derogata per causa di forza maggiore pervicacemente insistita.

E l’intero catalogo della rappresentanza locale si piega. Per necessità, per convenienza, per impudicizia, per incapacità di percezione, per impossibilità. L’ascolto diventa inutile, relegato alle immense e infinite discussioni individuali: dov’eravamo; come abbiamo reagito, come siamo classificati, dove abitiamo ora.

La prima discussione pubblica riguarda l’intera indennizzabilità del danno alla casa. Non il lavoro. Non la città bene comune. Non la democrazia. Dopo la solitudine della tenda, dell’albergo, del campeggio, la solitudine della casa separata da tutto il resto, in cui tornare a rinchiudersi con la televisione accesa, e scissi dagli altri, diventati stranieri. I luoghi raggiungibili solo nella solitudine dell’automobile. Scissi dalla strada, dai marciapiedi, dalle piazze. La speranza non è l’edificazione di un nuovo tessuto economico, sociale, urbano, politico, culturale, impresa esaltante, ma la riedificazione del guscio, e qualcuno, in una città ai margini di fenomeni migratori significativi, raccoglie firme perché agli stranieri non sia data casa. La tecnica del capro espiatorio più vicino, diventa senso comune, e divide, scinde, separa, si riproduce all’infinito, dentro un assordante silenzio.

Mentre impera l’eccezione, e mentre nulla è come prima, si lancia la parola d’ordine del “dov’era, com’era”. Come se fosse possibile riavvolgere il filo del tempo. E una intera classe dirigente pensa che i paradigmi siano gli stessi, eguali i riferimenti e i modi d’agire. Le cooptazioni fedeli alla linea. I più svelti tra gli imprenditori scelgono nuovi carri vincenti, ed esterni alle mura. La Chiesa sopisce e coltiva affari indecorosi. Qualcuno cerca una via di fuga.

L’attendere alle necessità materiali, diventa l’unico discorso politico possibile, in cui ognuno sgomita priorità.

Guardo dall’esterno ragazzi generosi. Che muovono parole e atti di resistenza, e mi sembrano una delle poche cose degne di questo tempo, insieme al lavoro quotidiano di chi non ha smesso di fare il proprio dovere, insieme a chi concretamente ha reagito, insieme a chi non si rassegna, insieme a chi pensa nuove dimensioni, insieme a chi trasforma la critica in concreta pratica e inventa. Pur tra malattie antiche, ingenuità, contraddizioni. Ma qui si può costruire. Perché qui si è percepito il prima, e il dopo. E lo si è raccontato e agito con altre parole. Posso non condividere, ma rispetto. Profondissimamente, perché mi ha insegnato.

Ho conosciuto quanto fonda sia la mia ignoranza, in questo tempo, quanto io possa essere vilmente presuntuoso. E quanto senta urgente e necessario ricomporre le scissioni. Mischiare i colori e aprire le porte. Ascoltare. L’altra sera Vauro Senesi parlava della “resistenza del pensiero”. Posso provare a illudermi che questa possa essere oggi la mia funzione. Provarci almeno.

Perché da questo tempo non esca solo la sconfitta.

” Words of prophets are written on the subway walls ” – Simon and Garfunkel

27 giugno 2011 alle ore 22:05

Il luogo su cui si decide di lasciar scritto il proprio pensiero ha un profondo significato. Persino al di là delle nostre intenzioni.

Se scrivo queste parole su un quaderno, con la mia grafia, è evidente che lo faccio per me, per me solo. Dato che il quaderno è nella mia esclusiva disponibilità, e la mia grafia può non essere del tutto intellegibile. Le motivazioni per le quali scrivo, magari attengono alla psicanalisi.

Se invece scrivo le mie parole sui muri, è evidente che intendo lanciare dei messaggi. E scelgo anche uno stile. Sintetico. Degli slogan. Il cui obiettivo, in quanto slogan, è raggiungere il maggior numero possibile di persone e “colpirle”, impressionarle, costringerle ad una rapida, quanto intensa, auto interrogazione. “Sono d’accordo che i Commissari continuino a voltare le spalle agli aquilani ?” “Sono d’accordo che le C.A.S.E. appartengano agli aquilani e non al Governo ?”

Davanti allo slogan, si prende posizione. Favorevole, o contrario. E quanto più lo slogan si presenta come domanda retorica ( che già ha in sé una risposta ), tanto più il processo di identificazione in chi legge diventa probabile. Chi non vorrebbe una “ Ricostruzione subito e sicura ?”.

Lo slogan fa correre dei rischi, però. Che la semplicità sia semplificazione.

A L’Aquila non ci sono più i muri della metropolitana su cui scrivere. Invero, l’unica cosa che vi somigliasse era il percorso pedonale sotterraneo che dal megaparcheggio di Collemaggio, conduceva a piazza del Duomo.

E quindi, le parole, per essere viste, oggi, hanno bisogno di altri luoghi. E i luoghi scelti sono assai significativi, quasi un paradigma. Perché sono i luoghi di una comunità automobilizzata. Sono rotonde e svincoli, incroci e pareti stradali.

Il che dovrebbe condurre ad una serie di pensieri conseguenti.

Profondissimamente è mutata la città dal 6/4/2009 ad oggi.

Che vi sia mutamento è oggettivo, come oggettivo è che non vi sia unanimità di giudizio su molti aspetti di questo cambiamento. Né consapevolezze universali.

Se mutamento vi è, e implicitamente se ne tiene conto scrivendo le proprie parole nei luoghi che più plasticamente ritraggono una mutata condizione urbana e sociale, allora, forse occorrerebbe assumere pienamente ogni conseguenza di questo mutamento. E con esso scontrarsi/confrontarsi/dialogare.

Gli insediamenti del Progetto C.A.S.E. ; la città trasferita nei Nuclei Industriali di Sviluppo ; il complesso delle Frazioni che appare ed opera come una cintura di piccoli comuni in crescente difficoltà di rapporti con il Capoluogo; l’assenza totale di una mobilità pedonale che sia incontro e socializzazione non collegata al consumo.

La caotica e individuale riallocazione delle attività private e anche pubbliche; l’incombente malaffare predatorio; l’asfittica discussione sulle infrastrutture materiali e immateriali e sulla riconversione energetica.

Il vincolo del rientro dal debito regionale e la conservazione delle consorterie, come unici criteri di discussione sull’Ospedale e sulla Sanità del Territorio; l’assenza di una seria discussione sull’impatto del Federalismo Fiscale sui nostri Enti Locali.

La necessità di una discussione trasparente e partecipata sul sostegno alle attività economiche del nostro Territorio dopo il 2013, quando finirà l’attuale regime di aiuti dell’Unione Europea ( in attesa della Zona Franca e delle sue reali conseguenze in prossimità delle Elezioni Comunali ).

La fine del periodo di parziale sospensione degli effetti della Riforma Gelmini sulla nostra Università, senza che sia alle viste un Piano per il suo sviluppo futuro; la Cultura cittadina tradita dai tagli al Fondo Unico per lo Spettacolo e dalle impossibilità del Bilancio Regionale.

L’immenso patrimonio storico-artistico, in preda ai tagli del Bilancio statale e alle scelte insindacabili della Curia; le macerie pronte ad essere veicolo di trasporti illeciti di rifiuti ignoti.

E si può continuare a lungo, con l’elenco dei dati oggettivi di cambiamento da cui partire, se si vuole scrivere sui muri della metropolitana. Tenendo anche conto degli elementi di continuità.

Alla crisi economica generale, alle dinamiche sociali di impoverimento e di polarizzazione della distribuzione delle ricchezze, al sottogoverno cittadino delle lobbies edificatorie, alla drammatica crisi di moralità e di Bilancio della Regione Abruzzo, si è aggiunto lo spaventoso peso del sisma. Un peso che grava anche sulle persone in quanto tali.

Questo cambiamento, va governato, e non eluso o esorcizzato.

Il futuro che ci attende è assai complesso, e non possiamo fare sconti alla durezza della realtà. Io non voglio i Commissari, voglio la Democrazia e la Partecipazione. Ma siamo sicuri che le macchine comunali o regionali abbiano le capacità tecniche di governare la Ricostruzione in tempi ragionevoli ? Chi, e con quali risorse garantirà la manutenzione degli alloggi del Progetto C.A.S.E. ? Punti dai quali non si può sfuggire.

L’orizzonte è, quanto meno, quello dei prossimi dieci anni. Decisivi per le giovani generazioni della Città. Il cui futuro si giocherà nelle relazioni con la Provincia, con la Regione, con l’Italia, con l’Europa, con il Mondo.

Pensare ad una autosufficienza e ad una autorappresentanza, dentro le nostre mura, oggi, sarebbe un suicidio.

Mi permetto di giocare anche io con uno slogan “ L’Aquila città connessa “. Da riempire di senso.

In fondo, sui muri della metropolitana può scrivere chiunque. Anche quando si spera di non essere profeti.

Sulla Legge Regionale di riordino delle aree produttive

agosto 2011

Lo scorso mese di luglio la Regione Abruzzo ha approvato una legge di riordino delle funzioni in materia di aree produttive.

Scompaiono i Consorzi per lo sviluppo industriale di tutto l’Abruzzo, accorpati in un unico ente pubblico economico: l’Azienda regionale delle Aree Produttive.

L’ente pubblico economico ha come oggetto, l’esercizio di una impresa commerciale.

Cambia quindi radicalmente la funzione di questi enti: da enti di programmazione del territorio ed erogatori di servizi alle imprese, in esercenti di servizi che sono venduti alle imprese.

I servizi che la nuova azienda regionale provvederà ad offrire alle imprese sono:

  • Servizi essenziali

    gestione acque, reflui, rifiuti, illuminazione, pubblica manutenzione viabilità e verde pubblico, prevenzione/gestione/controllo rischi rilevanti etc.

  • Servizi di sostenibilità ambientale

    attraverso l’istituzione di aree ecologicamente attrezzate, possono essere insediati impianti comuni per il fabbisogno energetico o per la riduzione della quantità e qualità dei rifiuti o per la gestione del ciclo delle acque e della depurazione, etc.

  • Servizi innovativi

    dovrebbero qualificare l’intera offerta economica della Regione.

Il nuovo ente ha, come organi di governo: l’Assemblea generale ( composta dagli attuali soci dei Consorzi industriali, secondo il loro effettivo apporto economico); il Consiglio d’Amministrazione, nominato dal Consiglio regionale, su indicazione della giunta, costituito, come da Statuto ( che deve ancora essere approvato dalla Giunta Regionale ), ed è sempre lo Statuto a stabilirne i compiti; il Presidente, eletto dall’Assemblea generale, nell’ambito del Consiglio d’Amministrazione, su indicazione della Giunta regionale; è istituita la Consulta territoriale, composta da rappresentanti delle imprese e degli enti locali, le cui funzioni saranno sempre determinate dallo Statuto.

Per un altro anno e mezzo è prorogata la presenza degli attuali Commissari.

Attualmente, nelle aree che ricadono nella competenza del Consorzio di Sviluppo Industriale di L’Aquila, c’è, di fatto, a causa del terremoto e delle scelte di reinsediamento fin qui effettuate, la città. Sedi universitarie, esercizi commerciali, tribunale, imprese, uffici pubblici di ogni tipo, etc.

Queste aree sono sottratte alla sovranità del territorio e affidate ad un ente regionale, la cui funzione è quella di essere un’impresa commerciale.

Una impresa commerciale che ha interesse a sviluppare servizi da vendere alle imprese, ad esempio sul piano dell’energia che può essere loro venduta attraverso nuovi impianti di produzione dell’energia, o sul piano della gestione del ciclo dei rifiuti, anche quelli di origine industriale che possono essere pericolosi o nocivi. Senza che le comunità territoriali abbiano, di fatto, voce in capitolo sulle scelte che saranno effettuate.

Forse la mia è una lettura superficiale del testo di legge approvato, e forse non ho, né le necessarie conoscenze tecniche, né la competenza per intervenire su argomenti così delicati.

Ma mi pare che sia avvenuta una cosa abbastanza semplice, e grave, per quel che riguarda il nostro territorio. Aree che, oggi ancor più di ieri, sono strategiche per la città e le sue frazioni, sono state conferite ad un governo di carattere regionale, senza che la discussione abbia avuto il necessario rilievo, anche nell’assise comunale, e senza che il territorio e la Cittadinanza, in futuro, possano realmente partecipare alle scelte che su di esse saranno effettuate.

Una delega in bianco ad un nuovo ente regionale che, nei fatti, governerà dal punto di vista urbanistico e delle scelte insediative una parte fondamentale della nostra città e delle sue importanti frazioni. Un nuovo ente regionale che, è bene ribadirlo, non ha una funzione “pubblica”, ma una funzione prevalentemente “commerciale”. E, oggi, il massimo interesse commerciale riguarda la produzione di energia e la gestione del ciclo dei rifiuti. Che sono questioni dirimenti per il futuro di un territorio e che andrebbero affrontate, e risolte, con estremo rigore e trasparenza, in tempi rapidi e con il massimo coinvolgimento democratico delle comunità interessate.

Le scelte effettuate e la colpevole assenza di dibattito preludono forse ad effetti particolarmente negativi per il territorio.

Note per un documentario mai realizzato

6/11/2011

Non sono in grado di scrivere una sceneggiatura per un documentario. Tecnicamente. E’ una cosa che non ho mai fatto. Quindi, questo testo è più il racconto di una idea, che non la scrittura di come dovrebbe essere filmata.

L’obiettivo del documentario, dovrebbe essere il racconto, nei termini più semplici possibile, dello stravolgimento delle Leggi operato su L’Aquila in occasione del Terremoto. L’occasione per creare uno “stato di eccezione”, che è il potere che solo il sovrano assoluto può esercitare. In questo consiste infatti l’essenza del potere senza democrazia. La creazione dello “stato di eccezione” avviene immediatamente, sin dalla prima Ordinanza post-sisma. La situazione di emergenza è piegata ad un disegno di altra natura. Lo strumento tecnico utilizzato è quello dell’Ordinanza. Emissione di Editto senza contrappesi. La distanza tra la rappresentazione della realtà, e la scrittura tecnico-legislativa è abissale. Due mondi paralleli che non hanno modo di incontrarsi. Lo scontro è solo individuale; quando, nella condizione materiale della persona, ci si ritrova a confliggere con regole stabilite dall’alto e non conosciute, spesso.

L’architettura del documentario l’ho immaginata come un riadattamento, mi si perdoni la presunzione, dell’Odissea.

La struttura narrativa del poema omerico, consente di immaginare il percorso di un ipotetico Ulisse, smemorato per il naufragio che nell’epos lo conduce all’isola dei Feaci, e che rivive la sua avventura, innestando su essa il racconto delle ferite al diritto che la gestione emergenziale del Terremoto ci ha fatto subire. Il tentativo è quello di accostare agli episodi del poema il complesso dei colpi che abbiamo ricevuto. Un tentativo che non dovrebbe svolgersi come mero riassunto di quanto avvenuto, ma anche come tensione nel comprendere il lascito che tali ferite ci hanno prodotto. Anche lo svuotamento della democrazia e del diritto produce e produrrà macerie.

L’Aquila è un’Itaca cui tornare e da costruire.

Ho dei dubbi se Ulisse possa essere una donna o un uomo. Il rovesciamento dell’eroe in donna, oltre a “celebrare”, in una certa misura, il ruolo delle donne nel dopo terremoto, consentirebbe uno sguardo diverso sulle cose. Però non so se sono in grado di raccontare questo sguardo, anche se alcuni squarci li percepisco. Propendo di più perché sia un uomo. Ma è una questione che lascio aperta.

L’intelaiatura narrativa la potremmo dividere in tre parti.

Naufragio e risveglio

Racconto del viaggio di ritorno ad Itaca-L’Aquila

Sguardo sul presente e desiderio di vendetta

Il racconto dovrebbe essere strutturato come un incastro tra l’adesso e il flashback. E, se possibile, per il racconto del passato userei il bianco e nero invece del colore.

Naufragio e risveglio

Il naufragio è come il sisma. Io lo racconterei con una lampadina accesa, che si spegne. Seguita da una ripresa del silenzio, al buio, nel quartiere di Santa Barbara della durata di 23 secondi, tanti quanto la scossa. Scanditi da un cronometro digitale visibile ad un angolo dell’inquadratura.

Il risveglio senza memoria lo immagino con Ulisse steso a terra, l’ideale sarebbe una ripresa sull’asfalto, con la telecamera che parte dal primo piano di una crepa e si allarga sul corpo steso longitudinalmente rispetto alla crepa che continua. O comunque qualcosa di simile, ad esempio dentro una casa, sulla parete. Soccorso da una serie di persone che lo svegliano, lo rianimano. Lo conducono in un ambiente confortevole, una casa vera, una reggia. L’uso del dialetto aquilano nei dialoghi potrebbe essere una scelta utile. Magari accompagnata, come controcanto, da qualche verso dell’Odissea, utile al contesto del racconto, in greco, alla base dell’immagine.

Si deve comprendere che Ulisse non ricorda più nulla, tranne il suo nome, tranne che è reduce da un lungo viaggio.

Il colloquio consente l’apertura di luci sul passato. Il progressivo riaprirsi della memoria. Una scelta narrativa potrebbe essere quella di una rapida sequenza di un giro automobilistico tra le frazioni aquilane, nei punti ancora in rovina, facendo comprendere che è il percorso che lo accompagna nella casa di chi lo ha soccorso.

E, il momento del ritorno della memoria è a tavola, magari alla fine della cena, con un bicchiere di genziana.

Racconto del viaggio di ritorno ad Itaca-L’aquila

Ulisse ora ricorda. Piange.

Chi è con lui gli chiede di raccontare. Ulisse racconta che subito dopo il terremoto è andato in giro per l’Italia, a raccontare L’Aquila, ma nessuno gli ha creduto. La TV mostrava altre immagini.

Ulisse racconta che chiedeva di sapere da un funzionario chi avesse in mano una pratica di ricostruzione, il funzionario gli risponde che a L’Aquila non c’è trasparenza degli atti della Pubblica Amministrazione. Abolita per Ordinanza.

  • Ma scusa, qui dice che mi danno 300 euro per la rimozione di macerie da casa mia e deposito in discarica controllata, invece dei 3200 richiesti…-

  • E si vede che non ti spettavano….-

  • Sì, ma l’Ingegnere non aveva chiesto neanche un euro nel Progetto su questa voce…-

  • E si vede che hanno guardato un altro progetto…-

  • Quindi mi regalate 300 euro ? –

  • E ti lamenti pure ? –

Inquadratura di un monumento aquilano. Magari la fontana di Fontesecco. E poi il monumento coperto con un telo. Sparito, sottratto alla vista.

Nella cena, con un salame in mano, qualcuno dice: “ Affella, Fra’…”

E’ come l’incanto cui Circe sottopone gli uomini che viaggiavano con Ulisse, facendogli dimenticare il luogo dove volevano tornare. Li trasforma in maiali, e offre a Ulisse un’altra realtà.

Ed ecco il Progetto C.A.S.E.

La nuova realtà. Inquadratura di bandiere che sventolano.

Per fare il Progetto C.A.S.E. si è derogata la legge sul subappalto. Si poteva subappaltare fino al 50% dell’opera, invece che il 30%. Decine e decine di Ditte, come formiche che costruiscono il formicaio, sotto il comando di una regina. Ma si erano dimenticati una norma da derogare, che produceva un reato. E quindi con un’Ordinanza hanno sospeso il reato. Retroattivamente, il reato di subappalto non autorizzato, non esiste più.

Si può raccontare con le immagini di un uomo, vestito da imperatore romano, che costruisce casette con il “Lego”, e, ogni tanto, gli capita tra le mani una scatolina che sul coperchio ha la scritta “Regole”; lui la prende, la guarda, e la butta via dietro le spalle.

E, ogni volta che questo avviene, la scena torna alla cena, al salame affettato, e alla voce che dice “ Affella, Fra’…”

Per fare le C.A.S.E. hanno fatto la Deroga al Codice dei Contratti della Pubblica Amministrazione, e hanno derogato alla vigilanza operata dalla Corte dei Conti:

Difatti le situazioni eccezionali ed imprevedibili richiedono interventi urgenti, ma quando questi non siano

assunti le situazioni si consolidano, per così dire, con il trascorrere del tempo e da situazioni dell’anzidetta

natura divengono situazioni di disagio abitativo, di difficoltà di vita sociale, di stagnazione dell’attività produttiva, di carenza di infrastrutture che sono proprie non soltanto dei luoghi colpiti da eventi calamitosi ma di tante parti del territorio nazionale. Non solo, ma l’attenuazione delle garanzie che discende dagli interventi in deroga non trova più alcun sostegno logico o funzionale quando il decorso del tempo sta a dimostrare che non esiste o non è stata efficace la situazione di urgenza a indurre interventi della stessa natura”.

Frase pronunciata da un Sacerdote della Corte dei Conti, con aria ispirata. Detta all’angolo di una strada, deserta, nel silenzio di tutti.

Quanto costa il Progetto C.A.S.E. ?

Le casette del Lego, poi coperte da un lenzuolo, poi il lenzuolo si alza, e si vede il libro realizzato dalla Protezione Civile, e dalle Ditte coinvolte, e si legge il costo lì riportato, poi si inquadra il rendiconto prodotto, sempre dalla Protezione Civile, e si vede una cifra diversa, e si fa la differenza di quanto denunciato in meno. Ulisse dice che è come guardare la realtà con un occhio solo, inquadratura di un automobile di notte che cammina con un faro solo.

Uno degli inquisiti per il processo alla Commissione Grandi Rischi, presente alla famosa riunione del 30 marzo 2009, è responsabile di Eucentre, cui l’Ordinanza consegna 300.000 euro per il progetto del Progetto C.A.S.E.

Affella, Fra’…”

Inquadratura notturna del cimitero de L’Aquila, da fuori, che si vedano i lumini accesi, e poi del San Salvatore, sempre di sera, che si vedano le luci, e, sempre di sera, inquadratura da lontano del Progetto C.A.S.E. sulla strada tra L’Aquila e Scoppito, magari ripreso dal ristorante Casale Signorini. Luoghi diversi, effetto uguale.

Chi paga le manutenzioni ?

Chi paga i giardini ?

Che ci si fa quando finisce l’emergenza abitativa ?

Che relazioni sociali si creano in quei luoghi ?

Quanto disagio ?

Come è cambiato il traffico automobilistico, sulle tracce ancora della metropolitana di superficie ?

Sono proprietà del Comune, ora, dove il Comune trova le risorse per gestirle ?

Domande che Ulisse racconta di aver fatto ad un Oracolo. L’Oracolo gli ha detto di scendere nell’Ade. Ulisse prova a scendere nel sottopasso tra piazza Duomo e Collemaggio. E lì trova un barbone, che gli dice che era un lavoratore con contratto di progetto prima del terremoto, e gli hanno dato solo 800 euro per tre mesi dopo il sisma e poi più nulla. Sta lì perchè sa che arriverà la Zona Franca, e di sicuro sarà assunto, in una piccola azienda che fabbricherà forchette per i cinesi, dove saranno liberi di licenziarlo quando vogliono, però lui si darà da fare per essere un bravo servo, tanto la laurea in matematica lì non gli servirà.

Ulisse gli fa le domande, e lui gli risponde che non gliene frega un cazzo. Un piatto di pasta a Padre Quirino che tanto non è una C.A.P. ( Chiesa Assolutamente Provvisoria ), ma una C.A.I. ( Chiesa Assolutamente Irremovibile ), e domani si vede.

Ripresa di persone che frugano nei cassonetti di immondizia dietro il supermercato Carrefour vicino al cimitero.

Ulisse gli chiede perché pensa solo al presente, e non al futuro, il futuro dei suoi figli. E lui gli racconta le scuole de L’Aquila, la Circolare del Ministero delle Infrastrutture pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 13 agosto 2009 ( così scompare nei pic-nic di ferragosto ). Per gli edifici privati si costruisce con le nuove norme antisismiche, ma per quelli pubblici, se avevano i progetti già presentati, si poteva ricostruire con le vecchie norme antisismiche. A L’Aquila, alla data del 30/6/2009, presa a riferimento, quali erano i progetti già avviati ? Forse le Scuole, visto che a settembre sarebbe ripreso l’anno scolastico ? Non si può sapere, Opacità Atti Pubblica Amministrazione. E comunque, le scuole rimaste in piedi, sono a norma, nella migliore delle ipotesi, della vecchia legislazione antisismica. Carrellata sulle scuole aperte a Colle Sapone e i ragazzi che entrano al mattino.

Però si fanno i M.U.S.P. Moduli a uso Scolastico Perenne, e si distribuiscono soldi altrove per la sicurezza delle Scuole.

Affella, Fra’… “

Ulisse esce dall’antro, e, deluso, getta per terra una cartaccia, e altre cose che aveva portato con sè per offrirle in dono all’Oracolo. Tanto, l’immondizia gettata a terra è come le macerie, che, per Legge, sono diventate Rifiuti Solidi Urbani. E subito gli si avvicina un losco figuro, che, con accento del nord, gli chiede se può usare le sue macerie per andare a buttare via un po’ di amianto della sua fabbrichetta. Tanto, se sulla bolla di trasporto del camion c’è scritto che sono macerie del terremoto, chi vuoi che controlli se dentro c’è mischiata un po’ di robaccia ? E gli offre una moneta da cinque euro. “ Tanto voi siete dei sempliciotti…”, dice. E raccoglie la mondezza da terra, portandosela via felice.

Ulisse prende i soldi, cammina verso l’Arcivescovado, attraversando tutta la piazza, e lascia cadere la banconota sulla soglia.

Ulisse guarda il Duomo. “ Non è certo bello come altre Chiese”. Ma la Chiesa, sarà stazione appaltante della ricostruzione dei Beni Artistici della Città, in deroga al Codice dei Beni Culturali. Magari saranno realizzate bellissime opere, come la Chiesa Protezione Civile sita dietro la Fontana Luminosa ( immagini della tenda ), oppure, intanto, una lastra di cemento armato a piazza San Silvestro, e senza far diventare il denaro gestito una fonte di potere.

Si avvicina ad Ulisse una donna, come per chiedere un’informazione turistica, e Ulisse le dice :

Ospite caro , ti adirerai se ti dico una cosa ? E’ questo che piace a costoro, la cetra e il canto: facile, perché mangiano senza compenso la roba di un altro, ma se lui ritornasse, e lo vedessero a L’Aquila, tutti pregherebbero d’essere svelti di piedi, piuttosto che ricchi di oro e di vesti “.

La donna lo guarda stupita, e fa cenno agli amici che la aspettano lontano, che Ulisse è un po’ scemo. Danni da sisma.

l’esperienza delle inchieste e dei processi hanno acclarato una diffusa pratica di illegalità a soddisfazione di vantaggi personali e di gruppi politici, quella pratica, dalla quale sono derivati danni incalcolabili all’immagine della classe politica e del Paese ed all’economia nazionale, ha dimostrato che la corruzione è dilagata laddove i controlli erano insufficienti, inadeguati e, più spesso, inesistenti, sia negli enti locali che in quelli privatizzati a capitale pubblico.

Ebbene, di fronte a questa realtà, la risposta non è stata, a nostro avviso, quella prevedibile, cioè nel senso del potenziamento del sistema dei controlli perché essi fossero più funzionali agli obiettivi di efficienza dell’azione pubblica in un quadro di legalità.

Si è, invece, proceduto ad una drastica riduzione di quelli diretti a verificare il rispetto

delle leggi, con introduzione di valutazioni di gestione mutuate dall’esperienza della

imprenditoria privata. “

Ancora il Sacerdote della Corte dei Conti de L’Aquila, in un angolo della Piazza, da solo, vestito come un mimo che chiede l’elemosina. Declama, ad alta voce, nel silenzio deserto.

Ulisse chiude gli occhi, e sente la voce del Sacerdote che ripete più volte “imprenditoria privata” nel buio dell’inquadratura, si fa strada una musica, si potrebbe campionare un po’ di “ Sea swallow me” dei Cocteau Twins, ottima per essere il canto delle sirene.

Una serie di inquadrature veloci. L’abuso edilizio con sigilli del magistrato, sulla parallela di viale Corrado IV, il tentato abuso edilizio con i ponteggi ancora lì sopra il centro commerciale alla rotonda. Una carrellata circolare di vetrine dentro i vari centri commerciali della città. L’insegna della Finmek fallita. L’ingresso del Circolo del Golf di Preturo. Le baracche di legno di viale della Croce Rossa. La casa di un noto imprenditore edile e sede della sua azienda in viale Aldo Moro, chiusa perché classificata E. Il centro commerciale fantasma ex-Sercom a Sassa. Il Parco Scientifico e Tecnologico chiuso. L’Accademia dell’Immagine chiusa. E poi bar, bar e ancora bar. E una teoria di capannoni prefabbricati lungo la strada che da L’Aquila va a Scoppito.

E, alla fine, un mucchio di ossa spolpate, buttate da una parte.

Affella, Fra’…”.

Ulisse riapre gli occhi, e si ritrova ancora nella sala con gli altri commensali che lo hanno risvegliato.

Uno di loro gli chiede, come mai, mentre era svenuto, urlava, cercava di difendersi, e parlava sempre di un Mostro, chi era il Mostro ?

E Ulisse racconta che nel suo viaggio ha incontrato decine di mostri.

Inquadrature di diverse persone, riprese in luoghi riconoscibili de L’Aquila, e poi in primo piano, tutte con una benda nera su un occhio. Ad ognuna di loro, una voce fuori campo chiede : “ Dimmi il tuo nome, ora subito”. E ognuno di loro risponde . “ Tutti, è il mio nome, Tutti mi chiamano”. E poi, ognuno di loro dice una frase diversa:

  • L’ha fatto quiju, perché non lo pozzo fa’ pure ji ?-

  • Te se pozza remponne –

  • Ma lascia stare –

  • Business as usual –

  • Ma fatte gl’affari te’ –

  • Magna tu che magno io –

  • Che te serve fra’ ?-

  • E jamo, su…-

  • Esso quissi –

E altre frasi si possono scegliere, in aquilano migliore del mio.

Sguardo sul presente e desiderio di vendetta

  • E l’hai vinti questi mostri ?-

Chiede uno dei commensali.

  • Questi mostri si vincono. Ogni giorno, se ti assumi la responsabilità di agire esattamente come pensi che gli altri dovrebbero agire. Se rompi gli schemi.

Una serie di inquadrature, veloci, di gesti di vendetta.

  • Un immigrato, e un altro uomo dentro al Boss, che si capisca che sono muratori, l’immigrato offre un pezzo di panino all’italiano;

  • Ragazzi che studiano all’Università;

  • Un’automobile che si ferma per far passare un uomo sulle strisce pedonali;

  • Un imprenditore che, a un colloquio di lavoro, caccia via un uomo raccomandato da un potente politico, perché gli serve gente qualificata davvero per lavorare;

  • Un barista che richiama un uomo che ha pagato un caffè, perché non ha preso lo scontrino fiscale;

  • Un gruppo di musica classica che suona;

  • Bambini che giocano a rugby e imparano il sostegno;

  • Una ragazza che dice : “ Non mi interessa”;

  • Un medico in camice bianco che dice ad un paziente che non lo manderà a spendere soldi in una struttura privata ma che chiama al telefono un dirigente della ASL e si incazza perché la salute è un diritto pubblico, e non si possono aspettare sei mesi per un esame;

  • Un uomo che pianta un albero a San Giuliano;

  • Un gruppo di ragazzi che cancellano scritte sui muri nel centro storico;

  • Un politico che rifiuta i voti di uno che gliene promette tanti perchè cambi destinazione d’uso di un terreno;

  • La vecchia scritta “Yes we camp” a Roio;

  • Una insegnante con una scolaresca davanti alla lapide in piazza Nove Martiri;

  • Un ragazzo e una ragazza che si baciano;

  • Due vecchi che giocano a bocce;

  • Un po’ di persone con gli strumenti da ingegnere, che, da una parte di Pettino, dicono che là ci faranno una piazza, così le persone si incontrano e parlano;

  • Una signora con cinque o sei buste della spesa in mano, e che fa vedere che va a buttare l’immondizia differenziata;

  • Un contadino nei campi;

  • Due ragazzi davanti ad un computer che discutono di energia alternativa;

  • Un ragazzo che dice che il videopoker è una noia mortale e che al Parco del Sole hanno costruito una nuova pista per le biglie di vetro e ci va agiocare mentre altri ragazzi guardano e fanno il tifo;

  • Un gruppo di persone che prende l’autobus;

  • L’acqua dell’Aterno che corre.

  • E come mai, ti sei ritrovato svenuto e senza memoria ? –

  • Mi sono ritrovato in mezzo tra due creature mostruose…-

  • E quali erano ? –

  • Da una parte i tentacoli della Crisi Economica, che cancella le persone, e santifica il denaro di pochi. E dall’altra la nebbia viscida delle regole per la ricostruzione di casa di mia madre, classificata E, che a tre anni dal terremoto, ancora aspetta nuove Ordinanze…-

  • E che farai ora ? –

  • Studio, gli incroci delle vie e delle piazze, i punti di giuntura e di connessione, so che la campana suona sempre anche per me, leggo le carte di chi vuole decidere senza sentirmi, parlo con le persone e le ascolto, ho cura di me, e di quello che ho intorno, e agisco, non mi fermo più, da solo e con tanti, non me ne faccio più passare una. Gioco. Amo. Cammino con la schiena dritta. “

Ulisse prende un arco, e tira una freccia in cielo.

Mario Monicelli che ci invita a darci da fare.

Uno sguardo sul passato per fare qualche domanda sul futuro.

12 novembre 2011 alle ore 12:01

L’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici è un organo che vigila sul rispetto delle regole che disciplinano la materia dei contratti pubblici. I sette membri del Consiglio sono nominati dai Presidenti della Camera e del Senato.

Il 9 febbraio 2011 l’Autorità ha emanato una Deliberazione relativa alle opere di ricostruzione degli abitati colpiti dal terremoto del 6 aprile 2009. Si tratta di una indagine a campione, su una serie di appalti, effettuati dal Provveditorato Opere Pubbliche per il Lazio, Abruzzo e Sardegna, Ente spesso al centro di inchieste della Magistratura, ad esempio anche sulla ricostruzione della Questura de L’Aquila.

Si tratta di una Deliberazione scritta con un linguaggio molto sorvegliato, attento a non esprimere alcun giudizio, e a restare esclusivamente nell’ambito della missione istituzionale della Autorità. E, tuttavia, dalla sua lettura, si possono ricavare interessanti spunti di riflessione.

Innanzi tutto, l’Autorità fa rilevare come, sin dalla prima Ordinanza della Presidenza del Consiglio dei Ministri, dopo il terremoto, sia stata operata per il nostro Territorio una deroga molto ampia a tutta la normativa in materia di Appalti e Contratti Pubblici. Operare in condizione di emergenza richiede una flessibilità necessaria rispetto alla Legge per rispondere alle esigenze della popolazione colpita. E, tuttavia, rileva l’Autorità, tale deroga non può comunque intendersi come una licenza ad andare contro i principi generali dell’ordinamento giuridico. Le notizie fornite dal Provveditorato Interregionale sono notizie sommarie, già inviate ad altre autorità dello Stato, ed è su queste che l’Autorità effettua i suoi rilievi.

Il Provveditorato, ha riferito che, subito dopo il sisma e per un anno circa, in regime di commissariamento della Protezione Civile, gli affidamenti di appalti sono stati fatti o in modo diretto, o tramite una procedura negoziata con invito rivolto a imprese individuate dal Provveditorato, ma senza precisare la procedura o criteri prestabiliti secondo i quali selezionare le imprese. Tale sistema ha riguardato anche la scelta dei professionisti cui sono stati affidati lavori.

Sono stati stipulati 155 contratti, dall’inizio dell’emergenza fino al 25/11/2010 ( anche se in molti casi i lavori sono stati effettuati senza contratto, poi stipulato ), rispetto ai quali sono stati necessari 55 Atti Aggiuntivi, il che significa che, in oltre un terzo dei casi, dopo l’affidamento dei lavori, è stato ritenuto necessario ampliare l’oggetto dell’appalto affidato alla Ditta, con notevoli lievitazioni dei costi.

Non sono stati forniti, dal Provveditorato, i motivi per cui si sia proceduto ad affidamento diretto, o a procedura negoziata.

Per i lavori connessi al G8 sono stati spesi quasi 36 milioni e mezzo di euro, tutti in affidamento diretto;

per i lavori concernenti edifici scolastici sono stati spesi poco più di 21 milioni di euro, quasi tutti affidati con gara informale; per i lavori concernenti edifici pubblici, sono stati spesi quasi 28 milioni di euro, con procedure miste.

Le cifre esplicitano le priorità politiche delle scelte fatte sul Territorio in quella fase. Priorità che avrebbero dovuto essere ben altre, al di là della propaganda che abbiamo subito.

La pratica degli Atti Aggiuntivi, è stata utilizzata prevalentemente nel caso degli interventi sugli edifici scolastici, poiché sono stati affidati i lavori di ripristino, per accorgersi poi che era necessario mettere tutti gli impianti a norma, il che significa che, prima del sisma, i nostri ragazzi andavano a scuola in edifici pericolosi e fuorilegge.

L’incremento dei costi è stato assolutamente significativo: ad esempio, i lavori per l’Istituto Tecnico Commerciale Rendina, prima sono stati affidati per un importo di circa un milione e settecentomila euro, cui poi si è aggiunto un altro milione e duecentomila euro, oppure alla Scuola Media Dante Alighieri, prima sono stati affidati lavori per circa 700.000 euro, cui poi se ne sono aggiunti altri per oltre un milione di euro. Così anche per il Liceo Scientifico Bafile, o per l’ITIS Amedeo di Savoia.

I nomi delle imprese affidatarie sono pochi, il che significa che, alle stesse imprese, o in affidamento diretto, o a gara informale, sono stati affidati più interventi. Ma non sono mai state introdotte prestabilite modalità e criteri di individuazione degli operatori da invitare alle singole procedure di gara, al fine di assicurare trasparenza, imparzialità, e la più ampia partecipazione di imprese idonee. Analoghe considerazioni riguardano l’affidamento di lavori a professionisti.

Nel caso della messa in sicurezza della Basilica di San Bernardino, si arriva poi all’estremo per cui il progetto, sulla base del quale realizzare la sua messa in sicurezza, è redatto dalla stessa impresa cui poi sono affidati i lavori.

In definitiva, rileva l’Autorità, le procedure adottate, lasciano ampi margini, forse troppi, alle imprese affidatarie, e, spesso, le perizie di variante effettuate da chi avrebbe dovuto vigilare, non sono altro che la presa d’atto di quanto già avvenuto, anche sul piano economico: così, invece di lavorare “a budget”, si è lavorato “a consuntivo”, con incrementi di costo magari non congrui economicamente.

Una deroga alle disposizioni vigenti, dice l’Autorità, non trova logica giustificazione ove si prolunghi indefinitamente, e non appare pertanto giustificato il protrarsi di procedure emergenziali, che oggi sono da ritenersi non adeguate ad assicurare il rispetto dei principi di non discriminazione, parità di trattamento, trasparenza ed economicità.

In sostanza, l’Autorità mette le mani su un sistema. Un sistema che, in nome dell’emergenza, e attraverso lo strumento della deroga, ha costruito uno “stato di eccezione” permanente, nel quale diventa palese l’uso distorto della tecnica legislativa, i cui anfratti consentono un governo spregiudicato dell’economia. Tutto può essere stato fatto senza commettere reati e in nome dell’interesse pubblico. Ma non è sicuro che sia così, e solo questo dovrebbe bastare ad una Democrazia vera per correre ai ripari. Ma non accade.

Tutto questo, pone un problema. La condizione di emergenza ha consentito, sin qui, una disponibilità di risorse di assoluto rilievo per il Territorio, magari non sufficienti, ma comunque di assoluto rilievo. Il 31/12 prossimo, cessa l’attuale fase di emergenza con relativi commissariamenti.

Alla cessazione dell’emergenza e dei commissariamenti, corrisponderà una cessazione della disponibilità delle risorse necessarie ? Oppure possono esserci assicurate nuove risorse purchè gestite in regime di commissariamento ?

E’ un punto che occorre porre esplicitamente. Anche perché è una potenziale arma di ricatto per il Territorio. La cui condizione drammatica favorisce, oggettivamente, il piegarsi al ricatto. Può cioè essere tranquillamente ritenuto un “male minore” l’accettazione della assenza di trasparenza e della non economicità degli interventi, in nome del deserto che stiamo attraversando, pur di avere un po’ d’acqua.

Le stesse Elezioni Comunali sono sotto l’ipoteca di questo tema.

Il tutto in un contesto in cui la drammatica crisi che colpisce il Paese non potrà non avere ulteriori effetti su di noi e sul nostro Territorio.

Quando si pone una candidatura al governo della Città, si dovrebbe, a mio modesto parere, affrontare questo nodo. Oggi, da parte di tutti. Altrimenti correremmo il rischio ulteriore che la stessa costruzione delle candidature sia sottoposta ad una contrattazione preventiva, con qualunque Governo ci sarà, su questo tema. Una contrattazione che non sarà certo trasparente.

Percorso di guerra

1 dicembre 2011 alle ore 18:29

Partenza da Sassa, verso il Nucleo Industriale di Bazzano, sede ASM.

Devo attraversare Sassa, per la via principale, strettoia, ci passa un’auto sola, anche se i sensi di marcia sono due, la curva è cieca, e quindi ci vuole circospezione, e scaramanzia. E un bonus di fortuna. Se hai un’auto ingombrante, ci vuole anche grasso di balena da spalmare sulle fiancate, per scivolare meglio sullo stretto. Qui c’era una volta l’Ufficio Postale, e ora non c’è più. C’era anche la Caserma dei Carabinieri, e ora c’è un cancello chiuso. Passo. E vado verso L’Aquila.

Rotonda, e Progetto C.A.S.E. E MUSP.

Strada stretta, un po’ di incroci dietro le curve, che chi arriva per capire se può passare deve sporgere il muso, a rischio di una nasectomia.

Incrocio per Lucoli, rotonda nuova, ancora in plastica, deve crescere. Addirittura stanno facendo dei lavori che somigliano ad un marciapiede, che parte e arriva nel nulla, e, a fianco, un megagalattico lavoro di scavo che realizza un canyon per l’acqua, ingabbiando pietre in griglie di ferro, e si perde in un buco sotto la curva a gomito. A sinistra una casa di legno, autorimessa di una compagnia di bus da noleggio, un fungo del sisma. E finalmente la rotonda amletica. Per andare a Bazzano faccio la Mausonia, o passo in mezzo alla città ? La rotonda è minuscola, nel centro c’è un lampione con la luce psichedelica, che, negli ultimi giorni, si accende e si spegne in continuazione, a intervalli di tempo imprevedibili, neanche un geyser di Yellowstone.

Decido di passare per la città.

Naturalmente, il passaggio a livello è chiuso, deve passare il trenino. Aspetto. Una volta c’era la casa del casellante, ora non c’è più. in compenso si passa su un ponte che sovrasta il canale secco di un rivo che non so dove nasce. Il letto è ingombro di massi, alberi divelti, erbe che crescono, rifiuti umani. E’ secco, il clima non piove. E aspetta di gonfiarsi. Magari troppo. E’ una lotteria. Carta vince, argine perde.

Le sbarre si alzano, e mi posso immettere sulla Strada Statale 17. Ovviamente, l’ingresso vero e proprio è una corsa a spintoni con quelli che vengono da Scoppito. Hanno la precedenza e se la prendono, senza pietà. E quando entro, finalmente, ho davanti uno schiacciatore di uova professionista. La lentezza esasperante si accompagna ad una precisione millimetrica per acciaccare le uova sparse sul manto stradale, non ne manca una, a quindici chilometri orari. E quando arrivo alla rotonda monumentale che porta al Centro Commerciale, prego gli dei del traffico che giri a destra, e mi liberi della sua augusta presenza. Gira, per fortuna gira !

L’ingresso nella rotonda è come quello del toro nell’arena, fiero, veloce, e senza pensare a nulla, e per proseguire verso la rotonda successiva, apro lo sportello a fianco del guidatore, per impedire il passaggio a quelli che vengono dal centro commerciale, che non danno la precedenza e pretendono di sorpassarmi sulla destra. Piuttosto mi faccio lapidare.

Altra rotonda monumentale, fatta in accelerata rombante, nessuno può entrare dalla mia destra, ma tanto quando arrivo io ad una rotonda, mi prendo la precedenza dall’alto, dal basso, e da sinistradestra.  Rettilineo.

Sottolineato dal minaccioso Centro Meccanizzato delle Poste alla mia sinistra. Luogo in cui si perdono gentili anziane signore, dopo dodici ore di fila per ritirare una raccomandata; luogo, dove si narra, che un trentenne baldanzoso che voleva ritirare la propria posta arrivata all’indirizzo crollato,  sia diventato calvo nel frattempo, e con l’alopecia psorisiaca, e con uno strano tic nervoso che lo costringe al pianto dirotto, ogni volta che ascolta pronunciare un numero, che non è il suo. Unico ufficio aquilano di smistamento raccomandate e posta per terremotati. Il Signor Poste Italiane è un maniaco sadico con tendenze hitleriane.

La casetta dell’ANAS non c’è più, e neanche le fabbriche del Polo Elettronico, salvo qualche fantasma, e il ricordo di numerosi fallimenti drammatici. Quel luogo è oggi un ottimo investimento immobiliare.

Ancora una rotonda, circondata da esercizi commerciali che erano aperti, che sono aperti, che saranno aperti. e via dritto, verso il blocco stradale dell’uscita del casello autostradale, ovviamente senza aver dato la precedenza a nessuno, perché non gli spetta, che esca dai sette o otto incroci di negozi installati nella nostra vera via dello shopping, altro che Corso Buenos Aires a Milano. Noi abbiamo un negozio ogni tre centimetri quadrati, e neanche tutti gestiti da cinesi.

Il casello dell’Aquila Ovest mi ricorda che devo indossare le scarpe da neve fino al 15 aprile, e qui tra poco vado a riprendere il costume da bagno. C’è ancora la rimessa dell’ARPA, che fa rimettere, e l’ingresso ad un supermercato, diventato nel frattempo quattro supermercati in uno. Lì dentro a mia cugina hanno rubato il portafogli mentre, per paura di farselo rubare, lo stringeva tra i denti. La coda rallenta, così, sull’asfalto recentemente rinnovato, i colpi che si danno ai tombini sembrano solo una tappa della Parigi-Dakar. E fanno meno male alla cervicale.

Ma perché non fanno una bella rotonda davanti al Motel ?

Magari una rotonda multipiano, con parcheggi e centri commerciali. Adesso stanno sistemando un capannone orrendo prima del Motel, e dentro ci faranno una centro commerciale di centri commerciali, splendido. Già ci sono in giro gli avvisi per la selezione del personale addetto alla distribuzione di generi di conforto per gli automobilisti sulla strada fermi in coda , che, si prevede, partirà da Mosciano Sant’Angelo, e arriverà ad Antrodoco.

Viale Corrado IV, al posto del benzinaio crollato, una centrale a biomasse, per lo smaltimento degli scontrini fiscali e delle ricevute. La vedo dura. Bisognerà allargare oltre i 70 chilometri il raggio di rifornimento. Sono le otto del mattino e al MC Drive c’è la coda. Colazione con il Master MC Pig, panino con piedini di porco fritti nel lardo e nell’olio di petroliera usato, guarnito di erba gatta e maionese dietetica.

Guardo Piazza d’Armi, il leggiadro tetto in legno della rimovibile chiesa di San Berardino bis, la possente piattaforma in cemento per ospitare il mercato di Piazza Duomo bis, la selvaggia vegetazione, che aspetta un Auditorium, un complesso termale, dodici piste d’atletica, un palasport, una piscina olimpionica, un palazzo del ghiaccio, una salsamenteria,e, naturalmente, parcheggi e centri commerciali.

Intanto devo stare attento a come guido; le ruote rischiano di finire tra le fessure delle rotaie della metropolitana di superficie. Quanto costa al chilo questo ferro ? Tutto davanti casa dell’ex sindaco andrebbe portato, che lo ricicli, e il ricavato lo devolva al Comune de L’Aquila, per istituire un servizio di carrozzelle trainate da cavalli, gratuito, per tutta la città. Cazzo.

Ora attraverso il sottopassaggio. Una volta questa era la “rotonda”. Neanche i soldi del copyright le hanno dato. Le mura antiche un po’ sbriciolate, i palazzi sopra sbrindellati, e il centro commerciale lussuoso, che anni fa era sotto processo per abuso edilizio, poi presumo assolto, e ora pronto a sopraelevare, in un altro centro commerciale per poveri.

Il viale della Croce Rossa, con i suoi marciapiedi incamminabili, ha un che di romantico, con i suoi manufatti legnosi o a mattoni sotto le mura della città, un cafarnao arrangiato. Devo smettere di avere la puzza sotto il naso. L’importante è che i finestrini siano chiusi, il filtro antiparticolato efficiente, e la capacità di apnea, allenata. Attività che erano in Centro. Mi dico. E’ giusto così. Mi dico. Ma non riesco a convincermi. In verità sono venti e fischia anni che non mi convinco, passando di lì. Quanto sarebbe bello se sotto le mura si potesse passeggiare nel verde, andare in bici. Baciarsi. Tu non fai economia, uomo. Fai star zitti i tuoi pensieri, e chiudi meglio il naso che passiamo vicino alle macerie di amianto.

Sfioro la curva mai realizzata dello stadio, a fianco al palazzetto dello sport mai funzionante, e finalmente arrivo alla rotonda sotto Viale Gran Sasso, ora sì che il traffico scorre. E pure l’erba è tagliata. Magari l’appalto non costa tanto quanto la ricostruzione della Questura, e non lievita altrettanto, e forse non è nemmeno al massimo ribasso, e forse non interessa alle cosche.

Non funzionano più i semafori all’incrocio con la caserma dei Vigili del Fuoco, così in caso di sisma i tredici Vigili in servizio escono veloci senza aspettare il verde. Però devi passare feroce di lì, giusto un pizzico di attenzione per non arrotare studenti. E passo accanto a quel meraviglioso capannone che il terremoto ha finalmente consentito di ristrutturare, dopo decenni di abbandono. Ci faranno un centro commerciale ?

La curva a fianco al cimitero la faccio in sesta, che nessuno si azzardi a passare dai lati. Sono solo preoccupato che lo spostamento d’aria non danneggi i puntellamenti della chiesa. E, nel passaggio, mi ricordo le polemiche cittadine quando si consentì di edificare il centro commerciale con vista sul cimitero. Mi viene da sorridere, ma mi rabbuio subito, perché mi ricordo che ho sfiorato anche lo Stadio del Rugby mai aperto.

E via verso la rotonda di ingresso alla città, o di uscita, dipende dal punto di vista, ma in realtà, sono ancora in centro, visto che la città finisce a San Demetrio.

Un pezzo di strada a quattro corsie, raro come un mio lampo di intelligenza. Sgrano le marce, fino al restringimento. Dimenticavo che stanno costruendo i ciclopici cavalcavia a fianco del Progetto C.A.S.E. di Bazzano, e ci sono i lavori in corso. Quando passerò di li, mi sembrerà di volare, e potrò buttare le cicche di sigaretta sul balcone dei terremotati.

Ecco la rotonda, che mi immette sulla Provinciale; se non altro non ci saranno più i furbi che giravano a destra facendo finta di tornare verso L’Aquila, e subito rigiravano a sinistra per non fare la coda. vedi che le rotonde servono. Miscredente.

E poi, guarda che bella la rotonda del vecchio incrocio per Paganica. Ha anche un passaggio pedonale in mezzo, e spero che ci mettano una panchina, perché il panorama è magnifico: guardando verso Pescara, centri commerciali a perdita d’occhio.  Là dove c’erano fabbriche ora c’è una città, m’è venuta anche una citazione di canzone antica.

Ce l’ho fatta. Tra capannoni nuovi, e capannoni vecchi sono nel nucleo industriale di Bazzano. Commissariato. Sono arrivato.

In ritardo, gli sportelli sono chiusi. Sono arrivato tardi. Ci ho messo tre ore e mezzo. Facevo prima in elicottero.

La prossima volta parto da Preturo. Dall’aeroporto internazionale, di Preturo.

Uno sfogo, forse.

9 dicembre 2011 alle ore 18:52

Una storia impossibile.

 

A settembre 2008 la crisi economica globale era chiara. Ma, in Italia, il Ministro delle Finanze, e il Governo, spiegavano che non era vero nulla. In Abruzzo c’era campagna elettorale, la Giunta Del Turco era stata arrestata. Il Governo preparava il Federalismo Fiscale, per distribuire risorse per noi inesistenti. Il Sindaco minacciava le sue dimissioni. In città giravano centinaia di cassintegrati e lavoratori in mobilità. Nei negozi del centro, le commesse avevano il contratto di “associazione in partecipazione”. Il manager della ASL faceva un contratto di assicurazione contro i rischi da terremoto. Per piazza d’Armi si proponeva un faraonico progetto di cementificazione, e sotto il Ponte di S. Apollonia bisognava costruire parcheggi. Si discuteva di quante case fossero sfitte, degli affitti in nero agli studenti universitari.

Poi la terra ha iniziato a tremare. E ha tremato forte, la notte del 6 aprile 2009.

Ricostruzione al 100%”.

Questa è stata la prima parola d’ordine. Legittima. Necessaria. Ma incardinata dentro una visione totalmente individuale della vicenda che stavamo vivendo. La ricostruzione della propria normalità domestica, violata di notte, da un ladro blasfemo e assassino, che rende insicuro quanto noi pensiamo più nostro, e inviolabile; tutto quello che c’è dentro le porte delle nostre case.

La ricostruzione a spese dello Stato della nostra proprietà privata. Una esigenza essenziale, per chi è colpito, per chi è disperso in tenda o in albergo, per chi non ha più alcuna abitudine che riconosca come propria. Per chi non ha più paesaggio familiare. Ma è un tarlo. Una priorità politica-sociale-economica che oscura e divora ogni altra dimensione. E costruisce il cittadino senza prospettiva. Mentre la grancassa mediatica imbastisce una rappresentazione scenica centrata sulla Solidarietà, che esiste ed è forte in tutto il Paese; sulla efficienza della macchina nei soccorsi, che esiste e da’ importanti prove di sé; centrata sugli episodi in grado di esaltare il climax emotivo della vicenda.

Il cittadino ha l’unica dimensione della propria abitazione privata, il cui indennizzo va conquistato: scompare la città che diventa scenario televisivo di macerie che illustrano il dramma; il cittadino è raccontato nelle sue emozioni più profonde e “animali”: la paura, il dolore, l’aiuto dato e ricevuto; mangiare, bere, dormire, lavarsi.

L’intera rappresentanza istituzionale della città, della provincia e della regione è totalmente schiacciata su questa rappresentazione. Al seguito della rappresentanza governativa, che viene qui “a miracol mostrare”.

Più bella e più grande che pria “.

Ettore Petrolini, in teatro, negli anni ’30 del Novecento, irrideva Nerone, che bruciava Roma per ricostruirla. E sbeffeggiava amaramente un popolo, che, quando sentiva una parola non conosciuta, aulica, applaudiva, frenetico, incapace di intendere.

Al linguaggio aulico si sostituisce il linguaggio tecnologico. Progetto C.A.S.E. ; cui fa da contraltare l’altra parola d’ordine, tutta aquilana, rassicurante:

Dov’era, com’era “.

Al cittadino è proposta una nuova, duplice, dimensione: il bisogno abitativo, reale, urgente e drammatico, coniugato come tecnologia “nuova” e indistruttibile, mentre la terra ancora si fa sentire: come opera prometeica ed esemplare, venduta con un battage pubblicitario totalizzante, e la città assume la forma della “nostalgia”. Di un ritorno ad una dimensione arcadica, si può dire, che ne cancella tutte le crisi e le contraddizioni precedenti il sisma e la eleva ad un altare di mitico ritorno al passato, quando non c’erano le vittime, le distruzioni, e la vita si svolgeva dentro binari sempre dolci.

E, ancora, la dimensione resta quella individualizzata. Ogni misura è tarata sulla risposta a necessità individuali immediate. Che ci sono e pesano. Dal pedaggio autostradale gratuito, al contributo di autonoma sistemazione, all’autorizzazione a costruire manufatti di abitazione in legno.

La città è scenario nudo per la pietà televisiva mondiale del G8.

Il lavoro è sostituito da ammortizzatori sociali totali, che pagano lasciando le persone a casa. Ovunque sia la loro casa.

Un racconto sommario, il mio. Che guarda al “senso comune”. Ad un lutto irrisolto che qualcuno prova ad ammaestrare. Alle esigenze materiali quotidiane, in larga parte soddisfatte, delle persone, mentre la dimensione collettiva, sociale, politica, economica della vita quotidiana è stata eradicata, talvolta con assoluta consapevolezza di intenti. Dentro un contesto esterno a noi che diventava sempre più cupo di una crisi economica drammatica e globale sino a ieri negata dal Governo con pervicacia demenziale.

La dimensione individuale, paradossalmente, si esalta persino dentro il “social network”, ed io non ne sono certo esente.

Siccome la visibilità della mia parola diventa globale, io sono autorizzato a dire su tutto, e quanto più lo faccio in modo “accattivante”, tanto più posso avere seguito. La parola può sostituirsi all’atto. Il proclama può sostituirsi ad ogni mediazione sociale collettiva. In nome della libertà e della democrazia, e della partecipazione, ognuno aggiunge la propria voce individuale, che però ha valore assoluto e definitivo. L’invettiva è il nuovo modo di dimostrare la propria purezza.

Dentro un sistema che comunque, consente confronto, condivisione, rompe solitudine, diffonde idee e posizioni, può influenzare positivamente il crearsi di opinione pubblica. E può creare cambiamento collettivo reale. Può; ma non è detto e non è automatico che accada.

E, in ogni caso, si attivano dinamiche nuove, diverse, importanti, con il confronto reale delle Assemblee, dei Comitati, delle Manifestazioni.

Ma, credo, per le ragioni che sto cercando di fissare con le mie parole, che non vi sia riconoscimento comune, neanche della storia vissuta. Perché questo è stato sistematicamente impedito, perché il contesto e la sua dimensione culturale e materiale prevalente non lo hanno consentito. Credo che questa mia affermazione sia banale, quanto terrorizzante ed evidente.  All’estensione geografica della città, alla sua esplosione fisica e in parte necessitata, corrisponde l’atomizzazione delle percezioni che ognuno ha di quel che ha vissuto e vive. Naturalmente le eccezioni ci sono: momenti di identità collettiva, anche simbolici, ci sono stati. Ma non hanno assunto egemonia. Sono stati persino essi, forse, una estensione di una dimensione “super-individuale”. E i Gruppi, le Associazioni, i Partiti o i Sindacati, strutturati o estemporanei, se hanno colmato un vuoto della “società civile” inesistente o quasi pre-sisma, non hanno, ad oggi, costruito una visione unificante, dei problemi e delle loro possibili soluzioni.

Solo gli interessi economici, compresi quelli illegali, hanno avuto e hanno chiaro il “che fare” e come. Non si pongono domande sulla storia o il suo racconto, e sulla possibile visione del futuro. Pensano al fatturato. Ora.

La dimensione individuale resta un aspetto essenziale di una vicenda collettiva. I propri pensieri, le proprie sensazioni, il proprio dolore per quanto si è vissuto resta una traccia fondamentale per ciascuno di noi.

Ma io mi permetto, sicuramente con ritardo, di pensare che in tutto questo ci sia un fallimento collettivo, come comunità. E come classe dirigente, in senso largo, di questa comunità. Anche quando ci sia stato un lavoro generoso e disinteressato.

L’inganno, sapientemente costruito, delle norme tecniche di ricostruzione, mai definitive e sempre opinabili, e che saranno materia di grande business per gli avvocati in un futuro molto prossimo; la tabella della Legge 77/2009 sulla ricostruzione della città che diluisce le risorse finanziarie disponibili al 2032, il commissariamento di ogni scelta pubblica rilevante, hanno prodotto una drammatica lacerazione, e lasciato il cittadino, individualmente, ancora una volta, solo dinanzi al suo problema individuale, al più familiare, di ricostruzione.

Nessuno dei grandi soggetti associativi, politici, sindacali collettivi, ha reso questa solitudine meno drammatica ed evidente.

E dentro la solitudine, la ricerca del capro espiatorio è il processo più evidente che appare nel “senso comune”. Per ogni cosa vi è e vi deve essere una colpa e un colpevole, e spesso è vero che ci sono, ma quel che si vuole, di frequente, è la vendetta, la pubblica gogna, non la pubblica censura, secondo Legge, di reati o comportamenti scorretti. E’ molto pericolosa questa aria che si respira.

Non lo so, se ci siano ancora i margini per recuperare il fallimento che cerco di raccontare. Ma penso che sia un dovere civico.  Naturalmente, la mia è un’opinione. E, in quanto tale criticabile, o discutibile, integrabile. E qualcuno potrebbe persino convincermi che sbaglio, o che si tratta di un’opinione inutile.

Da un certo punto di vista mi auguro sia così. Vorrebbe dire che la nostra storia non è impossibile da raccontare, che questa storia produrrà una città migliore e più vivibile, e più prospera e più bella.

Mi piacerebbe contribuire a costruire una consapevolezza collettiva su quel che scrivo. E a cambiare il senso di questa nostra storia, finalmente riconosciuta come comune. Mi piacerebbe.

Lettera per chi è lontano

30 dicembre 2011 alle ore 13:14

Mille giorni.

Care amiche, e cari amici di Facebook, che non vivete a L’Aquila. Cercavo un modo per farVi gli auguri per il nuovo anno. Con molti di Voi non ci vediamo da anni, altri, tra Voi non ho mai avuto il piacere di conoscere di persona. Cercavo un modo che non fosse formale.

Alla fine ho scelto di provare ad essere rispettoso nei Vostri confronti, e, per augurarVi davvero un buon anno nuovo, provo ad offrirVi un pezzo, sia pure minimo, di esperienza personale dei miei ultimi mille giorni, affinchè, se lo riterrete utile, possiate usarlo per la Vostra esperienza quotidiana, lì dove vivete.

Vedete, la città dove vivo da 24 anni, è improvvisamente diventata un evento da prima pagina per quel che le è accaduto il 6 aprile del 2009. E quel che le è accaduto ha alimentato per qualche tempo l’informazione nazionale, alla ricerca di storie da vendere, o impegnata in inchieste importanti, o capace di usare un evento drammatico per edificare immaginifici successi politici di risposta ad una emergenza. Poi, come normalmente accade, con una informazione che gli “eventi” e “notizie” li vende, siamo scivolati in un lento oblio senza normalità. Chi parla più di quanto accaduto a Fukushima, solo qualche mese fa ? Una tragedia epocale al cui confronto quanto accaduto a noi, sia pure pesantissimo, sia pure con le irrimarginabili ferite della perdita di vita umane, scompare. Eppure guardiamo altrove, non certo a L’Aquila. Tante e vere sono le priorità in Italia, e poi le notizie durano solo due giorni e di giorni, a L’Aquila ne sono passati mille.

 

Io invece penso che sia importante che Voi possiate leggere qualche piccolo pezzo di storia di questi ultimi mille giorni. Perché magari abbiate modo di parlarne con i Vostri amici o in famiglia. Perché, se ci riesco, vorrei raccontarvi qualcosa che parla di noi: dell’Italia. E di come ci stiamo autodistruggendo. Naturalmente il mio è un punto di vista. Qualcuno potrebbe non ritenerlo la verità. Ma Voi in questi mille giorni avete ascoltato, visto e letto le notizie dell’informazione “ufficiale”, su L’Aquila, e la mia voce è di gran lunga meno potente e diffusiva, e quindi, vorrei che foste capaci di sopportarla. E scusate la mia presunzione.

 

Alla data del 27 dicembre 2011, nel solo Comune de L’Aquila, risultano assistite ancora dallo Stato, con differenti soluzioni abitative, 27.668 persone (http://www.commissarioperlaricostruzione.it/Informare/Situazione-della-popolazione-post-sisma/Report-sulla-situazione-della-popolazione-post-sisma-aggiornato-al-27-dicembre-2011), rispetto a 72.696 abitanti residenti.

Nella nostra Città, dal 6 aprile 2009, e per almeno altri 3 mesi del 2012, vige lo Stato di Emergenza. Il Presidente della Regione Abruzzo è Commissario per la Ricostruzione, coadiuvato da un Vicecommissario nominato dal Governo, da una Struttura di Gestione dell’Emergenza, da quattro Esperti, e da una catena di Enti incaricati di esaminare le pratiche per la ricostruzione delle abitazioni presentate dai singoli cittadini: Cineas ( un Consorzio di Compagnie Assicurative e Professionisti ); ReLuis ( Consorzio della Rete dei Laboratori Universitari di Ingegneria Sismica ) che non hanno sede a l’Aquila, ma in tutta Italia, di cui il cittadino non può conoscere chi materialmente ha in carico la sua pratica di ricostruzione, e il cui parere è vincolante ai fini della concessione del contributo statale.

Essere in Stato di Emergenza, significa essere governati attraverso Ordinanze della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Le Ordinanze operano in deroga alla legislazione ordinaria, cioè aboliscono in parte le Leggi che valgono per il resto del Paese. A L’Aquila l’Autorità commissariale opera in deroga alla Legge sulla Trasparenza per gli Atti della Pubblica Amministrazione; in deroga al controllo della Corte dei Conti; in deroga al Codice dei Contratti per gli appalti pubblici; in deroga al codice per gli espropri o al Piano Regolatore Generale; in deroga al Codice dei Beni Culturali; in deroga a tutta la Legislazione sui Rifiuti, o a quella sulle Lavorazioni insalubri, o sull’emissione di vapori, gas, esalazioni, scoli di acque o altri liquidi dannosi per la pubblica salute.

Paradossalmente, per L’Aquila non vale quello che vale nel resto del Paese in materia di legislazione antisismica. Infatti, qui, lo Stato finanzia l’adeguamento antisismico delle costruzioni danneggiate, solo fino ad una percentuale compresa tra il 60 e l’80% di quanto previsto dalla legislazione vigente. Se vogliamo essere sicuri dobbiamo pagare noi, o scommettere sulla nostra vita se non abbiamo le sufficienti risorse economiche.

Nella città de L’Aquila, il Nucleo Industriale di Sviluppo, ove oggi sono situati il Tribunale, l’Archivio di Stato, alcune facoltà Universitarie, altri Uffici Pubblici, esercizi commerciali, industrie, è commissariato; e commissariata è la società pubblica che gestisce l’acqua. Il Presidente del Parco Nazionale del Gran Sasso è un giornalista de “Il Giornale”. Il Presidente del Teatro Stabile de L’Aquila è l’Assessore Regionale alla Cultura. La rimozione delle macerie del sisma è affidata ad un Commissario.

Questo significa che da mille giorni, da noi, la Democrazia è di fatto sospesa. Le decisioni più importanti sul nostro Territorio sono assunte da organi monocratici, non eletti dai cittadini.

A me è successo di presentare domanda per riparare la mia casa danneggiata dal sisma. E la mia domanda, in un primo tempo, è stata bocciata dagli organismi competenti. Ad esempio, nella risposta che mi hanno inviato c’era scritto che invece dei 3200 euro richiesti per la rimozione delle macerie, me ne assegnavano 300. Però, questa richiesta l’ingegnere che aveva redatto il progetto per la mia casa, non l’aveva mai fatta. Questo significa che chi doveva esaminare la mia pratica, ne ha esaminata un’altra. E, sulla base della sospensione della Legge sulla Trasparenza degli Atti della Pubblica Amministrazione, la mia richiesta formale di sapere chi fosse il responsabile dell’esame della mia pratica, non ha mai avuto risposta.

Io sono tra i fortunati che, dopo un anno dal sisma, è rientrato nella propria casa. Ma, come tutti i cittadini de L’Aquila, non ho più la città.

L’Aquila è diventata una immensa periferia senza forma e senza bellezza. Questo dipende in parte dalle speculazioni edilizie del passato, e in parte dalla colpevole assenza di governo del territorio in questo periodo di emergenza, oltre che dalla scelta del Governo nazionale di edificare 19 nuovi quartieri dove alloggiare circa 13.000 persone la cui abitazione è danneggiata in modo gravissimo o crollata. Il Progetto C.A.S.E. ( realizzato, per Legge, in deroga alla normativa sanitaria in materia di abitazioni ) , venduto come una straordinaria opera di ricostruzione della città, è stata una risposta importante ai bisogni alloggiativi di chi ha perso tutto. Ma è stata anche una sensazionale operazione di propaganda dai costi altissimi. E pone una ipoteca straordinaria sul futuro della città. Oggi, quei complessi abitativi sono diventati proprietà del Comune de L’Aquila. Il che richiederà per il futuro enormi risorse economiche per la manutenzione e intelligenze straordinarie per evitare che si trasformino in drammatici ghetti senza servizi, separati dal resto della comunità cittadina.

A L’Aquila non si cammina più a piedi. Tutta la città fuori dalle mura del centro storico, che prima del terremoto viveva l’assenza di marciapiedi e piazze, e la penuria di giardini, come un piccolo prezzo da pagare per vivere la città “vera”, quella del centro storico, oggi, diventata essa stessa centro, si accorge di essere priva di una identità riconoscibile. Ci si può muovere solo in automobile, da un centro commerciale all’altro, agli estremi opposti della città. Tra gli undici e i quindici chilometri, da est a ovest della città, in una lunga e continua e inquinante fila di automobili, tra strade strette e stress. L’uso di psicofarmaci e antipsicotici è aumentato del 129%.

L’Aquila aveva un grande Centro storico, abitato. Vero, pieno di monumenti, chiese, musei, e palazzi privati vincolati dalla Sovrintendenza dei Beni Artistici. Ma anche Centro direzionale, degli Uffici Pubblici di un Capoluogo di Regione, di una Università con circa 30.000 iscritti, di cui più o meno la metà provenienti da fuori sede. Città medievale, prevalentemente.

Ora il nostro Centro storico è vuoto. E colmo. Colmo di crolli, e palazzi puntellati. Fasce d’acciaio e legno sono i confini delle pietre antiche che il clima e il tempo sbriciolano, nell’incredibile impossibilità, a mille giorni di distanza, ad intervenire realmente per ricostruire, restaurare, restituire a vita.

Qualcuno, nelle parti meno danneggiate, a proprio rischio e pericolo, ha riaperto le proprie attività commerciali, una decina di bar e pub, un negozio di abbigliamento intimo, una gioielleria, un paio di alimentari, due edicole, un tabaccaio, un paio di alberghi, una antica cantina. Lì dove c’erano circa 1200 esercizi commerciali e un mercato giornaliero di ambulanti. La sera, il Centro spettrale e disabitato diventa il luogo in cui si può esercitare l’unica forma di socializzazione possibile. Quella legata al consumo di alcoolici. Come una terapia compensativa dell’assenza. Capace di scatenare i peggiori istinti delle persone.

L’Aquila era una piccola città, dove i fenomeni di criminalità erano quasi del tutto assenti. Il Presidente del Consiglio dei Ministri, dopo il terremoto, aveva dichiarato che sarebbe stata istituita una nuova fattispecie di reato. Lo sciacallaggio. E invece il nuovo reato che è stato istituito, è  quello della “illegale riproduzione” dei simboli della Protezione Civile. Troppi cittadini aquilani, dopo il terremoto, hanno visto le proprie case svuotate dai ladri, una umiliazione pesante per chi ha perso tutto. Nonostante la presenza dell’Esercito in città, il cui compito è solo quello di impedire ai cittadini di entrare in vaste zone della propria città; Zone Rosse, si chiamano.

Ma la ricostruzione richiama anche la criminalità organizzata. Sono decine le inchieste in corso, le imprese forse inquinate. E la legislazione emergenziale rischia di favorire l’infiltrazione mafiosa, invece di prevenirla. E ci sono gli affaristi, più o meno legati alla politica nazionale e locale. Quelli che ridevano del terremoto pregustando gli affari, e quelli che si sono costruiti una legislazione ad hoc, per fare nuovi affari all’ombra delle macerie.

Persino la Curia vescovile è lambita dalle inchieste in corso.

Sono pochi, ma sempre troppi, e offensivi, gli episodi di cittadini che hanno provato a lucrare sui finanziamenti del dopo sisma, sporcando la meravigliosa solidarietà italiana che ci è stata vicina nel momento del bisogno.

Per ricostruire L’Aquila, la Legge 77/2009 stanzia poco più di quattro miliari di euro, cadenzati fino al 2032. Per il terremoto che colpì l’Umbria e le Marche, in dieci anni, sono stati spesi quasi dodici miliardi di euro, per un territorio colpito pari alla metà di quello aquilano, e per un popolazione colpita pari a circa un terzo rispetto a quella del sisma aquilano del 2009.

L’orizzonte di una vita “normale” non si scorge.

La più profonda forma di devastazione che abbiamo subito, è quella che ha risvegliato antiche radici della città e di parte dei suoi abitanti. L’abitudine a considerare l’intervento dello Stato come una forma di regalo, o di favore, elargito dal governante e dal potere. Questo ha provocato e provoca passività, rassegnazione, e soprattutto ricerca di protezione e di legittimazione magari dell’illecito.

Perché troppo spesso il potere politico si è comportato così, qui.

Chiedendo ringraziamenti per quello che invece dovrebbe essere l’esercizio di un dovere civico proprio di una funzione pubblica rivestita temporaneamente. E trovando troppo spesso servi compiacenti pronti a inginocchiarsi.

Il tessuto economico è a pezzi, sono milioni le ore di cassa integrazione erogate, migliaia i disoccupati e i Lavoratori in nero e precari. Ad essere colpite, sono soprattutto le donne. Siamo senza un sistema di sostegno organico all’economia del territorio.

Care amiche, cari amici.

Le parole che avete sin qui letto sono solo una piccola parte di quel che potrei raccontarVi. E sono parole note a tutti gli aquilani. E io Ve le racconto anche perché un altro degli effetti del sisma, anch’esso innestato su una crisi precedente, è l’impossibilità di costruire un racconto comune, la frammentazione delle esperienze individuali e la contrapposizione anche artificiosa degli interessi hanno atomizzato gli aquilani. Partiti, Istituzioni e Sindacati hanno sin qui fallito drammaticamente, in larga parte, nel rappresentare la necessità di una comunità di ricostruire i propri beni comuni, la propria identità cittadina, la voglia di futuro, la bellezza del paesaggio, del territorio, della sua arte, la sua cultura, la sua impresa. Hanno fallito nella necessità di tenere insieme una città.

Quando è stato inventato il G8 a L’Aquila, nel luglio 2009, per realizzare una strada hanno deciso di interrare i resti di una antica villa romana. Una perfetta metafora di come un assurdo e autoritario presente può uccidere la possibilità di conservare le proprie radici e immaginare il proprio futuro. E ciò è possibile soltanto quando la persona non è più un cittadino, ma un individuo solo davanti al potere,  ridotto alla sola dimensione dei suoi bisogni materiali, casa, cibo, lavoro, dipendenti dalle scelte lontane di altri.

Ciò diventa possibile quando si permette che le forme della mediazione collettiva degli interessi si svolgano senza la partecipazione degli interessati, coartati dalla propaganda, dalla dispersione abitativa, dallo stato di minorità permanente in cui vengono poste le Istituzioni territoriali democraticamente elette, e anche dalla volontà di chi ha il potere di decidere, che tutto si svolga nell’ombra.

Quel che ci è accaduto non è solo il frutto di una catastrofe naturale. Ma il risultato di una crisi preesistente, drammaticamente aggravata dal sisma, dall’assenza di cultura della prevenzione e dalle modalità con cui il Governo nazionale, innanzitutto, ma anche locale e regionale, è intervenuto per la ricostruzione. Quindi, il disagio di oggi non era inevitabile. In nessun luogo d’ Italia è inevitabile.

Se si vuole provare a scrivere una nuova storia.

Grazie di avermi letto. E auguri per il 2012 che arriva.

Non cadere nella trappola

23 gennaio 2012 alle ore 14:41

Il Protettore Incivile, ieri, è andato in televisione a parlare di quello che è avvenuto a L’Aquila.

Ha mandato alcuni messaggi, utilizzando tecniche di comunicazione raffinate, e tese a dipingere il quadro di un personaggio che da eroe salvatore della patria, diventa capro espiatorio, in forza di congiure oscure ordite da potenti nascosti nell’ombra.

I messaggi inviati vanno in molte direzioni.

Egli afferma, in primo luogo, una correità delle Istituzioni Locali, elencandole, Regione, Provincia, Comune, che nulla avrebbero fatto, a suo dire, in tema di preparazione all’emergenza, essendo a loro in capo, per Legge, tale tematica, “prima” di eventuali eventi drammatici.

Su questo ognuno può esercitare la propria capacità di giudizio, e, personalmente, proverò a scrivere una storia, che penso interessante, in merito.

Egli, inoltre, sostiene di aver deciso di convocare a L’Aquila, nelle forme e nei modi raccontati dalle intercettazioni telefoniche, una riunione della Commissione Grandi Rischi, per tacitare le “voci di alcuni imbecilli” che profetizzavano terremoti a Sulmona, a Rieti, a Pescara, in tutto l’Abruzzo. Avrebbe forse dovuto evacuare l’intera Regione ?

Queste affermazioni entrano nello specifico dei suoi rapporti con la Giustizia, delineano una linea di difesa. Di cui valuteranno gli organi competenti la congruità.

E però meritano qualche piccola riflessione circa la loro logica, o assenza, di logica..

Da domani mattina, io sono autorizzato a spargere la voce che a L’Aquila sta per comparire un Tyrannosaurus Rex, intrappolato e ibernato sotto la montagna e liberato dagli scavi della galleria tra Campo Felice e l’Altopiano delle Rocche. Questa voce si diffonde e qualcuno si sentirà autorizzato a convocare Steven Spielberg per spiegare che per fare un buon film ci vuole una sceneggiatura migliore.

E’ possibile che si convochi una riunione di altissimo livello per confutare pubblicamente le affermazioni di un “gruppo di imbecilli” e “tranquillizzare mediaticamente” la popolazione ?  

Delle due l’una:  o il “gruppo di imbecilli” non è credibile, e non si vede quindi per quale motivo legittimarlo con una riunione di quel livello; o l’allarme diffuso ha assunto proporzioni tali da richiedere non già una “tranquillizzazione”, ma un obiettivo esame della situazione e un corretto responso “in scienza e coscienza”.

Su come siano andate le cose, ognuno può compiere le sue legittime valutazioni. E la Giustizia chiamata a intervenire sul tema farà le proprie. Ma qualcosa stride nelle motivazioni addotte alla convocazione della riunione della Commissione Grandi Rischi del 31 marzo 2009.

L’Incivile, poi, fa oscure allusioni, quando dichiara che verrà a L’Aquila, l’8 febbraio prossimo, da “testimone”, e può uscirne “indagato”.

La cosa assume i contorni di una profezia autoavverantesi.

Se accadrà così, ci sarà la prova provata di un complotto ai suoi danni, e, in quanto complotto, non credibile, strumentale, ideologico. Ma, soprattutto, ne potrebbe uscire “indagato” perché ostile è a lui il clima. A prescindere da ogni verifica di merito egli si dipinge come vittima predestinata.

Se non accadrà così, la verità avrà trionfato, non perché vi sia una “verità giudiziaria” che eventualmente vada verificata, ma perché vi è una “verità superiore”, da egli stesso incarnata, che è giusto sia sottratta a umane verifiche. A prescindere da umani e legittimi dubbi egli è incorrotto e trionfatore.

Tutta questa esposizione, poi, autorizza il cambiamento, semantico, di senso sociale, che investe la funzione che egli ha esercitato. L’autoaccreditarsi di una dimensione prometeica.

Vale a dire cioè, che un altissimo incarico pubblico, che richiede l’esercizio di enormi responsabilità, non è un “dovere civico di servizio alla comunità nazionale”, ma un luogo nel quale si esercitano “mistiche capacità taumaturgiche”, con i contorni dell’eroismo, in una lotta contro tutto e contro tutti.

E quello che dovrebbe essere il normale esercizio di una funzione pubblica, si trasforma in una funzione sovrana che concede la sua opera e la sua benevolenza, non dovuta, ma elargita, con magnanimità e coraggio. Il che trasforma i normali cittadini inuna corte di ammiratori e beneficati, comunque subordinati,  e di servi, che purtroppo a L’Aquila si sono ampiamente inginocchiati e hanno trovato ampia rappresentanza politica.

E infine, l’ultimo messaggio che la Leggenda Incivile invia, alla pubblica opinione nazionale, ai giudici chiamati a raccogliere la sua testimonianza, ed eventualmente a decidere su suoi possibili profili di reato, è una vera e propria provocazione, che serve a far crescere la rabbia degli aquilani, a connotarla in senso ideologico negativo. A ritorcerla contro chi, caso mai la manifesti, e quindi utile solo ad ottenere un esclusivo beneficio personale.

Egli afferma infatti che la pubblicazione, ora, di intercettazioni telefoniche datate due anni addietro, e nelle quali a suo dire non vi è alcun elemento probatorio in ordine a possibili reati nella gestione del G8 della Maddalena, serve a fare in modo che a L’Aquila, quando egli si presenterà a processo in qualità di testimone, troverà ad accoglierlo “ Comitati e Rifondazione Comunista”.

Dunque, l’accoglienza che troverà a L’Aquila, sarà essa stessa il lasciapassare necessario a dare verità a tutte le sue affermazioni precedenti.

Egli è un uomo fatto cadere inopinatamente dal suo piedistallo, da oscure e potenti forze che temevano le sue formidabili attività, e ogni critica al suo operare ha i contorni tristi e sovietici dal nostalgismo residuale comunista. Le cui manifestazioni avvalorano un clima di intimidazione nei suoi confronti e nei confronti della Giustizia chiamata ad ascoltarlo in ambiente pregiudizialmente ostile, e men che meno potrebbero autorizzare indagini su sue presunte responsabilità penali, data la loro radice politica che nulla ha a che vedere con la sua azione, peraltro “non dovuta”, ma frutto di eccesso di scrupolo. E che oggi gli vale un’accusa di omicidio colposo presentata da coloro che egli invece voleva proteggere.

Non ho alcun titolo, e non mi permetto nemmeno di dare consigli a chi pensa di organizzare una presenza individuale o collettiva il giorno 8 febbraio quando il Personaggio dovrebbe recarsi al Tribunale de L’Aquila in qualità di testimone nel processo in corso a carico dei componenti la Commissione Grandi Rischi.

Non posso certo dare consigli a chi ha perduto i propri affetti con il sisma del 6 aprile 2009.

Scrivo queste parole soltanto perché vorrei una cosa.

Che, individualmente, e collettivamente, non si cadesse nella trappola.

Che non si consenta a nessuno di continuare a sporcare e strumentalizzare il dolore individuale e collettivo, o l’indignazione individuale e collettiva per come siamo stati usati come palcoscenico di un terrificante “Truman show”.

Che non si permetta a nessuno di continuare a trarre indegni vantaggi personali usando come scudo umano una lettura distorta e distorcente, anche su un piano nazionale, delle nostre legittime critiche, proteste e proposte.

Grazie.

Sul Piano di Ricostruzione presentato dal Comune de L’Aquila

1 febbraio 2012 alle ore 22.56

Ho letto i Documenti del Piano di Ricostruzione dei Centri Storici di l’Aquila e Frazioni, pubblicati sul sito internet del Comune de L’Aquila.

Non sono un tecnico esperto della materia, e quindi nelle cose che scrivo posso sbagliare. Anzi, spero di sbagliare. Perchè se sbaglio, vuol dire che il lavoro svolto è un passo avanti importante per la Città.

La Legge 77/2009, art. 14 comma 5 bis, dispone che i Sindaci dei Comuni colpiti dal terremoto del 6/4/2009, d’intesa con il Presidente della Regione, e con il Presidente della Provincia, devono predisporre piani di ricostruzione dei Centri Storici. Per “Centro Storico”, secondo la vigente normativa, si intende una zona “territorialmente omogenea”, e così classificata dal Comune con i suoi Atti di Perimetrazione.

Due questioni vanno qui sottolineate.

La prima, riguarda il tempo in cui avviene questa presentazione: in questi giorni, dopo circa 33 mesi dal sisma e 31 dalla definitiva pubblicazione della Legge in Gazzetta Ufficiale. Su questo punto il dibattito e le polemiche sono state tante. Ognuno, è libero di prestare fede alla ricostruzione più convincente dei fatti. Ma è un fatto che questa disposizione di Legge è adempiuta dopo oltre due anni e mezzo . Ferma restando la complessità del lavoro da svolgere, e la necessità che questo lavoro sia svolto nell’interesse esclusivo della Città nel suo complesso.

La seconda riguarda una questione che può apparire formale, ma che invece è di sostanza. E’ il Sindaco che deve produrre questo Atto, dice la Legge. La scelta operata, invece, è quella che sia il Consiglio Comunale ad adottare il Piano di Ricostruzione e i Documenti connessi, e sul sito internet del Comune vi è una  proposta di Deliberazione che sarà discussa dal Consiglio Comunale.

Occorre chiedersi il perché di questa scelta.

L’art. 6 del Decreto 3/2010 del Commissario per la Ricostruzione, presidente della Regione Abruzzo, definisce la procedura per l’approvazione del Piano di Ricostruzione.

Secondo tale Decreto, è il Sindaco a dover compiere una serie di atti: perimetrazione delle aree, proposta di ambiti da assoggettare al Piano di Ricostruzione, richiesta ai proprietari, singoli o associati di presentazione di proposte di intervento sui propri immobili, verifica di ammissibilità di queste proposte etc.

Il Sindaco, infine, acquisisce eventuali osservazioni, su di esse decide, e trasmette il Piano al Consiglio Comunale che lo approva.

Nella proposta di Deliberazione al Consiglio Comunale, non è il Sindaco, ad aver compiuto gli Atti richiamati nel Decreto 3/2010, ma il Comune. Dice, sempre la proposta di Delibera, che il Comune ha effettuato una verifica preliminare delle proposte di intervento e che attraverso disposizioni sindacali, emanate tra dicembre 2010 e agosto 2011, ne ha determinato le più idonee modalità attuative conformi al Piano Regolatore Generale.

Se non comprendo male, quindi, il Comune, attraverso questo atto, già delibera che ogni proposta presentata è conforme al Piano Regolatore Generale. E, naturalmente, mi auguro che sia così.

Però, dice sempre la proposta di Delibera, alcuni interventi sono di più ampia portata urbanistica, e fanno riferimento a cosiddetti Programmi Integrati, Programmi di Recupero Urbano, o Piani di Recupero, normati dalla Legge Regionale 18/1983 in materia urbanistica, e tali interventi, una volta redatti, saranno approvati in variante al Piano Regolatore Generale.

Dunque, non tutti gli interventi sin qui proposti sono conformi al Piano Regolatore Generale vigente, ma richiederanno una approvazione “in variante”, che però con la proposta di Delibera del Consiglio Comunale, si rende sostanzialmente automatica. Il tutto quindi, se non capisco male, dovrebbe avvenire in coerenza con gli strumenti urbanistici esistenti, ma in variante agli stessi, secondo una procedura di concertazione con i soggetti pubblici e privati presentatori delle proposte.

La proposta di Delibera, quindi, descrive per capitoli, il Piano di Ricostruzione del Centro Storico de L’Aquila, e dei Centri Storici delle sue Frazioni.

E’ un Documento estremamente ricco e complesso, nel quale sono contenuti molti documenti programmatori, come ad esempio il Piano della Mobilità, redatto nel 2008, il Piano Comunale di protezione civile ed emergenza, la carta delle intensità macrosismiche del Territorio, e la micro zonazione sismica, il sistema delle reti dei sottoservizi, il Piano Stralcio per la difesa dalle alluvioni, Piano stralcio di bacino per l’assetto idrogeologico, la stima dei costi di tutti gli interventi, sia quelli conformi al Piano Regolatore vigente, che quelli da approvare in variante. E molti altri documenti.

Il Piano per la Ricostruzione contiene anche un Piano Stralcio di Progetti Strategici, costituito da Schede Progetti unitari di iniziativa privata, e Schede Progetti unitari di Iniziativa pubblica, anch’esso da approvare da parte del Consiglio Comunale.

In sostanza, il Consiglio Comunale è chiamato ad approvare un articolato e denso Piano, contenente sia linee di indirizzo strategico, che Documenti aventi una funzione propria e specifica, che concreti progetti di intervento edilizio, sia coerenti con il Piano Regolatore Generale, che invece in variante ad esso.

Io, che sono un ignorante in materia, mi chiedo se questo schema di procedura, che assume in sé questioni di carattere generale, scelte nobili ed importanti di fondo, sia compatibile con l’approvazione di specifici progetti di intervento, che cambiano, nel concreto, la destinazione d’uso di aree e di edifici, secondo scelte concertate con lo schema di una edilizia contrattata, riproposto come filosofia di fondo nel Decreto 3/2010 del Commissario Delegato per la Ricostruzione Presidente della Regione Abruzzo, e fatto proprio dal Comune de L’Aquila, che tanti danni sul piano urbanistico ha prodotto in passato a L’Aquila e in tutt’Italia. L’edilizia contrattata è  un sistema di intervento che parte da una proposta dettata da interessi privati, utilizzando vari schemi legislativi ( programmi integrati, piani di recupero etc… ), cui la parte pubblica aderisce discutendone aspetti marginali sul piano urbanistico e ricavandone limitatissimi benefici comuni per la Città. In questo caso, la questione a me sembra aggravata dal fatto che l’intervento privato, in realtà si svolge prevalentemente, o forse esclusivamente, attraverso il contributo pubblico dovuto per la riparazione dei danni causati dal sisma.

L’intento di cambiare in meglio aree importanti della città, magari caratterizzate in passato da brutture edilizie, o da edifici insicuri sul piano antisismico, rischia di diventare una grande occasione d’affari, piegando le procedure e le regole ad interessi privati. Forse, per non correre questo rischio, sarebbe opportuno scindere i contenuti del Piano di Ricostruzione dalla discussione su interventi specifici. Soprattutto quando poi, per realizzare gli interventi in variante al Piano Regolatore Generale diventa necessario introdurre innovazioni normative, contenute nel Piano di Ricostruzione, da approvare anch’esse da parte del Consiglio Comunale: l’impressione che si costruisca un intero edificio normativo, magari di per sé ottimo, al solo fine di consentire alcuni interventi in variante del Piano Regolatore Generale, diventa fortissima.

La proposta di Delibera al Consiglio Comunale prosegue, poi, spiegando che il Piano di Ricostruzione in sé, non è una variante al Piano Regolatore Generale, poiché riguarda Linee di Indirizzo Strategico, sia per gli interventi conformi al Piano Regolatore Generale, che per quelli da realizzare in variante allo stesso Piano Regolatore Generale, di cui però si chiede già l’approvazione delle schede progetto. E pertanto non sarebbe un piano di natura urbanistica e non conterrebbe modifiche o varianti alla vigente disciplina urbanistica, contenendo però in sé, il Piano di Ricostruzione da approvare, concrete proposte di innovazione normativa. E pertanto ad esso non si applicherebbe ad esempio la Valutazione Ambientale Strategica, né risulterebbe necessario ( come la Legge altrimenti prescriverebbe ) procedere all’accertamento della consistenza di proprietà immobiliari dei Consiglieri comunali e/o loro ascendenti e discendenti diretti nell’ambito delle zone interessate dal Piano di Ricostruzione.

Si tratta, mi pare, di un testo che presta il fianco a troppi rischi: il rischio di una normativa contraddittoria e forzata; il rischio che possa essere una normativa costruita specificamente per giustificare alcune proposte di intervento urbanistico ed edilizio troppo spostate su interessi privati e non pubblici.

In particolare poi, la proposta di Delibera del Consiglio Comunale, pone all’approvazione del Consiglio lo Stralcio di Progetti Strategici. Un Documento redatto dall’Assessorato alla Ricostruzione e Pianificazione, costruito con il contributo, tra gli altri, di ISPREDIL spa, cioè dell’Istituto per la Promozione Edilizia promosso dall’Associazione Nazionale Costruttori Edili, il che a mio modesto parere pone qualche preoccupazione in ordine ad un possibile conflitto di interessi. Perché non si è chiesto anche il contributo di Associazioni come Italia Nostra o il WWF o altri ad esempio ?

Tale Documento contiene le Schede di progetti unitari di iniziativa privata, che non si comprende perché il Consiglio Comunale debba considerare “strategici” per la città, e le Schede di progetti strategici di iniziativa pubblica. Forse sarebbe opportuno discutere e approvare subito quei progetti che già il Documento definisce strategici e che sono di iniziativa pubblica, e approfondire la discussione in un secondo tempo per quelli che invece sono di iniziativa privata. O, al limite, lasciare la porta aperta ad altri successivi progetti che il Consiglio Comunale può valutare come strategici nell’interesse esclusivo della città.

E’ da rilevare, tuttavia, nel merito, che anche tra i progetti strategici di iniziativa pubblica, si pongono numerose questioni di opportunità. Soprattutto quando tali progetti sono definiti pubblici, ma sono in realtà frutto di partnership pubblico/privato, cioè già essi esempio della cosiddetta edilizia contrattata.

Ad esempio il Consiglio Comunale è chiamato ad approvare una scheda progetto di intervento sull’ex Ospedale di Collemaggio, i cui soggetti promotori, in project-financing, sono la ASL ( il cui compito, tra gli altri secondo la normativa della Regione Abruzzo è quello di alienare i propri beni per ripianare il debito sanitario ) e non meglio identificati Fondi Immobiliari.

Analogamente accade per il cosiddetto Polo del Welfare, da realizzare in partnership tra Enti Previdenziali e Fondi Immobiliari, così anche per la sede unica degli Uffici Comunali che vede ancora una volta coinvolti in una iniziativa di partnership pubblico/privato con un project-financing il Comune con Fondi Immobiliari.

Tutto questo insieme a progetti di intervento di assoluto interesse per la comunità ( sistema dei parchi urbani, polo culturale, progetto mura, spazi pubblici e altri ), il cui punto debole forse è rappresentato dalle risorse: si chiedono risorse infatti derivanti dalla Legge 77/2009 sulla ricostruzione de L’Aquila, in fase di start up ( progettazione ), ma la  gestione successiva dei progetti realizzati in termini di manutenzione e implementazione forse richiede maggiore approfondimento per la loro sostenibilità economica. Perché non possiamo certo permetterci progetti pubblici solo “progettati”, e senza risorse per realizzarli e mantenerli.

Tutto un discorso a parte meriterebbe Piazza d’Armi.

Il complesso delle risorse da impegnare poi, sia per i progetti unitari di iniziativa privata che per quelli strategici di iniziativa pubblica, è sostanzialmente a totale carico della legge 77/2009, salvo qualcosa frutto di donazioni, o da richiedere agli strumenti programmatori europei. E questo a me pare un segno profondo di debolezza. Perché se la comunità e il Consiglio Comunale devono definire strategici interventi che coinvolgono interessi privati, a me pare giusto che si dia contezza almeno di quanto i soggetti privati intendono investire.

In conclusione, a me sembra che, dopo aver atteso oltre due anni e mezzo questo atto, sia necessario sottoporlo ad ogni attenta valutazione ed osservazione possibile, e che non si debba, sia pure avendo sempre in mente l’assoluta necessità di dare risposta positiva e veloce,alle esigenze legittime dei cittadini e delle imprese, e di tutta la comunità cittadina, trasformare anche questa in una discussione “emergenziale”. Che produca scelte “necessitate” dall’emergenza.

Forse è opportuno che il Consiglio Comunale dia il via ad una campagna di ascolto della Città, che coinvolga gli interessi associati, le Categorie, i Comitati Cittadini, le Associazioni Professionali, Imprenditoriali e Sindacali, e che di questo ascolto faccia poi rapida sintesi.

Io vorrei togliermi tutti i dubbi. E vorrei che il Consiglio Comunale, se deve essere coinvolto, lo sia per produrre un Atto inoppugnabile, onesto, e capace di dare futuro alla Città.

Fermo restando che mi piacerebbe che un analogo esercizio di programmazione venisse effettuato per tutta la Città, e per tutte le sue Frazioni, e non solo per i Centri Storici.

Immaginare la ripresa economica della nostra città non è un esercizio facile.

Si corre il rischio di scrivere idee generiche che andrebbero bene per qualsiasi luogo, oppure si rischia di scrivere qualcosa che non potrà mai essere realizzato per il contesto generale in cui ci troviamo, e per le specificità del nostro tessuto economico-sociale. Si corre il rischio di sottovalutare le ricadute sul nostro Territorio della più generale crisi economica e politico-istituzionale che investe il nostro Paese e l’intero pianeta, o, al contrario, di considerarle talmente tanto da trasformare un discorso su L’Aquila in un più generale discorso sul sistema economico che ci governa.

Nello specifico della necessità di redigere un “programma economico” per Appello per L’Aquila, non voglio correre il rischio della pura propaganda, o della genericità della riflessione. Ci troveremo in una situazione in cui ognuno degli attori in campo proporrà idee più o meno valide e più o meno elaborate. Molti saranno i temi comuni, e penso, molta la retorica inutile e le cose scritte per fare volume.

Se un senso può avere scrivere di economia a L’Aquila, in questo momento, a mio parere, è quello di partire da una analisi “spietata” dell’esistente, e provare a immaginare le azioni concrete che una Amministrazione Comunale può porre in campo in un tempo dato, che è quello di una consiliatura almeno, cioè cinque anni: un tempo breve, sotto alcuni punti di vista, ma comunque rilevante.

Occorrerebbe poi aver presente che questo tema ha caratteristiche sue specifiche, ma che incrociano trasversalmente ogni tema di un Programma e di una campagna elettorale.

Verrebbe da immaginare un albero, il cui fusto è costituito appunto dai temi di carattere economico, e i cui rami, foglie, frutti, sono gli altri temi che, comunque, tutti, nell’economia hanno le radici.

Non ho le competenze necessarie forse per nessun tema. Però mi permetto di provare a delineare un percorso possibile di analisi e proposta, più per temi magari da approfondire che per ragionamenti completi, che, comunque, parte da quello che ho già scritto in forma molto sintetica in precedenza sulle questioni di carattere economico, e che vi ho già inviato.

Crisi pre-sisma

Una città Capoluogo di Regione, dentro un Territorio regionale uscito a metà degli anni ’90 dal sistema del Finanziamento Straordinario per il Mezzogiorno, senza un credibile sistema di accompagnamento verso la stabilizzazione su indici di sviluppo del suo tessuto economico-sociale migliori del passato, si è trovata investita dalla crisi economica generale, dalla crisi del sistema politico-istituzionale, in particolare sotto il profilo della legalità ( con il secondo arresto, nel 2008, di una intera Giunta Regionale ).

L’Aquila non aveva, e non ha ad oggi, una caratterizzazione sua propria sul piano economico-produttivo. La presenza di imprese in pressochè tutti i Settori, la presenza di Servizi e del Credito, la presenza di presidi importanti sul confine della Ricerca, non ha mai raggiunto una “massa critica” necessaria a innervare di sé il tessuto economico della città, e la sua stessa proiezione di immagine all’esterno. Altrettanto si può dire sul piano dell’immagine della città e del suo territorio rispetto all’offerta turistica. Il suo tratto più caratterizzante in questo senso, l’essere cioè un territorio in cui insistono importanti Parchi nazionali e regionali è stato vissuto dagli abitanti più come un vincolo, un freno allo sviluppo possibile che come un’opportunità. Il complesso delle Istituzioni Culturali ha continuato in questi anni a svolgere un lavoro di rilievo per la collettività, ma senza riuscire ad affrancarsi dalla necessità del finanziamento pubblico per la propria sopravvivenza, il che in anni di tagli selvaggi sul Settore ha già cominciato a produrre danni, vedi la vicenda dell’Accademia dell’Immagine, a prescindere dal giudizio che se ne possa dare sulla sua gestione.

Questa condizione ha prodotto, e produce, in larga misura, una cultura imprenditoriale legata al finanziamento pubblico, scarsamente propensa all’investimento e alla capitalizzazione delle proprie imprese, che fonda la propria competitività su un uso massiccio del lavoro nero e precario, e, più in generale, sul tentativo di elusione ed evasione dalle norme, anche fiscali. Ci sono, come è ovvio, eccezioni, ma la regola è quella di piccole e piccolissime imprese che comprimono il costo del lavoro come unico sistema per restare sul mercato.

L’uscita del Paese dal sistema delle Partecipazioni Statali ha privato la città di importanti presidi sul piano della cultura industriale, e della tecnologia, oltre a generare una sofferenza occupazionale irradiata in tutto il comprensorio dei comuni vicini, ancora non risolta. E pochissimo, quel sistema è stato in grado di fertilizzare il territorio in termini di imprese dell’indotto capaci anche di camminare con proprie gambe. La fine di quella stagione ha lasciato la città priva, nei fatti, di una opportunità di sviluppo sul versante dell’industria in particolare dell’elettronica e della meccanica. Pur avendo L’Aquila importanti esperienze e competenze in questo campo, anche sul piano formativo. Si può dire che in questo, L’Aquila ha seguito un destino nazionale, ma con l’aggravante di aver saputo costruire pochissimo capace di sopravvivere alla fine dell’intervento pubblico diretto nell’economia.

In estrema sintesi, si può dire che, prima del sisma, la città era priva di una sua identità caratterizzante. Aveva delle potenzialità di sviluppo, ma, abituata, anche nel suo tessuto imprenditoriale, ad un intervento facilitatore dello Stato in termini di risorse, non mostrava capacità concrete di reagire ad una nuova fase dell’economia, in cui l’intervento pubblico, in ogni Settore, veniva progressivamente meno.

Agricoltura, Industria, Servizi, Edilizia, sono stati colti dal sisma in una fase già profonda di crisi economica generale, e specifica del territorio, e in una situazione di pesante crisi di identità e di prospettive. Persino in quelle situazioni che vedevano a L’Aquila importanti insediamenti di aziende nazionali e multinazionali.

Il sisma del 2009

Tanti studi sui territori colpiti da calamità naturali documentano che l’immediato futuro di quei territori è spesso caratterizzato da molteplici fenomeni negativi sul piano economico, configurando specifiche crisi di quelle aree.

E’ e sarà questo il destino della nostra città ?

Il sisma costituisce una cesura storica. C’è un prima, e c’è un dopo il terremoto.

Immaginare che il processo di ricostruzione complessivo della Città sia, o possa essere, un ritorno al “prima”, è improponibile, oltre che un errore.

Il percorso che abbiamo davanti è un percorso “fondativo”.

Solo se si assume questo punto di vista può esservi una speranza di futuro. Altrimenti, come è avvenuto sino ad ora nella gestione degli effetti del post-sisma, quel che ci attende è una amministrazione, più o meno buona, giusta o onesta, del declino e del degrado.

La storia, il concreto svolgersi delle attività e delle scelte umane, individuali e collettive, economiche e politiche, non attendono i tempi di una elezione amministrativa. I processi in atto, dal 7 aprile 2009 ad oggi, hanno già cambiato il volto e il futuro della nostra città. E continueranno a farlo. Il compito di una nuova Amministrazione Comunale può essere paragonato a quello di chi tenta di cambiare il motore, tutti i sistemi di servizio e la carrozzeria di un’automobile mentre questa continua a camminare.

Qualche proposta

Il punto essenziale di un programma economico che riguardi i prossimi cinque anni almeno, di governo della Città è nel fondare una nuova idea di Città.

La Città intesa come un luogo, materiale e immateriale, di relazioni, economiche, sociali, istituzionali, culturali, ambientali, politiche. La Città come luogo di Bellezza e di Sicurezza. La Città come luogo di scambi, anche commerciali. La Città come luogo di incontro. Una Città “connessa”, con il suo territorio, con la sua Provincia, con la sua Regione, con il suo Paese, con l’Europa, con il Mondo.

E’ immediatamente intuibile che, in particolare sul piano economico, il complesso di interventi che possono essere effettivamente svolti da una Amministrazione Comunale hanno e possono avere tempi, interlocutori e progettazioni e risultati distanti tra loro. Alcuni dei quali persino difficilmente rilevabili.

Il futuro della Città de L’Aquila dipende essenzialmente da come le ferite determinate dal sisma diventeranno le fondamenta di una nuova idea di Città. Per dirla brutalmente, è il Terremoto la caratterizzazione della nostra Città.

Per dirla in maniera diversa, e che andrebbe largamente articolata, L’Aquila può proporre sé stessa come possibile esempio nazionale di risposta alla catastrofe naturale, capace di caratterizzarsi come Città che convive con il rischio sismico e costruisce sé stessa in funzione di risposta al rischio, sperimentando per questa via nuove forme di bellezza, di rapporto con l’ambiente circostante, con l’energia, con la cultura, con l’amministrazione, di cura della propria storia e della propria arte, etc.

Credo sia qui la risposta possibile per una idea di sviluppo economico nuovo e diverso, che andrebbe ovviamente declinata a 360 gradi. E tutto andrebbe scelto secondo questo tipo di priorità.

L’Amministrazione Comunale potrebbe proporsi come soggetto che interloquisce con il Governo nazionale per apportare risorse finalizzate sul Territorio:

  • Si può rifinanziare la Legge 366/90 sul punto che promuove il trasferimento tecnologico dall’INFN alle Imprese del territorio. Sarebbe qui necessario favorire un processo di apertura dell’INFN al territorio, e all’Università in particolare, e stimolare, anche sul piano nazionale, l’insediamento di Imprese che si propongano di essere partner nel processo di trasferimento tecnologico;

  • Si può sollecitare il finanziamento della Legge 77/2009 sul punto che promuove un Fondo di Garanzia per le piccole e medie imprese, comprese quelle commerciali, turistiche di servizi, e per gli studi professionali, per investimenti finalizzati all’innovazione. Scegliendo in particolare di concentrare il sostegno alle attività innovative legate alla costruzione/ricostruzione, premiando la creazione di buona e stabile occupazione;

  • Così come è da finanziare il punto della Legge 77/09 che prevede Accordi di Programma nei settori dei componenti e prodotti hardware e software per ICT, della farmaceutica, dell’agroalimentare, e dell’edilizia sostenibile;

  • Si possono contrattare appositi Bandi, con il Ministero Università e Ricerca, ed Europei, per favorire processi di spin off e di trasferimento tecnologico, e di scambio di personale nella Ricerca tra Imprese del Territorio e Università e INFN, in particolare anche nel rapporto con la Sanità e con la ASL;

  • Si può decidere, attraverso apposita rimodulazione, che i fondi, originariamente destinati alla Zona Franca Urbana, siano finalizzati alla realizzazione, nel sito ex-Italtel di cui il Comune ha acquisito la proprietà, di un’area che consenta l’interscambio di conoscenze e applicazioni, anche produttive, nel campo dell’innovazione edilizia e dei materiali, dell’antisismicità, del risparmio energetico, del restauro e conservazione, della comunicazione e telecomunicazione in situazioni di emergenza; infrastrutturando il sito per accogliere, anche sotto il profilo residenziale, Imprese, Gruppi di Ricerca, sedi Universitarie e sedi staccate di Scuole nazionali ( per esempio sul restauro );

  • Si possono promuovere speciali programmi di infrastrutturazione in rapporto con le Grandi Imprese di Utilities: con ENI, Enel, Telecom, Wind, Vodafone, Tre, SNAM, ANAS, Ferrovie, Gran Sasso Acqua, finalizzati alla “bellezza”, ma anche alla “sicurezza” in caso di catastrofe naturale.

Naturalmente, in questi processi, tutti gli attori sociali e il credito, vanno coinvolti, in sede di formazione delle progettualità e di discussione con il Governo.

L’Amministrazione Comunale può inoltre compiere in proprio e favorire “azioni di sistema” che contribuiscano a costruire il giusto ambiente, per qualità della vita, efficienza ed efficacia delle azioni amministrative, trasparenza e legalità, per una nuova stagione di sviluppo.

Ma una nuova qualità dello sviluppo territoriale deve favorire, per quanto possibile, Occupazione buona e stabile; integrazione con il territorio e l’ambiente in un’ottica di stretta salvaguardia; mediazione culturale e percorsi di cittadinanza per l’immigrazione.

Alcuni concreti interventi possono essere :

  1. Unificazione del sistema degli appalti comunali, caratterizzandoli per velocità, efficienza, e trasparenza amministrativa, con inserimento di specifiche clausole sociali, riguardanti il rispetto dei Contratti e delle Leggi, in particolare sulla Sicurezza, privilegiando la difesa e lo sviluppo dell’Occupazione, inserendo il massimo del controllo contro infiltrazioni mafiose, e contro ogni forma di evasione/elusione delle normative fiscali e contributive, rinunciando al principio del “massimo ribasso”;

  2. Costituzione di una specifica Unità Organizzativa comunale, completa di tutte le risorse professionali necessarie, anche attraverso il ricorso a forme di flessibilità contrattuale e contrattata, dedicata alla interlocuzione esclusiva e costante con i cittadini, le imprese, i tecnici, e gli Enti sulle problematiche della Ricostruzione;

  3. Costituzione di una specifica Unità Organizzativa comunale, completa di tutte le risorse professionali necessarie, anche attraverso il ricorso a forme di flessibilità contrattuale e contrattata, dedicata alle specifiche problematiche della Ricostruzione dei Beni Artistici e Culturali;

  4. Accorpamento, in una unica Multi-Utility, delle diverse aziende comunali, nell’ottica di stringere alleanze con altri soggetti pubblici analoghi al fine di fare massa critica sui costi di gestione, ristrutturandone attività e missioni;

  5. Promozione di una specifica Fondazione Comunale, senza costi di gestione, che dialoghi con tutte le Fondazioni Bancarie della città, e con investitori privati e istituzionali, per un intervento finanziario unitario sul sistema delle Istituzioni Culturali cittadine, sottraendole al condizionamento della politica e dei tagli dei Bilanci Regionali e Nazionali, con un occhio particolare all’investimento su nuove forme di comunicazione e spettacolo in special modo destinate ai giovani, e all’acquisizione di nuove e innovative professionalità;

  6. Riappropriazione delle potestà programmatorie sui Nuclei Industriali di Sviluppo, sottraendoli al commissariamento regionale e all’istituzione dell’Azienda Unica d’Abruzzo, intervenendo anche per questa via sulle potenzialità di sviluppo dell’Aeroporto di Preturo;

  7. Istituzione di una specifica Unità Organizzativa Comunale che provveda al dialogo costante, e all’interlocuzione specifica, unificata e semplificata su tutte le procedure autorizzative di pertinenza comunale relative al sistema delle Imprese artigiane, piccole imprese dell’Agroalimentare, Cooperative e del piccolo Commercio, favorendo anche per questa via, rapporti di filiera col sistema delle grandi imprese e della distribuzione organizzata, anche attraverso concentrazioni insediative;

  8. Individuazione di una piattaforma logistica unificata che abbatta i costi di stoccaggio e magazzino, unificando il sistema degli orari di consegna agli opifici e alla distribuzione, attraverso trasporti ecologicamente orientati;

  9. promozione di una azione, concertata con le imprese insediate a L’Aquila ( che occupano circa 2000 persone ) nel settore dei Call Center, che intervenga sulla formazione e sulle possibilità di diversificazione dei servizi offerti, alzandone il livello tecnologico.

Riguarda le possibilità di azione concreta del Comune, e può impattare anche favorevolmente sul piano occupazionale, il completamento del ciclo dei rifiuti, e la sollecitazione all’insediamento sul territorio di imprese che intervengano sul riciclo.

Così come impatta in maniera forte sul piano occupazionale una attenzione particolare del Comune alla manutenzione del verde urbano e al rimboschimento delle aree, in particolare quelle a rischio idrogeologico. Sono programmi realizzabili anche con una spesa ridotta rivolgendosi ai Vivai del Corpo Forestale.

Per il momento, mi fermo.

Ma mi permetto di dire che un ragionamento analogo a quello che ho cercato di svolgere, si può fare anche sul piano dell’offerta turistica. In cui è l’integrazione tra le offerte di tutto il territorio che può vincere. Ogni singolo “spezzone” di emergenza artistica, o naturalistica, da solo, non va da nessuna parte. E’ la cultura e il “clima complessivo” di un territorio che può attirare la domanda. Ed è l’offerta che ha il dovere di presentarsi strutturata, diversificata, e soprattutto, unificata.

Una storia lunga, o forse troppo breve.

1 aprile 2012 alle ore 18.16

Trentuno ottobre 2002.

Terremoto di San Giuliano di Puglia. Muoiono 27 bambini e una maestra.

Mancano 2350 giorni.

La prevenzione del rischio sismico è attività complessa. E ciascuno degli attori istituzionali dovrebbe avere un ruolo preciso e un coordinamento altrettanto preciso. E risorse finanziarie sufficienti. E ciascuno degli attori istituzionali dovrebbe resistere alle pressioni di chi vorrebbe meno vincoli, che significano costi più bassi di costruzione e maggiore libertà di edificare su qualsiasi terreno.

Affidare alla sola Protezione Civile l’attività di prevenzione, significa deresponsabilizzare chi dovrebbe avere il governo del Territorio.

Il Parlamento italiano avvia una indagine conoscitiva sul rischio sismico in Italia. E, in sede di Commissione di indagine, l’ 11 dicembre 2002, l’Assessore alla Protezione Civile della Regione Abruzzo, capofila per le materie della Protezione Civile nell’ambito della Conferenza delle Regioni, Giorgio De Matteis,  dichiara che sarebbe opportuno spostare tutta l’attività di prevenzione del rischio sismico sulla Protezione Civile, che non dovrebbe quindi intervenire solo nella gestione dell’emergenza, e che sarebbero opportuni provvedimenti legislativi in tal senso, chiarendo anche il problema delle competenze delle Regioni ed evitando il sovrapporsi di strumenti legislativi contraddittori.

Oggi, la prevenzione del rischio sismico è affidata ad una Commissione di esperti istituita con Ordinanza della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 19/1/2010; la Commissione è stata nominata dal Presidente del Consiglio Monti con Dpcm del 23 dicembre 2011; secondo l’Ordinanza del 2010, la Commissione, entro 30 giorni dalla nomina, avrebbe dovuto definire gli obiettivi ed i criteri per l’individuazione degli interventi per la prevenzione del rischio sismico.

Io, oggi, non sono a conoscenza dei risultati del lavoro di questa Commissione.

Il 20 marzo 2003 viene pubblicata l’Ordinanza della Presidenza del Consiglio dei Ministri n. 3274, che introduce una nuova normativa tecnica per le costruzioni in zona sismica, più severa che in passato, e che introduce tecniche costruttive più avanzate, e che da’ alle Regioni il compito di inserire i singoli Comuni del loro Territorio nelle varie zone sismiche e sei mesi di tempo per verificare la situazione degli edifici ritenuti strategici. Nella proposta dei criteri di individuazione delle zone sismiche, L’Aquila resta classificata in “zona 2”, in una scala in cui, rispetto alle vecchie classificazioni che prevedevano 3 zone, ne prevede 4, di cui la prima è quella a maggiore pericolosità.

Mancano 2265 giorni.

Il 4 giugno 2003, la Protezione Civile sente il bisogno di pubblicare una Nota Esplicativa dell’Ordinanza n. 3724. Sente il bisogno di spiegare che l’Ordinanza è valida sin dalla sua pubblicazione; che sono le Regioni, che possono cambiare la classificazione sismica proposta per i Comuni; che le nuove norme tecniche sono immediatamente vigenti, in particolare per le opere considerate strategiche ( esistenti e in costruzione ). La Protezione Civile spiega che devono essere considerate strategiche tutte quelle situazioni ( edifici e opere infrastrutturali ), il cui collasso può causare rilevanti danni: le Regioni entro 6 mesi devono individuare quali siano le situazioni strategiche, e avviare una ricognizione della situazione che durerà cinque anni.

Verrebbe da chiedersi da dove nasca il bisogno di spiegazioni: in fondo una norma dovrebbe essere scritta bene e senza equivoci. Forse.

Mancano 2198 giorni.

Con un Decreto, del 21 ottobre 2003, la Protezione Civile spiega cosa si intenda per situazione di interesse strategico di carattere statale, sia essa edificio o opera infrastrutturale. La Protezione Civile, si mette così, “in regola”, rispetto alle indicazioni della Ordinanza 3724. Mancano 2059 giorni.

La Giunta regionale Abruzzese lo fa il 29 marzo 2005, con una propria Delibera, la numero 438, e pubblica un elenco delle categorie di edifici e opere infrastrutturali di interesse strategico, di competenza regionale, la cui funzionalità, in caso di eventi sismici, assume rilievo fondamentale per le finalità di protezione civile.

Ma, il 22 gennaio 2004, la Protezione Civile avverte la necessità di aggiornare le nuove norme tecniche per le costruzioni proposte con l’Ordinanza 3724 di meno di un anno prima, e costituisce perciò un Gruppo di Lavoro, di cui fanno parte tra gli altri, il Prof. Gianmichele Calvi, della Fondazione Eucentre, nata nel 2003 su impulso anche della Protezione Civile; il Professor Edoardo Cosenza, oggi Assessore Regionale in Campania alle Opere Pubbliche; il Professor Mauro Dolce.

Mancano 1967 giorni.

E, subito dopo, è il Ministro delle Infrastrutture Lunardi a costituire un Gruppo di Lavoro, con un Decreto il 28 gennaio 2004, con il compito, entro il 30/6/2004, di costruire un Testo Unico della Normativa Tecnica delle Costruzioni.

E’ l’avvio ufficiale del conflitto istituzionale di attribuzione delle competenze. A chi spetta costruire una nuova normativa antisismica ? Alla Protezione Civile, o al Ministero delle Infrastrutture ? Immagino che le faglie in movimento siano attanagliate da questo dubbio. E immagino anche, che sia un interesse preciso delle Aziende edili, tra cui quelle riconducibili alla passata attività del Ministro Lunardi, avere norme precise e inequivocabili.

Mancano 1960 giorni.

Si aggiunge un terzo attore del conflitto istituzionale: la Conferenza delle Regioni. Alla Regione Abruzzo , e precisamente all’Assessorato regionale alla Protezione Civile Giorgio De Matteis, coadiuvato dal Direttore Regionale alle Opere Pubbliche Francesco D’Ascanio è affidato l’incarico di coordinare i lavori della Conferenza in materia di Protezione Civile. L’Abruzzo è Regione capofila.

E, il 26 marzo 2004 con una lettera di Giorgio De Matteis si precisano i termini del conflitto.

Si dichiara che la situazione che si è venuta a determinare è quella di una sostanziale inapplicabilità delle nuove norme tecniche, pur essendo in una fase transitoria ( fino a settembre 2004 ), prima della reale vigenza delle regole stabilite dalla Ordinanza 3724.

Si segnala il problematico coordinamento delle nuove norme con le disposizioni già vigenti, con ripercussioni su tutte le Amministrazioni Pubbliche, oltre che sul mondo delle professioni e dell’imprenditoria.

Naturalmente, per i cittadini, ripercussioni non ce ne sono.

Si segnala inoltre che la nuova normativa tecnica sulle costruzioni in zona sismica dovrebbe rientrare nel Testo Unico della Normativa Tecnica delle Costruzioni in via di predisposizione dal Ministero delle Infrastrutture, e il cui lavoro andrà ricondotto nell’ambito della Conferenza Unificata Stato-Regioni. Ma c’è anche il Gruppo di lavoro predisposto dalla Protezione Civile, il che crea problemi di ambiguità e attribuzione dei ruoli, arrivando a definire un ruolo subordinato delle Regioni, in questa materia.

Regioni, Ministero delle Infrastrutture, Protezione Civile: i tre soggetti istituzionali che rivendicano, ciascuno, un ruolo preminente.

Infine, la Lettera, fa presente che anche la classificazione sismica del Territorio è in realtà tutta da definire, perchè alla Protezione Civile spetterebbe il compito di fare una proposta che individui criteri generali per l’individuazione delle zone sismiche, cui dovrebbero seguire i pareri di una serie di soggetti, tra cui la Conferenza Unificata, prima della formale approvazione governativa.

Mancano 1902 giorni.

Ad aprile del 2004 l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia pubblica la mappa di pericolosità sismica prevista dall’Ordinanza 3724. L’Aquila è di color viola. Di più pericoloso, in Italia, ci sono solo due piccole zone color blu, una nell’Appennino calabrese, l’altra nel sud della Sicilia.

L’ 8 luglio 2004 viene pubblicata l’Ordinanza della Presidenza del Consiglio dei Ministri n. 3362. E’ istituito un Fondo straordinario per intervenire sul rischio sismico, e, per gli anni 2004 e 2005, si stabilisce che ci sono disponibilità di 67,5 milioni di euro per interventi di competenza delle Regioni, e 32,5 milioni di euro, sempre per gli anni 2004 e 2005 per interventi di competenza statale.

Ma, con questa Ordinanza, si stabiliscono i fondi disponibili per il solo 2004. Per il 2005, si provvederà secondo la nuova mappa del rischio sismico in via di definizione.

Le Regioni, per poter usufruire di tali fondi, entro 120 giorni, devono trasmettere al Dipartimento della Protezione Civile un piano degli interventi che intendono realizzare. Anche cercandosi qualunque altra fonte finanziaria disponibile. Chi non si muove nei tempi previsti, può vedere la propria quota di risorse assegnata ad altri.

All’Abruzzo, l’Ordinanza assegna 2. 287. 573 euro.

Mancano 1798 giorni.

La Regione Abruzzo, Direzione LL.PP. e Protezione Civile, in attuazione di quanto previsto dall’Ordinanza 3362/2004 ha elaborato il Primo Programma Regionale per le Verifiche Tecniche. Il Programma, approvato con delibera della Giunta Regionale n. 194 del 28 febbraio 2005 e integrato con le modifiche previste dalla D.G.R.A n. 792 del 17 luglio 2006, prevede l’esecuzione di verifiche tecniche su 254 edifici strategici e rilevanti e su 25 ponti. Ma, per garantire trasparenza nelle modalità di individuazione dei tecnici incaricati delle verifiche, dobbiamo attendere la pubblicazione di una procedura di evidenza pubblica sul Bollettino Ufficiale della Regione Abruzzo del 13 settembre 2006. La Delibera di Giunta è emanata 235 giorni dopo questa Ordinanza, la si integra 739 giorni dopo e l’individuazione dei tecnici cui affidare le verifiche, è normata 797 giorni dopo, non entro i 120 giorni previsti dall’Ordinanza.

Il 13 settembre del 2004 il capo del Dipartimento della Protezione Civile, Guido Bertolaso, scrive a Giorgio De Matteis, nella sua qualità di Assessore alla Protezione Civile dell’Abruzzo, capofila in materia per le Regioni italiane. In vista dell’entrata in vigore il 9 novembre del 2004 delle nuove Norme Tecniche, chiede che venga convocato un Tavolo Tecnico per il 21 settembre, premurandosi però di chiarire che la nuova Normativa Tecnica per le costruzioni in zona sismica ha un carattere transitorio, visto che nel frattempo, il Governo ha emanato una nuova Legge che prevede una normativa organica in materia di costruzioni in zona sismica e sulla quale il Presidente della Conferenza delle Regioni, Ghigo presidente del Piemonte è intervenuto con una pesante lettera ai Capigruppo del Parlamento rivendicando le competenze regionali in materia.

Mancano 1731 giorni.

E le nuove Norme Tecniche per le Costruzioni in zona sismica sono diventate una disciplina transitoria, in vista di una normativa organica, oggetto di studio di due Gruppi di Lavoro, con le Regioni che chiedono sia chiara la propria parte.

Il 22 settembre 2004, Giorgio De Matteis scrive invece a tutte le Regioni, e per conoscenza a Bertolaso, convocando per il 28 settembre successivo, una riunione tecnico-politica, delle sole Regioni , che deve avere il compito di discutere gli elaborati tecnico-normativi trasmessi dalla Protezione Civile, delle cui posizioni si “prende atto”, anche alla luce della nuova Legge del Governo, la numero 186 del 27/7/2004, che prevede un Testo Unico sulla Normativa Tecnica per le costruzioni in zona sismica.

Mancano 1722 giorni.

La riunione, poi, si svolge il 28 settembre, anche alla presenza della Protezione Civile, che assicura una proroga alla scadenza del 9 novembre per l’entrata in vigore delle norme dell’Ordinanza 3724, così come richiesto dal mondo professionale.  De Matteis chiede una proroga, tutti chiedono una proroga, finendo con il considerare l’Ordinanza come provvisoria in attesa del Testo Unico.

E, il 18 ottobre 2004, Giorgio De Matteis scrive a tutte le Regioni, e per conoscenza alla Protezione Civile, che è emersa la necessità di costituire un Tavolo Tecnico Ristretto delle Regioni che proceda all’esame tecnico istruttorio delle nuove Normative Tecniche proposte dalla Protezione Civile, formulando osservazioni e suggerimenti, che saranno poi sottoposti al Tavolo Tecnico di tutte le Regioni e Province Autonome per l’opportuna condivisione che consentirà di trasmettere il tutto alla Commissione che la Protezione Civile aveva costituito per la revisione delle norme dell’Ordinanza 3724. La Protezione Civile chiede che questa trasmissione avvenga entro il 15 novembre. Ma, Bertolaso, con la sua lettera all’Abruzzo del 13 settembre, non aveva detto che la nuova normativa tecnica per le costruzioni in zona sismica sarebbe entrata in vigore il 9 novembre ?

Mancano 1696 giorni.

Il giorno dopo, il 19 ottobre 2004, Giorgio De Matteis scrive nuovamente a tutte le Regioni alla Protezione Civile, dando conto di una riunione tenuta il 26 luglio tra le Regioni per valutare la nuova mappa di pericolosità sismica proposta dall’INGV. Questa riunione si era tenuta su sollecitazione all’Abruzzo da parte della Protezione Civile.

Nella riunione, la Protezione Civile sostiene che il quadro normativo non presenta alcuna ambiguità, e che la mappa della nuova pericolosità sismica proposta dall’INGV è uno studio di altissima qualità, rafforzato da numerosi confronti con altre autorità straniere e con la comunità scientifica.

La Protezione Civile è fermamente intenzionata a dare attuazione all’Ordinanza 3724 ed è quindi vicina all’emanazione di un provvedimento organico, sia sulla pericolosità sismica, che sulle norme tecniche di costruzione. Intervengono tutte le Regioni, e l’Assessore De Matteis sintetizza, alla fine della riunione, che le Regioni sono disponibili a tutti gli approfondimenti tecnici, ma che lo Stato deve fare chiarezza sulle contraddizioni e conflittualità istituzionali emerse, e che per quel che riguarda la mappa di pericolosità sismica elaborata dall’INGV, se ne deve discutere in sede di Conferenza Unificata Stato-Regioni.

Finalmente, arriva il 5 novembre 2004, e viene pubblicata l’Ordinanza della Presidenza del Consiglio dei Ministri numero 3379, con la quale è prorogata la possibilità di continuare a progettare e costruire, con le vecchie mappe sismiche, e con la vecchia normativa tecnica per le costruzioni in zona sismica, fino a marzo del 2005.

Mancano 1679 giorni.

Il 17 dicembre 2004, l’Assessore De Matteis dà conto, in una lettera inviata a Bertolaso e a tutti i Presidenti di Regione, del lavoro elaborato dal Tavolo Tecnico ristretto, e giustifica il ritardo con cui si trasmette questo lavoro svolto, data la sua alta complessità. Nella sostanza, si chiede alla Protezione Civile di non emanare nuove Norme Tecniche per le costruzioni in zona sismica, ma di accogliere il contenuto delle Osservazioni delle Regioni, per poi compiere un ulteriore passaggio nella Conferenza Unificata Stato-Regioni per le opportune valutazioni di merito e istituzionali.

Nelle Osservazioni sulla normativa tecnica per le costruzioni in zona sismica, si legge che, per gli edifici esistenti, assume grande rilievo il rapporto costi/benefici, ed è necessario avere tempo, per esplorare una serie di esempi numerici che mettano a confronto i risultati ottenibili con la vecchia normativa e quelli con la normativa proposta, sia in termini di rischio, sia in termini di costi. E si chiede di differire l’entrata in vigore della normativa, sino ad una sua completa e profonda revisione.

Anche perché, è evidente, che negli edifici esistenti, non ci abita nessuno.

Mancano 1637 giorni.

A questo punto, il 18 gennaio 2005, la Protezione Civile, con una Lettera di Guido Bertolaso inviata a Giorgio De Matteis e all’Architetto D’Ascanio, dichiara che il Gruppo di lavoro incaricato di aggiornare la normativa tecnica per le costruzioni in zona sismica prevista nell’Ordinanza 3274/2003, accoglie tutte le Osservazioni delle Regioni, le integra con quanto già predisposto dalla Protezione Civile, ed è pronta ad emanare una nuova Ordinanza, che prende atto delle osservazioni delle Regioni e renda definitive le norme.

Mancano 1605 giorni.

Ma le Regioni, non ci stanno, e il Tavolo Tecnico riunito presso la sede della Regione Abruzzo a Roma, fa sapere, il 2 febbraio 2005, che nessuna nuova Ordinanza può essere emanata, senza il parere della Conferenza Stato-Regioni, peraltro, si fa osservare che nella proposta di nuova Ordinanza illustrata dalla Protezione Civile, sono numerosi gli elementi di merito, di metodo, e di principio, insoddisfacenti, e si auspica la convocazione di un Tavolo Tecnico che metta insieme Ministeri, Regioni ed Enti Locali.

Il giorno dopo, è la Conferenza delle Regioni, a chiedere ufficialmente quanto già anticipato dal tavolo Tecnico delle Regioni.

Mancano 1590 giorni.

Bertolaso, a questo punto, il giorno dopo, 3 febbraio 2005, coglie l’occasione di un quesito inviato da Confindustria alla Protezione Civile nel dicembre del 2004, per affermare con una Lettera di risposta, che la proroga dell’entrata in vigore delle nuove norme tecniche di costruzione al marzo del 2005, non riguarda invece la classificazione dei Comuni nelle nuove zone sismiche, che entrerà invece ufficialmente in vigore quando le Regioni decideranno di adottare gli opportuni provvedimenti in merito.

Bertolaso così, scarica sulle Regioni la responsabilità di una insanabile contraddizione: il mese dopo dovrebbero entrare in vigore nuove norme tecniche di progettazione e costruzione, che le Regioni contestano, che il Ministero delle Infrastrutture vuole ricomprendere in un Testo Unico, legate ad una classificazione sismica del Territorio, frutto di un importante lavoro scientifico dell’INGV, anch’essa contestata dalle Regioni, da cui dipende comunque inserire i singoli Comuni in una zona di pericolosità sismica, piuttosto che in un’altra.

Intanto, il 29 marzo 2005, con Delibera 438 della Giunta Regionale abruzzese, viene recepito il lavoro dell’INGV sulla classificazione sismica del Territorio. L’Aquila è nella zona sismica 2.

Mancano 1535 giorni.

E, una nuova Ordinanza, la numero 3341 del 3 maggio 2005, proroga di ulteriori tre mesi l’entrata in vigore delle nuove norme tecniche per la progettazione e costruzione in zone sismiche. L’entrata in vigore sarà poi prorogata con Ordinanza del 13/10/2005 al 23 ottobre 2005, per saldarsi con l’entrata in vigore del Decreto del Ministero delle Infrastrutture, di concerto con il Ministero dell’Interno e con il Dipartimento della Protezione Civile del 14 settembre 2005, recante approvazione delle “ Norme Tecniche per le Costruzioni”.

Il primo dicembre 2005 si svolge a Roma un Convegno sulle Norme Tecniche per la Costruzione, uno dei relatori è Angelo Balducci, presidente del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici. ( Intenzionalmente scrivo presidente con l’iniziale minuscola ).

Il Testo Unico, magnificato come una riforma storica, è pubblicato in Gazzetta Ufficiale, dopo meno di due anni di lavoro, del Gruppo di lavoro, che doveva concludere i propri lavori entro il 30/6/2004. Il nuovo Testo Unico sarà accompagnato da un Gruppo di monitoraggio che verifichi l’applicabilità delle norme, immediatamente operative, per raggiungere l’obiettivo della sicurezza delle costruzioni ai fini della pubblica incolumità e della conservazione delle costruzioni. Non una parola per costruire strumenti di intervento seri sul patrimonio edilizio esistente.

Mancano 1289 giorni.

Ma, il 28 febbraio 2006, è lo stesso Angelo Balducci, ad istituire un Gruppo di Lavoro che ha l’obiettivo di costruire una proposta di aggiornamento riguardante i criteri di classificazione sismica del Territorio e di verificare la compatibilità tra il Testo Unico sulle Norme Tecniche per le Costruzioni, e l’Ordinanza 3274/2003. Del Gruppo di lavoro fanno parte, tra gli altri il Dottor Giovanni Guglielmi, ex provveditore alle Opere Pubbliche per l’Abruzzo, intercettato durante alcune inchieste della Procura della Repubblica de L’Aquila, il Professor Franco Braga, attuale Sottosegretario alle Politiche Agricole nel Governo Monti, il Professor Gian Michele Calvi della Fondazione Eucentre.

Mancano 1200 giorni.

Il 18 aprile 2006, il Servizio Previsione e Prevenzione dei Rischi della regione Abruzzo, fa il punto sulla situazione della Nuova Normativa Tecnica per le Costruzioni, forse anche a beneficio della nuova Giunta Regionale nel frattempo eletta.

Vi è una  ricostruzione storica dell’iter normativo; la sottolineatura che il nuovo Testo sulle norme Tecniche per le Costruzioni avrà un periodo transitorio di 18 mesi fino al 25 maggio 2007, durante il quale potrà essere utilizzata la previgente normativa. Si rileva inoltre che nel marzo 2006 il Ministero delle Infrastrutture ha presentato la nuova mappa di pericolosità sismica del Territorio, proposta dall’INGV nel 2004, e che le Regioni avranno un anno di tempo per procedere alla nuova classificazione sismica dei Comuni. Fermo restando, che, per le Regioni, continuano ad esservi aspetti di metodo e di merito sulla normativa che richiedono chiarimenti e interventi nella sede della Conferenza Unificata Stato Regioni.

La preoccupazione è tutta per i progettisti, i costruttori, e le possibilità di controllo delle Regioni. I cittadini non sono mai citati.

Il 28 aprile 2006 viene pubblicata l’Ordinanza della Presidenza del Consiglio dei Ministri n. 3519. Sono approvati i criteri generali e la mappa di pericolosità sismica del Territorio. Il Gruppo di Lavoro, istituito da Angelo Balducci come presidente del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, ha il compito, entro la fase di transizione per l’entrata in vigore delle Norme Tecniche per le Costruzioni, di armonizzare le norme con la classificazione sismica. L’Aquila è inserita, graficamente, nella zona di massima pericolosità.

Mancano 1141 giorni.

Il 12 luglio del 2006, la Conferenza delle Regioni torna sull’argomento delle Norme Tecniche, connesse con la classificazione sismica: chiede di poter consentire anche alla Pubblica Amministrazione di progettare e costruire entro il periodo di transitorietà della vigenza della norma, secondo le vecchie regole, anche per progetti già approvati, e non solo per opere iniziate; e per questo si propongono emendamenti al testo normativo; e, inoltre, afferma una questione assolutamente vera: per effettuare i controlli necessari, le Regioni non hanno né il personale, né le risorse finanziarie sufficienti.

Mancano 1066 giorni.

Il regime transitorio per l’operatività delle norme tecniche per le costruzioni, viene prorogato dal Governo una prima volta fino al 31 dicembre del 2007, dalla Legge Finanziaria del 2006, poi, viene prorogato al 30 giugno 2009 con l’approvazione in Legge del Decreto Milleproroghe del 2007 e con il Decreto Milleproroghe del 28 febbraio 2008, il periodo transitorio per l’operatività delle norme tecniche per le costruzioni viene prorogato a giugno del 2010.

Al Governo vi era il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, prima, e il Presidente del Consiglio Romano Prodi poi.

Il 28 febbraio del 2008, mancano 470 giorni.

Il 6 aprile del 2009 alle 3 e 32 del mattino sono finiti i giorni.

Questa è la storia di uno Stato che mangia sé stesso e ignora i suoi Cittadini e il bene comune.

Questa è la storia in cui i diversi Apparati, e le diverse Istituzioni dello Stato sono in guerra tra loro per ragioni di potere e di consorteria, senza guardare al pubblico interesse.

Questa è la storia in cui le persone, che ricoprono incarichi dirigenziali nella Pubblica Amministrazione, o incarichi politici elettivi, prestano troppo orecchio a interessi economici forti e consolidati del Paese, e trovano il modo, attraverso le cariche che esercitano, di accrescere il proprio potere e la propria ricchezza, secondo una logica di guerra per bande, ammantata di preoccupazioni istituzionali e di equilibri normativi, che sono talvolta reali, ma di cui possiamo leggere la strumentalità verso altri fini nel corso del tempo.

Questa è la storia in cui le persone che ricoprono incarichi dirigenziali nella Pubblica Amministrazione, o cariche elettive nelle Istituzioni, quanto meno, esercitano la propria funzione con troppa lentezza, con troppa inerzia, con poca responsabilità generale, ma di questo ci accorgiamo solo dopo, perché nell’esercizio del potere, in questo Paese, troppo spesso, questa è la normalità.

E questa è anche la mia storia, che in questi 2350 giorni, che separano il 31 ottobre del 2002 dal 6 aprile del 2009, ho pensato ad altro, magari di importante, ma non mi sono accorto che un intero sistema non era capace di proteggere me, la mia famiglia, i miei amici, la mia città.

E di questo, mi scuso. E questo è il mio piccolo tentativo di ricordare così, le Vittime del Terremoto de L’Aquila, Vittime anche della banalità del potere.

Il voto del 6 e 7 maggio 2012 a L’Aquila

9 maggio 2012 alle ore 14:54

Ho votato il candidato Sindaco Ettore Di Cesare. Ed ho espresso una preferenza tra le Liste che sostenevano la sua candidatura.

Se non vi fosse stato, per queste Elezioni Amministrative, il movimento di Appello per L’Aquila, non sarei andato a votare.

E’ la prima volta, da trenta anni, da quando cioè posso votare, che non ho votato a Sinistra, o per chi la Sinistra sosteneva. Non è stato facile, per me. Ma è stato necessario. E frutto di una scelta, credo, responsabile.

Ho compiuto questa scelta per molte motivazioni. Tra queste, una per me decisiva. L’Amministrazione Comunale guidata dal Sindaco, che avevo votato, ha, dal 6 aprile 2009 in poi, mantenuto un profilo operativo ed istituzionale del tutto coerente con una idea di “amministrazione” della città, dentro un quadro di assoluta difficoltà, e sottoposta a pressioni, condizionamenti, eventi enormi. Io avrei voluto che avesse fatto “politica”.

Avrei voluto che sin dalla fase dell’emergenza si fosse pensato alla costruzione di una nuova città, che intervenisse sulle storture, gli abusi e l’indifferenza della vecchia città. Avrei voluto che il Sindaco e la sua Amministrazione, e le forze politiche che l’hanno sostenuta, avessero mantenuto un profilo identitario e autonomo più forte, rispetto al Governo, alla Protezione Civile, a tutti i Commissariamenti che abbiamo subito. Avrei voluto tante altre cose, e tante altre non le avrei volute.

Gli “avrei voluto” non sono politica, né tanto meno storia. E però vorrei permettermi una prima valutazione del voto aquilano, e mi sembrava onesto raccontare quello che ho premesso, per far comprendere da quale punto di vista parto.

Siamo, da luglio 2008, dentro una crisi economica nazionale europea e mondiale, pesantissima. E, siamo in Italia, con un Governo che non è quello eletto dagli italiani il 13 aprile del 2008, nato per una crisi che, forse, ha esaurito un intero ciclo politico iniziato all’indomani della caduta del Muro di Berlino. A L’Aquila un terremoto ha pesantemente compromesso la vita dei cittadini, fatto centinaia di vittime, devastato una città, la sua storia, la sua cultura, la sua economia, la sua comunità.

Sono passati interi mondi da quando il 27 maggio 2007 si votò per il rinnovo del Consiglio Comunale a L’Aquila.

Nel 2007 votarono 48.897 cittadine e cittadini, nel 2012 hanno votato in 44.446.

Il candidato Sindaco Massimo Cialente ottenne allora 25.011 voti. Oggi, 17.598.

Il Partito Democratico oggi ha ottenuto 6.689 voti, nel 2007 Democratici di Sinistra e Margherita ottennero insieme 11.059 voti.

Oggi, il Popolo delle Libertà ha ottenuto 3.447 voti, mentre nel 2007 Forza Italia e Alleanza Nazionale insieme, ottennero 9.027 voti.

L’UDC nel 2007 ottenne 3.105 voti, oggi ne ha ottenuti 3.337.

L’Italia dei Valori, nel 2007 ottenne 1.752 voti, oggi ne ottiene 1.384.

Rifondazione Comunista ottenne nel 2007 1.139 voti, oggi, insieme ai Comunisti Italiani, ne ottiene 1.221.

Se possiamo permetterci il confronto, nel 2007 i Socialisti Democratici Italiani ottennero 2.372 voti, e nel 2012 i Socialisti Riformisti, hanno ottenuto 1.701 voti.

La Federazione dei Verdi nel 2007 ottenne 619 voti, mentre i Verdi Ecologisti, in un’altra alleanza, oggi, hanno ottenuto 1.121 voti.

Se vogliamo, possiamo confrontare il dato del 2007 della Lista “Alternativa per Mussolini” che ottenne 426 voti, con il dato di “Prospettiva 2022”, in un’altra alleanza, che oggi ha ottenuto 1.267 voti.

Infine, in modo certamente arbitrario, e irrispettoso delle diverse ispirazioni politiche, proviamo a confrontare il peso di diverse Liste Civiche, che nel 2007 ottennero 7.579 voti, e nel 2012 hanno ottenuto 9.387 voti.

Penso sia possibile, da questi dati, in parte arbitrariamente confrontati, constatare un elevato grado di “volatilità” del voto, in parte certamente dovuto alle peculiarità delle consultazioni amministrative comunali, dove conta certamente molto la “vicinanza” tra candidato ed elettore, talvolta a prescindere dallo schieramento politico.

Si può dire che in queste elezioni amministrative vi sono stati alcuni vincitori.

L’astensionismo, innanzitutto.

Un po’ l’UDC, di più, percentualmente, i Verdi, ma con un’altra collocazione politica rispetto al passato. Certamente la Destra.

Soprattutto, mi pare, si debba constatare la forte affermazione personale del candidato Sindaco Giorgio De Matteis.

Così come, mi pare, si debba constatare una forte espansione del voto alle Liste Civiche, fermo restando il fenomeno di alcune tra loro alleate con schieramenti politici pienamente riconoscibili, mentre altre, oggi, appaiono più marcatamente caratterizzate da un profilo politico autonomo rispetto a tradizionali schieramenti politici.

Ci sono anche degli sconfitti.

Ma su questo, lascio il giudizio a ciascuno. Tenendo conto soprattutto del fatto che c’è ancora un Ballottaggio da compiere, e il cui esito certamente determinerà il segno delle Elezioni in un modo o in un altro.

Mi colpisce un primo aspetto del voto aquilano.

Esso è avvenuto, in larga misura, come dentro una bolla di sapone. Come se, cioè, le grandi correnti di movimento del Paese, della sua crisi economica e politica, fossero passate oltre la nostra città. Lasciandola intatta ai suoi problemi specifici. Vero è che i problemi specifici della nostra città hanno una portata tale da occupare le menti e i cuori di ciascuno dei suoi cittadini, ma altrettanto vero è che, pare, il quadro generale in cui ci siamo mossi e ci muoviamo, non abbia influito in alcun modo sui nostri orientamenti di voto.

A mio parere, cioè, ad esempio, è come se la riflessione sulle responsabilità della crisi, sulle possibili risposte ad essa, sia stata completamente cancellata. A meno di non voler interpretare in maniera molto estensiva alcuni dati del voto. Io non credo perciò che una riflessione sull’entità e la responsabilità della crisi sia il motivo per cui a L’Aquila il PDL ha ottenuto un risultato così penalizzante.

Ma questa estraneità al quadro generale del Paese, anche nella campagna elettorale, non è un buon segnale per L’Aquila. Non lo è perché, chiunque governi, gestirà situazioni, decisioni, eventi, scelte, determinate da quel quadro, anche in una più ampia ottica europea, almeno.

Chi continua a pensare ad una città senza relazioni col suo territorio, con la sua Provincia, con la sua Regione, con l’Europa e il Mondo, ad una “aquilanità” inesistente, fa il male della città, non il suo bene.

Basti pensare al fenomeno migratorio che ci interessa, collegato alla ricostruzione. O alla necessità di riferimenti europei quanto meno, se vogliamo davvero dare una idea di sviluppo alla Città.

Le relazioni con l’esterno sono necessarie. Vitali.

Che relazioni ha un candidato Sindaco che capeggia una Lista che si chiama Movimento per le Autonomie, il cui riferimento nazionale è il Presidente della Regione Sicilia ?

C’è un secondo dato che a me appare rilevante, questo sì in sintonia, in una certa misura, con quel che avviene nel resto del Paese.

Vale a dire l’assottigliarsi del consenso, in generale, ai Partiti organizzati, e la ricerca, da parte del corpo elettorale, di risposte alla domanda di rappresentanza, il più possibile vicino alle proprie sensibilità. Meno ragionamenti “generali”, più ragionamenti specifici. Non lo scrivo come un dato qualitativamente negativo. E’ una questione problematica. Che attiene ad un ragionamento sulla forma della rappresentanza politica oggi, sulla sua crisi. E non mi pare il caso ora di soffermarmi su questo. Però, questo dato ha una sua specificità aquilana. Vale a dire cioè, che in esso è contenuto, credo, un giudizio implicito degli elettori sull’azione di governo del dopo terremoto. Ai vari livelli. Comunale, Provinciale, Regionale, Nazionale, Commissariale. E una specifica richiesta di Democrazia e di Partecipazione consapevole. Sarebbe facile scrivere che ha beneficiato del consenso dei Cittadini chi si è tenuto alla larga da responsabilità di azione di governo, in senso ampio, nella fase del dopo terremoto. In parte vi sarà anche questo dato. Ma credo che vi sia qualcosa di più profondo. E lo si comprende dal risultato positivo in un contesto estremamente difficile come L’Aquila, per la sua storia sociale, delle due Liste Civiche, “Appello per L’Aquila” e “L’Aquila che Vogliamo”. Più di altre esse sono il frutto di un percorso di autocostruzione ed elaborazione, riflettendo in vario modo i movimenti che hanno percorso il dopo-sisma. Forse, per la prima volta a L’Aquila, esse hanno strutturato, in modo ancora embrionale, e tutto da verificare per la sua tenuta nel tempo, di una “Società Civile” ( chiedo scusa per l’abusato termine ), che si pone in una posizione di forte autonomia dalla rappresentanza politico-istituzionale storica. E con essa confligge, discute, contratta ( nel senso nobile della parola ). Il punto vero è che questa rappresentanza politico-istituzionale storica si è dimostrata impermeabile a queste nuove istanze. Lontana, sorda talvolta. Anche soggettivamente. E lo si vede anche dal risultato, minimale, raccolto da formazioni, della Sinistra in particolare, che più di altre avrebbero potuto e dovuto essere capaci di lasciarsi permeare da una situazione improvvisamente mutata con le conseguenze del dopo-sisma.

D’altra parte, si vede anche come, nel voto, abbiano pesato fortemente interessi specifici. Non sempre chiari, trasparenti e legittimi. Si pensi alla esplicita posizione sul “condono”, assunta da alcuni candidati e da alcune forze politiche sul tema delle “casette di legno” del dopo-sisma. Rivelando una città profondamente “meridionale”, nel senso deteriore del termine, nel suo approccio al rapporto con il territorio, con il suo paesaggio, con la sua vivibilità. Lo stesso tipo di approccio che nel passato ci ha regalato una città-dormitorio in sue larghe parti, frutto di speculazioni edilizie, incapace di pensare alla qualità della vita e alla sicurezza dei suoi cittadini, con parecchi dei suoi palazzi crollati per irresponsabilità costruttive, autorizzative, pianificatorie.

Infine, mentre tutta la città discute il suo voto, il merito delle questioni e delle scelte future, sembra essere nuovamente scomparso dentro una discussione poco appassionante di meta-politica e di alleanze.

Da elettore di “ Appello per L’Aquila”, credo sia giusto compiere alcune scelte.

Innanzi tutto non procedere ad alcun apparentamento. Mantenendo così un profilo di autonomia da qualsiasi futuro governo cittadino.

Ma credo sia anche giusto dire, esplicitamente e pubblicamente, che esiste una differenza tra i due candidati Sindaci che vanno al ballottaggio. E tra le forze politiche che li sostengono. E che la compagine guidata dal candidato Sindaco Giorgio De Matteis, è irricevibile per questa città.

Io al ballottaggio andrò a votare. E voterò per il candidato Sindaco Massimo Cialente. Non perché è il “male minore”, ma perché, come cittadino, penso che vi sia così qualche possibilità in più di essere ascoltato. E voglio continuare a partecipare alla vita di “Appello per L’Aquila”, perché penso che le sue posizioni, di merito, erano, sono, e mi batterò insieme e alla pari con altri, perché siano anche in futuro le migliori per questa città.

Il Ballottaggio a L’Aquila

26 maggio 2012 alle ore 13:16

Marcosvaldo entrò al Boss. Si trovò uno spazietto al bancone di legno, e chiese un bicchiere di rosso. Un pacchettino di taralli. Prese tutto, e si andò a sedere ad un tavolo.

Aspettava gli amici. E arrivarono. Arrivò il Principino, e, subito dopo, Agnesino con Limetta, tutta caruccia nel suo completino tailleur nero e giallo, e con i tacchi a spillissimo. Bionda da far male gli occhi a guardarla.

-Vedi – disse il Principino – Massimo ha vinto. Viva Massimo. –

-Sì – rispose Marcosvaldo – ma ha preso 4.516 voti in meno del 2007… –

-Ma piantala – non lo fece neanche finire il Principino – con tutto il casino che è successo in Italia, e a L’Aquila, l’antipolitica del terremoto, il Grillo parlante, la crisi, i Commissari Basettoni, ha vinto alla grande, ha vinto al Massimo ! –

Agnesino già fremeva, che neanche gli era arrivato il bicchiere di bianco richiesto, e sbottò subito:

-Ha preso oltre quattromila voti in meno, nonostante l’appoggio di parte del Popolo del Bunga-Bunga !!! –

-Anche tu non hai capito niente – lo rimbeccò il Principino – è fondamentale, aver allargato la base elettorale; è un frutto essenziale del sistema elettorale usato per le Comunali: c’è’un di più di credibilità che è patrimonio personale del Sindaco… e poi, parliamoci chiaro : per vincere, va bene tutto, perché poi siamo comunque noi a governare, e noi siamo nel Giusto ! –

 

Marcosvaldo li ascoltava un po’ stupito, forse il rosso era un po’ troppo forte, o forse al Boss c’era troppa gente a quell’ora e il volume delle voci si alzava confondendolo un po’. Marcosvaldo infatti, era abituato a guardare, prima di tutto, i punti di debolezza di una situazione, per capire se poi fosse  possibile rimediare e andare avanti. E disse:

-Scusa, Principino, è vero che Massimo ha al secondo turno aumentato anche il numero di voti in più rispetto alle Liste che lo appoggiavano che già aveva preso al primo turno, passando da 2.347 a 3.027, contando anche l’appoggio dell’IDV, ma tanta, tanta gente non ci è andata a votare, e questo per la Democrazia non è proprio un bene… –

-Guarda – rispose subito il Principino – è segno dei tempi moderni, e di una Democrazia matura, l’astensionismo, i compagni americani del partito Democratico quando eleggono il Presidente non arrivano quasi al 50% del corpo elettorale… –

-E anche i “compagni” americani – disse sorridendo Limetta – si mettono d’accordo prima del voto su come dividere gli incarichi pubblici tra gli amici ? –

-E certo – sorrideva anche il Principino – lì sono fuori dalle nostre ipocrisie: lo “spoil system” è un sistema collaudato e che funziona, e chi vince si prende tutto, evviva la Faccia ! –

Marcosvaldo sentiva un po’ caldo, e si agitava sulla sedia. E gli uscì quasi come un sospiro:

-Ma scusa, se lo fanno gli altri si urla alla lottizzazione, all’occupazione del potere, alla mortificazione del merito, e se lo facciamo noi va bene ? –

-Sei fuori dal tempo – gli rinfacciò il Principino – quello che fa il Partito è sempre giusto, e in questo caso, sarebbe moderno, veloce: ma vuoi mettere governare la ricostruzione con tutta gente che la pensa come te, o che la puoi controllare, invece di perdere tempo con soggetti che non sai da dove nascono e quali interessi servono ? –

-Ma non si possono fare questi ragionamenti – disse Marcosvaldo – mentre in tutto il resto dell’Italia si discute di come i partiti debbano tirarsi indietro dalla gestione del potere… mentre c’è in corso una crisi della rappresentanza politica, mentre la politica è rappresentata come una casta, qui c’è un pericolo…

-Ma quale pericolo ? – rispose Agnesino – qui stiamo a L’Aquila, c’è il terremoto, il resto non conta e la gente ha votato per chi già sapeva le cose e poteva ripartire subito per ricostruire !

-La gente ha votato pure – aggiunse Limetta con un sorriso disarmante – per quelli che gli garantivano l’edificabilità della casa di legno, per gli avvocati, per quelli che mettono le statue del papa, per i medici…

-Non essere dissacrante – le disse il Principino – da sempre si vota per i propri interessi, e per chi ti da fiducia rispetto ad un problema o ad una idea. Poi spetta a noi mettere d’accordo gli interessi. A partire da quelli che pesano di più.

Marcosvaldo cominciò a sentirsi disorientato. Gli sembrava di ascoltare una puntata di Porta a Porta. Eppure stava al Boss, non si fumava più nemmeno dentro la Cantina, e aveva bevuto solo mezzo rosso ancora.

-Scusa – disse al Principino – ma non si dovrebbe partire da un programma, dagli interessi collettivi e poi da lì fare eventualmente giuste e trasparenti mediazioni ? –

-Ancora ? – Si stava scocciando il Principino – ma in quanti, credi, che a L’Aquila abbiano i letto i programmi di chi si presentava alle elezioni ? Hanno votato le persone…

-E qualcuno – aggiunse soave Limetta – non l’hanno votato proprio, pure se tutto il gruppo dirigente del Sindacato gli ha fatto campagna elettorale…

Marcosvaldo era affranto ora. Limetta aveva toccato un punto sensibile. Perchè in realtà, qualcuno, il Sindacato lo aveva fatto eleggere, almeno un Sindacato di quelli organizzati davvero. Ma a Marcosvaldo bruciava che chi il suo Sindacato appoggiava non era stato votato a sufficienza.

-Questo è un problema serio – quasi rifletteva ad alta voce Marcosvaldo – perchè non capisco bene se non c’è stato il giusto rapporto con i Lavoratori, o se la Società è tanto cambiata da non riconoscere più una rappresentanza dei Lavoratori…

-Ancora con i Lavoratori stai ? – chiese il Principino – ma se la Sinistra, tutta insieme, a queste elezioni ha preso quasi mille voti meno dei voti delle Liste Civiche ! Non ci sono più i Lavoratori, e, comunque, non li rappresenta la Sinistra. Oggi ci sono i Precari, i Disoccupati, e si rivolgono a chi gli risponde, non a chi fa solo chiacchiere tante e fatti zero.

-E poi – aggiunse Agnesino – che ti pensi ancora che la gente distingue tra Destra e Sinistra ? Sono tutti uguali, quando si siedono alla poltrona…

-Anzi – rincarò la dose dolcemente Limetta – quelli di Sinistra si scannano tra loro e la gente lo sa, e sono pure presuntuosi perchè dicono sempre che loro avevano già detto e capito tutto prima, però non solo non risolvono niente, ma quando fanno le cose le fanno tutte sotto sotto…

-Ma non è vero ! – insorse Marcosvaldo – Non sono tutti così ! –

-Vedi – disse il Principino – tu pure, se dici che non sono tutti così, vuol dire che qualcuno invece è proprio così !

Marcosvaldo si sentì punto sul vivo. Perchè pensava alle bandiere, ai sacrifici, alle lotte, a quello che in tanti avevano pagato di persona per le proprie idee, e il comportamento di pochi segnava tutti a dito come un marchio infame. Gli veniva quasi da piangere, perchè la Sinistra a L’Aquila contava pochissimo e perchè per qualcuno, davvero, la politica era diventato il modo di sbarcare il lunario. Marcosvaldo, sapeva, sentiva, che mentre per tutti gli altri questo sarebbe stato considerato normale, per uno di Sinistra questo non era normale, era una cosa brutta, e si pagava doppio. Però la politica doveva essere una cosa nobile, una passione, e poteva anche permetterti di vivere materialmente, però dovevi essere migliore degli altri, e dimostrarlo…

-Diciamocelo chiaramente – disse il Principino – con quello che è successo a L’Aquila si potrebbe scrivere un libro di opinioni. Ma quello che conta sono i fatti, e i numeri. Non quelli dell’aereoportuale clandestino che pensava vincesse il conte Franco Dracula, che invece al primo turno ha preso 821 voti meno delle Liste che lo appoggiavano, e al secondo turno ha recuperato  1342 voti, comunque soltanto 521 in più delle Liste che lo appoggiavano. Per carità, risultato decente, ma neanche lui ha incanalato proteste e disagio; ha solo rappresentato una certa idea di città, vecchia, e fatta di interessi piccoli, e del residuo rifiuto di qualunque cosa sappia, anche solo da lontano, di Sinistra. E poi, i fatti, dicono che gli illusi che fanno l’Appello possono continuare a pensare che il merito delle questioni conti qualcosa, fin quando reggono. E i fatti dicono che quegli altri non hanno votato Massimo perchè al processo ha dichiarato la sua verità, e non quella che i seguaci del precursore sismico avrebbero voluto sentirsi dire. Per questo si vota a L’Aquila ! E poi si sono spostati gli equilibri dei poteri, e la ricostruzione è una cosa seria, che non si può lasciare in mano ai dilettanti, o ai sognatori e noi ormai siamo gli Interlocutori, e abbiamo i rapporti con chi deve ricostruire, e abbiamo le idee chiare che l’urbanistica può essere contrattata e se lo facciamo noi lo facciamo per il bene, e gli altri no. A prescindere.

Marcosvaldo si alzò dalla sedia. Tornò al bancone di legno, prese un altro bicchiere di rosso, e lo bevve tutto d’un fiato.  Si sentiva le orecchie ronzare. Avrebbe voluto parlare con i suoi amici delle tante questioni aperte a L’Aquila, del lavoro che non c’era, della bellezza, della lotta da fare ai capitali della camorra, delle banche che stavano cambiando, della chiesa spa, delle piazze, del futuro, dei marciapiedi, del teatro e della musica, del rugby, di una partita a calcio per strada, delle poesie dimenticate… delle tante persone che, in buona fede, tutti i giorni, dimostravano di essere oneste e capaci tra quelli che avevano vinto, e, forse, pure tra quelli che avevano perso. Meno i fascisti, naturalmente.

Gli arrivò l’eco delle ultime parole di Agnesino e Limetta.

-Certo che sarebbe una raffinatissima forma di vendetta dare ad una ex sindacalista la Delega in Giunta per il Personale e intanto continuare a gestire maggioranze variabili… : tra poco si vota per la Regione e per il Parlamento e bisogna fare le cose per bene… –

Non serviva molto ragionare e discutere. La realtà era troppo complessa per il piccolo Marcosvaldo, e ogni volta che pensava di riuscire a partire da un punto, quello sfuggiva e si trasformava in qualcosa d’altro. Eppure certe volte gli sembrava che ci fosse un senso nel fare, nel dire, nel pensare. E gli sembrava che ci fosse la possibilità di farlo insieme, con altri. E non era una condanna inevitabile essere accettati soltanto se si diceva sempre di sì al potente di turno. Se ci si sapeva mimetizzare bene.

Marcosvaldo se ne andò, senza pagare il conto.

Tanto, così fan tutti.

Il Boss è avvisato.

Il Prestigiatore

3 giugno 2012 alle ore 18:01

Il palcoscenico contiene due importanti elementi di scenografia.

Da una parte, il cosiddetto “Decreto Sviluppo” del cosiddetto Ministro dell’Economia Tremonti, del maggio 2011, ha innalzato a un milione di euro, per la Pubblica Amministrazione, la possibilità di svolgere gare d’appalto senza Bando Pubblico, ma a trattativa privata.

Dall’altra, nella legislazione italiana, è difficile ritrovare, e far perseguire, il reato di concussione, e quello di corruzione tra soggetti privati.

Come due sedie, ai lati opposti del palco, su cui sedersi alternativamente, a secondo del copione da interpretare.

Allora si possono immaginare alcune scene, che il Prestigiatore può interpretare, arrivando con la sua tournee a L’Aquila, teatro di importanti appalti pubblici e privati, soprattutto se il pubblico si distrae, o magari è complice.

Ad esempio, a L’Aquila ci sono due squadre, una nel calcio, e l’altra nel rugby. L’intervento finanziario del Prestigiatore, volontario o consigliato,  per supportare le squadre, magari in difficoltà economica, può aprire tante porte. Oliare tante situazioni difficili, semplificare tante procedure intrecciate. E rendere digeribili scelte altrimenti parecchio pesanti.

Un numero particolarmente eccitante del Prestigiatore, è il finanziamento, esplicito e certificato, della campagna elettorale del Sindaco di una importante città del Veneto. Così il Prestigiatore riesce facilmente a presentare progetti e installare isolatori antisismici nei condomini aquilani, e mettere i propri striscioni, da Santa Barbara, a Piazza Palazzo.

Ma il Prestigiatore può assumere molteplici forme. Per esempio può essere “fratello” di molti ai piani alti di una Banca del Territorio, che,  nonostante siano ormai in vigore le norme cosiddette di “Basilea 3”, mantiene aperte linee di credito quasi sulla parola, per lui, mentre nei confronti di altri si è rigorosi. Poi, se capita che importanti dirigenti di una Banca vanno a lavorare in un’altra, non è detto che il Prestigiatore, e tanti suoi colleghi e “fratelli”, non lo seguano. Per puro affetto si intende.

Certo, il Prestigiatore talvolta si ritrova a dover fare di necessità virtù. Per esempio suonando sullo spartito delle normative per la ricostruzione aquilana, ci sono tanti arrangiamenti possibili.

Può accadere che, per la ricostruzione di una casa, i pagamenti siano troppo lenti; allora il Prestigiatore può trovare ampi spazi nel finanziare la Ditta che è stata scelta per il lavoro, e che ha dovuto anticipare materiali e stipendi, e una Ditta aquilana piccola può diventare così un Cavallo di Troia, che contiene in sé capitali equivoci. Visto che le banche applicano le normativa di “Basilea 3”, per le “ditte normali”. E visto che quella Ditta, proprio per i ritardi nei pagamenti, magari non può più neanche presentare il DURC ( Documento di Regolarità Contributiva ), necessario per aggiudicarsi nuovi lavori.

Allora si possono vedere aziende che, nel giro di tre anni, moltiplicano i propri fatturati, partendo magari da una forza lavoro di tre dipendenti. Una magia, appunto.

Un’altra magia del Prestigiatore può essere quella di costruire un piano in più di quello che era prima nella casa abbattuta, magia resa possibile dall’incrocio tra le norme sulla ricostruzione e le normative edilizie regionali e nazionali sempre molto generose. Quel piano magari serve ai condomini come “moneta di scambio” per pagare alla Ditta un adeguamento sismico al 100%, visto che si può arrivare per legge massimo all’80% rispetto al rischio con il finanziamento per la ricostruzione. Così la Ditta acquisisce un pezzo di immobile. E cambia la città. E magari ripulisce qualche capitale macchiato.

Il Prestigiatore può gonfiare le fatture, aiutando così vari soggetti, se serve, magari per aggiudicarsi un lavoro. Che è forse il trucco più semplice.

Oppure il Prestigiatore può subappaltare il lavoro acquisito, e chiedere al Subappaltatore un “contributo” del 30 % sul valore del lavoro aggiudicato. Poi, basta che l’Appaltatore contesti al Subappaltatore il 30% del lavoro svolto, e che il Subappaltatore non si opponga alla contestazione. Così, il “non pagato” diventa guadagno netto.

Il Prestigiatore affitta i propri immobili alla ASL, che così non ricostruisce Collemaggio perché i soldi li spende in affitti.

Il Prestigiatore può aiutare la Pubblica Amministrazione a frazionare un Appalto, così la Pubblica Amministrazione, per aumentare la propria efficienza ed efficacia, svolge il lavoro a trattativa privata. E, magari, così si possono assumere un po’ di amici e amici degli amici del Pubblico Amministratore.

Ma la Pubblica Amministrazione può anche affidare importanti consulenze al Prestigiatore, o ai suoi Amici, così magari certi Contratti di Programma, o Piani Urbanistici somigliano alla quadratura del cerchio, come per ogni “urbanistica contrattata” che si rispetti.

Il Prestigiatore poi, può insegnare a chi debba decidere, nella Pubblica Amministrazione o tra Soggetti privati, come si può dare un aiuto “legale”. Ad esempio il Prestigiatore si offre di acquistare l’immobile o il terreno di uno che ha il potere di decidere, e paga una caparra. Poi l’acquisto non si perfeziona, e la caparra resta nelle tasche di poteva decidere e ha deciso.

Il Prestigiatore può essere bravissimo nel consigliare amichevolmente  la Ditta che ha acquisito un lavoro a chi si debba rivolgere per l’acquisto dei materiali; o a chi quella Ditta debba rivolgersi per l’affitto di macchinario necessario alla costruzione.

Il Prestigiatore abbassa il costo del lavoro assumendo un sacco di Apprendisti o di Lavoratori part-time, o consigliando tanti Lavoratori ad aprirsi una Partita Iva. Da Professionisti si lavora di più, si guadagna meglio, e si pagano meno tasse. E si è più liberi, vuoi mettere ?

Il Prestigiatore passa molto tempo a pensare i “numeri” del suo spettacolo.

E, soprattutto, cerca di riuscire nel suo “numero” più difficile, quello di essere invisibile, e di convincere tutti che non lo hanno mai visto.

In fondo, è uno strano tipo di spettacolo, in cui ha più successo chi ha il nome più nascosto sui cartelloni, e convince tutti che non esiste nemmeno, e che è bene non parlare mai di lui e non applaudirlo.

La tecnica legislativa, lo studio dell’elusione e di come si costruisce un appalto, il pensiero furbo e veloce, i controlli, resi per legge troppo scarsi, la pigrizia e le regole sempre vissute come inutile burocrazia, l’abitudine a fottere il mercato e i contratti, la cura esclusiva dell’interesse particolare e mai di quello comune, sono l’ambiente naturale in cui si muove il Prestigiatore.

Poi, qualche volta, il Prestigiatore è costretto a incazzarsi se trova un pubblico che non applaude, e perciò molla qualche scappellotto amichevole,fa succedere qualche furtarello d’avvertimento; gli scappa di buttare qualche fiammifero nel posto sbagliato. 

Però, se a L’Aquila il Prestigiatore non si è ancora incazzato visibilmente, forse, vuol dire solo una cosa.

Che il Prestigiatore non esiste.

Non sono un urbanista. Perdonatemi.

1 luglio 2012 alle ore 10:22

Considerazioni in merito al Documento della “Commissione per la valutazione urbanistica delle criticità e delle prospettive per la ricostruzione e lo sviluppo della città de L’Aquila”, pubblicato sul sito del Ministero della Coesione Territoriale il 15 giugno scorso.

Il Documento, si apre con una affermazione di principio: centrale è l’impegno prioritario per la ricostruzione del Centro Storico. Bene. Ma la soluzione degli innumerevoli problemi aquilani, di vivibilità, di sicurezza, di sviluppo, di qualità, etc. , non si misura a partire da una singola area della Città, per quanto importante. Bensì , dall’armonia con la quale tutto il Territorio, Centro, Periferie e Frazioni, contemporaneamente, procede verso un nuovo assetto urbano dopo il sisma. Tutti i cittadini hanno diritto a migliorare la propria condizione risolvendo i problemi che li interessano.

Mi piacerebbe che si guardasse a L’Aquila con una prospettiva d’insieme. E non parziale.

E, invece, il Documento ritiene sia necessario partire dalla ricostruzione del Centro Storico per immaginare un futuro da “Smart City”, cioè da città centrata su processi innovativi.

Dovrebbe essere urgente il contrario: partire dai margini più esterni al Territorio, ora fortemente popolati, e densi di strutture produttive e di servizio, anche pubbliche, e in cui sono in atto processi tumultuosi, e arrivare poi al Centro, per innescare processi innovativi virtuosi. Visto che nel Centro Storico ancora non si avvia, purtroppo, un consistente processo di ricostruzione. Tralascio, in questa sede, ogni considerazione sulla “Smart City”.

Il Documento si propone di offrire ai Consorzi di proprietari del Centro Storico le condizioni per andare oltre una logica esclusivamente edilizia nella ricostruzione e imboccare al suo posto un percorso che possa farsi anche imprenditoriale, costruendo le opportune modifiche normative e “premialità” urbanistiche. Ad esempio prevedendo l’ampliamento e la diversificazione delle destinazioni d’uso degli immobili, anche con moderati incrementi di superficie utile, o nello stesso luogo, o altrove : nelle zone ai margini del Centro, o all’esterno del Centro; in quelle zone che il vigente Piano Regolatore definisce di “Attrezzature Generali”, la cui destinazione specifica però può essere cambiata solo da una Delibera del Consiglio Comunale.

Penso sia importante immaginare il futuro della città in un’ottica dinamica. Non mi è mai piaciuta l’idea del “dov’era, com’era”, viste le tante brutture e diseguaglianze presenti anche prima del sisma. Il Documento però, mentre sceglie di non intervenire sull’integrale finanziabilità della sicurezza anti-sismica, pone invece il punto di una possibile evoluzione degli immobili verso  Residenze Sanitarie Assistite o verso la “Filiera turistico ambientale”, tra le altre. Per questo tipo, o altri tipi, di evoluzione, si possono cambiare le destinazioni d’uso, ricostruendo con soldi pubblici, sulla base di progetti privati, ma sempre con una sicurezza sismica finanziabile compresa tra il 60 e l’80% di quella necessaria per Legge, nel quadro di una indennizzabilità massima, che resta sempre rapportata ai prezziari dell’Edilizia Economica e Popolare nella Regione Abruzzo. Anche per il Centro Storico, anche per gli edifici di pregio. Fino a norma contraria.

C’è una scelta precisa: immaginare una idea evolutiva della città, ma a partire dalle norme e dalle risorse finanziarie disponibili. La volontà di far muovere quello che, fino ad ora, è rimasto fermo, conduce però sull’orlo della rottura delle norme di tutela urbanistica e ambientale della Città. Aprendo varchi immensi al malaffare.

Mi pare si costruiscano le premesse per avere una ampia “zona grigia” di scelte urbanistiche, di difficile legittimazione, oltre che, magari, di insopportabile speculazione. Che partano coprendosi di ottime intenzioni, e finiscano per legittimare interventi pesanti per l’identità del Centro Storico e della città nel suo complesso. Se poi si mette in relazione questo Documento, con il “Piano di Ricostruzione del Centro Storico” del Comune de L’Aquila, nella parte in cui si descrivono le risorse finanziarie disponibili, nessuna di carattere privato, il rischio di finanziarie possibili malversazioni private con risorse pubbliche, si fa troppo alto.

 

La ricostruzione di reti di infrastrutturazione, anche “intelligenti”, è fondamentale per il futuro della città. E il Documento contiene molti interessanti spunti, anche se resta profondamente carente sul piano delle risorse disponibili. In questo quadro, però, surrettiziamente, suggerisce che sia possibile utilizzare l’energia prodotta da biomasse della costruenda Centrale di Bazzano, approvata dalla Regione Abruzzo,per il riscaldamento/raffreddamento del Centro Storico. Mi pare una forzatura, quanto meno, e sarebbe interessante conoscere il pensiero del Comune de L’Aquila, i cui tecnici, con parere positivo del Sindaco, hanno approvato a suo tempo quella costruzione, giudicandola peraltro coerente con il Piano Regolatore Generale vigente.

Così come è certamente lodevole la sollecitazione a pensare la ricostruzione ( ancora, perché solo del Centro Storico ? ) in “Classe Gold” per l’Ambiente, ma con quali risorse ?

E sempre in tema di risorse, per la prima volta in assoluto, mi pare, il Governo certifica l’insufficienza delle risorse sin qui stanziate per la ricostruzione della Città de L’Aquila. Il Documento infatti, quantifica in 10, 6 i miliardi di euro sin qui stanziati, di cui 2,9 utilizzati per la gestione dell’Emergenza; 2, utilizzati per i processi di ricostruzione sin qui avviati, e dichiara, esplicitamente, che i restanti 5,7 miliardi sono insufficienti per completare la ricostruzione. Ma a questa affermazione non fa seguito alcuna conseguenza. Non vi è cioè alcun ragionamento avviato, o proposto, per il reperimento delle ulteriori risorse necessarie.

Penso che tutti i soggetti istituzionali del nostro Territorio, a partire dal Presidente della Regione che ha sempre dichiarato che “ i soldi ci sono”, per finire con chi si è battuto col precedente Governo per ottenere una “tassa di scopo”, debbano chiedere conto al Governo attuale di queste sue affermazioni, e battersi affinchè le risorse necessarie siano reperite. E penso che questo tema debba restare al centro delle azioni e delle richieste dei soggetti associativi, datoriali o dei lavoratori, e dei cittadini tutti.

Il Documento poi, si diffonde sulle caratteristiche di una nuova possibile forma di governo del processo di ricostruzione, una volta usciti dall’emergenza. Si immaginano nuove strutture, nuove figure, a partire da un “City Manager”, da reclutare tramite concorso internazionale. Ma continua a non immaginarsi quello che forse sarebbe più semplice e necessario. Una nuova pianta organica del Comune, che preveda il reclutamento delle figure tecniche indispensabili per gestire le complessità che ci aspettano, e le risorse necessarie per alimentarla. Una struttura che dialoghi e risponda, in tempo reale, con i tecnici della ricostruzione, le imprese, i cittadini. E una forte struttura di controllo, se necessario di livello regionale, che dialoghi col Governo, ma solo in funzione di verifica ex-post della liceità e correttezza delle scelte, delle erogazioni finanziarie, dei comportamenti.

Ma quello che servirebbe di più sarebbe un corpus normativo chiaro, coerente, che non crei conflitti di attribuzione e individui invece con precisione chi ha la responsabilità di cosa, e sufficientemente flessibile da poter essere adeguato facilmente all’evoluzione delle esigenze della ricostruzione.

Non mi pare che si vada in questa direzione, purtroppo.

Il cuore del Documento, è nel tentativo di offrire un nuovo modello di Piano per la Ricostruzione.

Partendo dalla Legge 77/2009.

I Comuni predispongono, secondo la Legge, d’intesa col Presidente della Regione, la ripianificazione del territorio comunale per assicurarne la ripresa socio-economica, la riqualificazione dell’abitato, garantendo un’armonica ricostituzione del tessuto urbano abitativo e produttivo, ivi compresi gli insediamenti del Progetto C.A.S.E. Dentro questa ripianificazione, si inserisce, con il compito preminente di essere uno strumento di programmazione pluriennale delle risorse disponibili,il “Piano di Ricostruzione del Centro Storico”.

Il Documento sostiene che la programmazione del Territorio è una competenza regionale. Ma la Regione Abruzzo ha una legge urbanistica che risale al 1983. E che individua il Piano Regolatore Generale come strumento della pianificazione del Territorio. Ma, sostiene ancora il Documento, il Piano Regolatore Generale è uno strumento ormai vecchio e inadatto.

E’ per questa convinzione, che la Commissione che ha redatto il Documento sulle prospettive urbanistiche della città de L’Aquila, indica la necessità di uno strumento solo programmatorio, cui consegua uno strumento operativo capace di essere flessibile nel rapporto tra progetto e atto che autorizzi quel progetto, e uno strumento solo regolamentare che si occupi della gestione del patrimonio edilizio esistente.

Quindi, la proposta è di avere un Piano Strutturale, un Piano Operativo, e un Regolamento Edilizio.

Ma, il Governo non può obbligare la Regione ad una nuova Legge Urbanistica che abbia queste caratteristiche, e non ce ne sarebbe neanche il tempo. Quindi il Governo suggerisce alla Regione un intervento normativo transitorio che consenta ai Comuni, L’Aquila in particolare, la ripianificazione del territorio comunale, secondo quanto previsto dalla L.77/2009, e una nuova strategia urbanistica di ricostruzione.

Credo sia grave, semplicemente, che a tre anni e tre mesi più o meno dal sisma, si giunga alla consapevolezza che non abbiamo una corretta architettura giuridica, al di là della bontà o meno delle proposte governative su cui non intervengo, per la ricostruzione della città. Sono francamente poco interessato alla ricerca delle responsabilità di questa situazione, anche se ho le mie idee, e sono molto più interessato, invece a quel che è accaduto “nel frattempo”. Vale a dire cioè alla enorme massa di cambi di destinazione d’uso, di interventi realizzati, di licenze concesse, etc. sulla base di regole opinabili, contrattabili, senza una trasparente e partecipata e condivisa visione della Città. Ogni singolo atto sin qui avvenuto, avrà forse la sua legittimità giuridica, ma il Documento del Governo, quanto meno, certifica che una ripianificazione del territorio non è stata fatta. In termini di pensiero, elaborazione, generosità verso il futuro. Bensì realizzata, materialmente, sulla spinta dell’emergenza e delle necessità dei cittadini o delle imprese, più o meno legittime o legali, e sulla spinta di iniziative politiche, quanto meno, non lungimiranti. Il Documento del Governo, di fatto, certifica che l’unica ripianificazione del Territorio che sarà possibile sarà quella chiamata a giustificare tutto quanto avvenuto sin qui.

Ecco allora, che il modello del “Piano per la ricostruzione del Centro Storico de L’Aquila” va esteso al resto della città, e, semplicemente, quando ci sono problemi col Piano Regolatore Generale vigente, lo si cambia. In variante, volta per volta. Una disciplina delle varianti è richiesta alla regione Abruzzo. E così, a me sembra, le crepe che si aprono saranno ancora più larghe.

Estendere a tutta la città lo schema degli “Aggregati”, consentirebbe di trattare più agevolmente il tema delle demolizioni e compensazioni edilizie, utilizzando anche le cosiddette “Aree Bianche”, per le quali, secondo il Governo, andrebbe cambiata la Delibera in merito del Consiglio Comunale, per aumentarne l’indice di edificabilità, anche pensando a forme di esproprio, da parte del Comune, che il Governo si impegna a finanziare, ma sempre nell’ambito delle attuali risorse stanziate per il sisma. Neanche aggiuntive.  E, “finalmente”, si indica l’opportunità di prevedere una ricucitura urbana, attraverso nuova edificazione, tra alcuni insediamenti del Progetto C.A.S.E. e il resto della Città. Mi permetto di dire che sarebbe interessante, per i casi che il Governo indica ( Sant’Elia, 1 e 2, Bazzano, Roio, etc. ), conoscere i nomi  delle proprietà dei terreni destinati, secondo gli auspici, a nuova edificazione.

Siamo di fronte alle premesse di quello che, in tempi rapidi, secondo le affermazioni del Governo, si tradurrà in atti di Legge. E’ in corso una discussione su questo, in parte pubblica, e in parte no.

Sono stanco di osservare che il futuro della Città è costruito, a me pare, a partire dagli interessi privati, e non a partire dall’interesse comune, entro il quale gli interessi privati possano trovare la loro soddisfazione. E sono stanco che la Legge serva soltanto a legittimare quello che le forze concrete del Mercato, se così possiamo definirle, ( più o meno lecite ), hanno già determinato.

Sono stanco, anche perché questa discussione avrebbe dovuto essere fatta e avrebbe dovuto produrre tutte le sue conseguenze, normative, politiche, sociali ed economiche, a partire da tre anni fa.

Non mi pare che il Documento del Governo, pure denso di proposte condivisibili, ci faccia compiere il necessario salto di qualità, mi pare invece ci accompagni per mano verso una legittimazione giuridica di scelte urbanistiche per la città, decise da alcuni poteri, certo in modo non trasparente, e per ciò stesso, fatte diventare “sviluppo”.

Abbiamo bisogno invece di riappropriarci, come Città, da subito, dei poteri e delle scelte che riguardano un futuro che è nostro e di chi verrà dopo di noi.

Ossimori

24 luglio 2012 alle ore 17:27

La condizione di crisi economica, la sottrazione della città, sono la normalità del vivere.

Torna nella tua casa, uomo, donna, o giovane, o anziano. Chiudi bene la tua porta, e accendi il televisore. O accendi un computer.

E’ dentro le tue mura, che tu puoi vivere. E, se proprio devi uscire, devi consumare qualcosa, devi pagare qualcosa, devi fare la spesa in un contenitore dedicato. Devi avere rapporti con la Pubblica Amministrazione, che però tagliamo. Nei compiti, nelle risorse, nel personale. Di cui rendiamo inafferrabili le decisioni, incomprensibili le leggi. Una Pubblica Amministrazione minima che dia solo servizi minimi, per una cittadinanza minimizzata.

Fuori dalle tue mura protettive, puoi andare ad un lavoro, se ce l’hai. E sapere che ci dovrai restare fino almeno a sessantasette anni, qualunque esso sia, dal maestro d’asilo, alla muratrice sui ponteggi a trenta metri d’altezza e senza cintura di protezione. E al lavoro devi solo sapere che, qualcuno, tanto vicino come un padrone che conosci, o una multinazionale lontana anni luce, o un Ente Pubblico che deve rientrare dal Debito, in ogni momento, e per una qualunque ragione rivestita più o meno di legittimità giuridica, ti può cacciare via.

Inventarti un lavoro potresti, se hai le conoscenze giuste, se sei simpatico ad una banca, e però è normale che ti chiudano la porta se non sei figlio di. Ed è normale che ti faccia concorrenza quello meno regolare possibile.

Fuori dalle tue mura protettive non c’è nulla che debba avere un senso.

Tutto quello che ha un senso, riguarda te, la tua persona, la tua famiglia, al massimo. Pensa al tuo sogno d’amore, alla tua paura di star male, al prossimo viaggio che forse riuscirai a fare. Ma pensaci da solo, e, al massimo, raccontalo in un social network. Nel quale costruisci la rappresentazione di te stesso. Più vera del vero. Perchè più somigliante all’idea che hai di te stesso, la sola che vuoi comunicare. Fai pubblicità alla tua persona sul banco del mercato mondiale. Ed esaurisci così ogni possibilità di senso, perchè lo vedi pubblicato, fruibile da un tuo simile anche a Timbuctù.

Mentre guidi la tua automobile carro armato ti muovi più o meno ordinatamente e lentamente in colonna e per sentirti libero non ti fermi ai passaggi pedonali, non dai la precedenza e vai più veloce del dovuto e non segnali quando devi girare, attaccato al tuo cellulare come ad una dispensa di ossigeno.

Le strade che percorri costeggiano le porte di ingresso delle case. E non c’è confine tra il tuo tinello e il gas di scarico. E sono strade strette, sempre più strette nelle periferie dove la proprietà privata non fa nessun conto con le distanze di rispetto. E con l’esistenza di altri esseri umani. E sono strade inoculate come un virus insopportabile davanti ai cancelli e alle mura di recinzione, che non tollerano marciapiede, e hanno orrore del vuoto di una piazza. Scendi dalla tua auto e sei direttamente in sala da pranzo col telegiornale acceso.

Ti hanno spiegato che la tua città è soltanto il centro storico. Te lo hanno raccontato da quando sei nato. Ed era vero. Perchè L’Aquila si divide tra chi è nato fuori le mura, e chi dentro. E non fa niente che il San Salvatore stesse dentro le mura. Se sei di Paganica, o di Preturo, o di Bazzano, per te, solo i portici di Corso Vittorio Emanuele dovevano avere senso. Figuriamoci per te, abitante di Scoppito o di San Demetrio. Quindi, torna alle tue mura amiche di Pettino, quando hai respirato un po’ di città. Come dopo una gita dal parente benestante.

E adesso che il centro de L’Aquila, o di San Gregorio, o di Onna, è transennato e puntellato dal differenziale tra il valore dei titoli di Stato tedeschi e quelli italiani, fai sorgere soltanto mitologie sismiche. Di ricordi inventati e agibilità parziali. Per incontrare anime vaganti, bevi. Col volume alto di cosiddetta musica. E commuoviti quando vedi un cane randagio con il coraggio di vivere tra le macerie. Quello stesso cane di cui, il 5 aprile 2009, non riuscivi a sopportare che la ASL non si  occupasse.

Oggi, ti rechi in devoto pellegrinaggio nei luoghi che già prima troppo spesso dovevi vivere come ospite. Mentre ammiri la fantasia dei manufatti legnosi su piattaforma di cemento armato sorti ovunque. Compresa le tenda della Protezione Civile alla Fontana Luminosa trasformata in chiesa provvisoriamente eterna e l’architettura sovietica del San Bernardino fuori le mura, tanto transeunte da diventare inamovibile con il master plan per la piazza non più d’armi. Ma neanche di verde e passeggiate o corse libere.

La tua normalità è essere senza fiato. Perchè se guardi il paesaggio vedi nuclei industriali commissariati, ormai di proprietà della Regione, colmi di ex luoghi di produzione, e ora di uffici anonimi, commerci coatti e pranzi i più veloci possibile.

Se guardi il paesaggio hai una collina ancora bruciata, e una pineta di Roio trasformata in discarica, neanche più accogliente per farci l’amore. Che però puoi trovare gratis sul tuo computer pornografico.

E questo, mentre senti parlare di bellezza. Il passato è bello. Per definizione. Al massimo sono belle le tue pareti di casa, colorate, dopo le riparazioni.

La tua normalità è sperare di tornare al passato mentre rendi eterna la disoccupazione e il rientro dal Debito Pubblico, che ti sei impegnato a pagare in venti anni di comode rate da oltre 40 miliardi di euro all’anno. Dovrai vendertela, la bellezza, per riuscirci. Dal Colosseo al Rosone di Collemaggio, fino a Corno Piccolo. Ivi compresi tutti gli edifici della ASL a Collemaggio, di cui il Comune certifica il Progetto Strategico di Fondi Immobiliari, da realizzare con i soldi della ricostruzione e senza neanche un euro privato.

Ed è la tua normalità non capire.

Non capisci su cosa si discuta quando tutti vorrebbero ricostruire in fretta e bene, e meglio di prima. E siccome non capisci perchè si discuta, se tutti vogliono la stessa cosa, dai ragione a chi strilla di più, o alla vergine cuccia dell’arcivescovo, o a chi ti garantisce che, dentro le tue mura, quelle di casa tua, potrai sempre avere un agognato piatto di arrosticini e di pecora locale. Basta che lo voti in saecula seculorum. E basta che dica quel che vuoi sentirti dire.

E, intanto, quelli che invece capiscono bene perchè discutono, costruiscono norme sempre più tortuose e indecifrabili, foglie di fico perfette per consentire furbizie e arricchimenti svelti, in nome del normale interesse d’impresa, di capitale, di individui o di gruppi o di consorterie. Perchè è normale, che ci sia una zona rossa, “ là dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare”.

E sono normali, venti e più anni di cosiddette riforme istituzionali che, in nome di una specie di autonomia senza risorse, hanno frantumato l’idea stessa di Stato, impedendo sistematicamente ogni sguardo capace di scorrere dal locale al mondiale. Con ottomila sistemi elettorali diversi hanno reso possibile finalmente eleggere qualcuno che sta vicino a te, e che non risponde a nulla se non alla prossima scadenza elettorale.

E chi se ne fotte, se, per ricostruire una città ci vogliono venti anni come minimo; ogni cinque anni di governo, o di sindaco, o di presidente della provincia o di presidente della regione, o di parlamentare europeo, cambiamo le norme di riferimento, sapendo che le scadenze elettorali sono ad anni sfalsati, e i colori politici un po’ cambiano, e la quaresima diventa normale, per tanti. Così che, l’unica normalità possibile sia quella di chi può muovere i capitali, il più liberamente possibile, e convincerci che ogni intervento in città, purchè si taglino nastri in appalto, è vero progresso e bellezza, capace di resistere per i prossimi trecento anni. Per loro ci sarà sempre una normale continuità normativa.

Inutile far scelte economiche, politiche o sociali o urbanistiche di lungo periodo, quando nel lungo periodo saremo tutti morti. Direbbe Keynes.

Allora non è normale la gentilezza. Non è normale sorridere. Non è normale se non hai la volpe sotto l’ascella. Non è normale se non parli a nuora perchè suocera intenda. Non è normale se non sei la mamma dei cazzi degli altri e se non fai lo stesso rumore di una lima sorda.

E non è normale se rispetti un contratto o una legge, e non cerchi una raccomandazione. E non è normale chiedere la ricevuta di un pagamento o darla.

E non è neanche normale illuderti di partecipare alla vita della città che ti è stata sottratta e che ti sei un po’ lasciato sottrarre. Perchè invece è normale che la politica sia sozza.

E quanto è normale ad un giovane che abbia idee e capacità e voglia, offrire un contratto a scomparsa, di tre mesi. E se è una donna offrirle un contratto con obbligo di cena intima. Rinnovabile.

E quanto è normale il MUSP: Il Modello Unico di Scuola Precaria.

Un po’ meno normale che ci sia ancora qualcuno che pensi di essere un insegnante, e non di fare l’insegnante.

Ed è normalissimo che a lavorare ci siano macedoni, albanesi, nigeriani, marocchini, tunisini, polacchi, moldavi, rumeni. Purchè poi tornino a casa loro, e ci lascino invecchiare demograficamente tranquilli. E non ci interroghino sulle loro donne velate. O sulla voglia di tanti di loro di migliorarsi e magari mettere radici qui.

Perchè è normale che la responsabilità penale sia di razza, o di religione, e non certo personale, e soprattutto aggirabile con le prescrizioni e i processi abbreviati. Allo stato degli atti. Senza altre indagini scomode.

E’ ora di fare un po’ di conti con sé stessi. E con la propria normalità. A partire da me.

Non mi piaccio molto. Non faccio e non sono abbastanza. E non cerco giustificazioni. Troppe chiacchiere, pochi fatti. E quello che scrivo serve solo, forse, a disturbare la mia normalità.

Il mio intervento impossibile

7 ottobre 2012 alle ore 19:18

Se avessi potuto intervenire alla presentazione del Documento “L’Aquila 2030 – una strategia di sviluppo economico”, promosso dal Ministero per la Coesione Territoriale, avrei detto :

Per quel che vale il mio parere, il Documento mi appare un contributo importante di riflessione per gli strumenti che mette a disposizione della Comunità locale, in termini di analisi, e in termini di proposta.

Ma.

Il contesto cui si fa riferimento, quello della “competizione territoriale”, su scala almeno europea, è considerato un dato acquisito. Immutabile nell’orizzonte temporale scelto. Il che è assolutamente realistico. E però, se il dato saliente è quello della competizione, allora il tema reale è quello del profitto poiché  le risorse economiche si allocano lì dove sono più favorevoli le condizioni di profitto. Il che implicherebbe che, compito della Autorità Pubblica, è la costruzione delle migliori condizioni possibili perché il profitto si espanda, generando così ricchezza. A prescindere da una sua distribuzione più o meno equa, o dal benessere che può crearsi nel territorio nel quale il profitto si genera. E, nelle concrete politiche sin qui messe in campo dagli Stati, l’attenzione al profitto si sostanzia nella deregolamentazione, nella diminuzione dei diritti e dei vincoli, nell’abbattimento delle tasse, nella riduzione dello Stato e delle sue articolazioni, ad uno “Stato minimo”, talvolta in una assenza totale di democrazia.

E’ ovvio che non desidero qui fare un ragionamento più o meno profondo o pertinente su temi generali di politica economica. Mi limito a portare alle “estreme conseguenze”, un dato che nel Documento mi pare di assoluto, quanto sottaciuto rilievo. E le cui implicazioni sarebbero comunque fondamentali per una discussione su una strategia di sviluppo economico del territorio.

Se cioè la tendenza che descrivo ha un minimo di fondamento, dovrebbe realisticamente innervare tutto il Documento, e non restare sullo sfondo di un “non detto”.

Del resto, è lo stesso Documento ad evocare la necessità di un pensiero condiviso capace di superare i “cicli politici” per traguardare seriamente la ricostruzione del nostro territorio. Come se le differenze politiche dovessero essere nullificate di fronte all’altezza e all’importanza dell’obiettivo. E, persino questo, è in parte vero e necessario. Si tratterebbe semmai di esplicitare più a fondo di cosa parliamo. In termini di contesto certamente, ma anche di scelte operative pratiche. Perchè quanto il Documento propone, potrebbe essere letto anche come un invito implicito alle forze politiche, sociali ed economiche del Territorio a trovare una convergenza unitaria su uno schema di ragionamento e di intervento che, in realtà, di per sé, lascerebbe ben poco spazio a letture o pratiche di altro segno. Questo, naturalmente, a prescindere da ogni considerazione sulla  qualità della classe dirigente, e anche sulla condivisibilità o meno della necessità di un pensiero di fondo che attraversi indenne le diverse formazioni politiche chiamate a realizzarlo.

Se tuttavia volessi lasciar correre questi aspetti di fondo, e mi limitassi ad una riflessione nel merito delle analisi e delle proposte formulate nel Documento, proverei ad invertirne alcune priorità.

La questione che mi appare più rilevante è il “tempo”.

Noi abbiamo bisogno di incrociare diversi “tempi”. Mentre si procede alla ricostruzione fisica, dovremmo in essa innervare il tempo di una “riforma in senso pubblico” della città, che è la precondizione perchè sia possibile sostanziare il tempo di una strategia di sviluppo economico.

Ma, in quest’ottica, se considerassimo un “dato di fatto irreversibile” il proliferare dell’abusivismo, o la riallocazione in capannoni industriali non solo del commercio, ma persino di importanti servizi anche pubblici, sarebbe condannata alla sconfitta ogni ipotesi di possibile progresso.

E quindi, occorre agire il tempo del controllo stringente sull’oggi. In senso antisimico, di rispetto dell’ambiente e del paesaggio, di efficienza e di efficacia della burocrazia, di risparmio energetico, di dotazione infrastrutturale etc.

Il Documento parla di diversi “masterplan” che possano concorrere alla ricostruzione fisico-spaziale del Territorio, colmandone i disequilibri, quelli preesistenti al sisma, e quelli susseguenti, a partire dal Progetto C.A.S.E.

Ma il vero tempo di cui abbiamo bisogno, è quello di un nuovo Piano Regolatore Generale.  Le Istituzioni Locali dovrebbero dare il via, a partire dai Centri Storici, a tutte quelle ricostruzioni che siano coerenti con il vigente Piano Regolatore, e, contemporaneamente, aprire il cantiere di un nuovo Piano Regolatore. Che affronti il tema di una città nuova. Il tema di una città e del suo territorio, e delle relazioni con i Comuni vicini, che vogliano traguardare, appunto, il 2030.

E’ dentro il discorso del Piano, che può affrontarsi la mobilità sostenibile, il risparmio energetico e le energie alternative, l’infrastrutturazione intelligente e la gestione integrale del ciclo dei rifiuti; la tutela del paesaggio, anche rurale, e la trasformazione degli spazi interstiziali dello sprawl periferico in spazi pubblici, di servizio, o ludici o di socializzazione; la ricostruzione di nuove relazioni con le Frazioni de L’Aquila, e nuove gerarchizzazioni del Territorio che costruiscano più “Centri”, sottraendo anche così il discorso pubblico alla dittatura della rendita fondiaria. E’ dentro il discorso del Piano che si può affrontare il tema della trasformazione della rete ferroviaria in rete metropolitana che collega l’asse Est-Ovest del Territorio, con i necessari nodi trasversali del trasporto pubblico su gomma riconvertito ecologicamente;  possono così costruirsi reali percorsi di fruizione delle emergenze storico-artistiche della città e del Territorio, valorizzando anche il percorso fluviale in funzione di infrastruttura pubblica sottratta al trasporto veicolare privato. E’ dentro il discorso del Piano, che può intrecciarsi una necessaria alleanza, anche in funzione anti-speculativa, tra investimenti pubblici, investimenti delle agenzie pubbliche e capitale privato.

Penso si debba smettere di posticipare il tempo di un nuovo Piano Regolatore Generale, poiché continuare a spostare l’orologio in avanti, significa semplicemente cedere agli interventi “in deroga”, dettati da interessi privati, e rendere impossibile una riforma in senso pubblico della città e del suo territorio, e, in ultima analisi, rendere impossibile una seria strategia di sviluppo economico, rendendo reale quello che il Documento chiama uno “scenario senza intervento”, cioè uno scenario di declino irreversibile.

La vittoria sui disequilibri fisico-spaziali della città e del suo territorio, pre e post terremoto, è, di per sé, già una strategia di sviluppo economico.

Il Documento ministeriale, mi scuso della semplificazione, prefigura per L’Aquila, un futuro da “Città universitaria”, su cui investire. Mi pare però che non indaghi abbastanza su due possibili implicazioni di questa scelta. Da una parte, vi è tutto il tema del legame tra Università e Sanità, che coinvolge, indirettamente le questioni dell’Assistenza e del Welfare ( anche tenendo conto della composizione demografica del Territorio ), ma anche i possibili sviluppi in tema di Ricerca e di Tecnologie.

Dall’altra, il tema del rapporto tra Università, Ricerca e Imprese del Territorio, che, lungi dall’essere “orientato al mercato”, come il Documento presupporrebbe con grave attacco alla stessa autonomia della Ricerca e dell’Insegnamento, dovrebbe ovviamente evitare di essere collocato in torri d’avorio inaccessibili alle concrete esigenze delle Imprese.

La Città Universitaria, dovrebbe essere luogo anche di “scambi fisici” tra Ricercatori. Di comunicazione. E penso sia qui il caso di inserire un ragionamento del riuso delle caserme cittadine per campus, non per studenti, ma di residenzialità per Ricercatori, Dottorandi, Docenti, e anche Tecnici e Ingegneri, legati ai processi di Ricostruzione e alle Imprese hi-tech del Territorio.

Così come lo spazio ex-Italtel, di proprietà del Comune, potrebbe divenire uno straordinario luogo fisico di accoglienza per persone e imprese e Enti Formativi che leghino la Ricostruzione all’innovazione tecnologica, nelle comunicazioni, nell’energia, nelle tecniche costruttive e di restauro e che comunichino con l’Università anche per esperienze di incubazione d’impresa.

E’ anche su queste basi che si qualificano e nascono Servizi avanzati e imprese dedicate.

Pur se accennato dal Documento del Ministero, un altro grande tema mi pare urgente e necessario. Ed è quello del rapporto con i flussi migratori legati ai processi di ricostruzione. Questi flussi cambieranno la composizione sociale e demografica della città e del territorio. Non è qui il luogo per un ragionamento complesso sui processi di integrazione. Ma una cosa è certa: non ci si può limitare a pensare che gli immigrati possano essere la chiave per risolvere il tema dello spopolamento dei centri minori o delle frazioni. Questo significherebbe la costruzione di sostanziali ghettizazioni e separatezze, pericolosissimi per il futuro. E la questione andrebbe affrontata a partire dalle scuole. Di ogni ordine e grado, la cui ricostruzione e riallocazione è tema decisivo anche in questo senso e non possiamo permetterci di non discuterlo fino al 2030.

Resta assente dallo scenario prefigurato dal Documento il tema del rapporto tra giovani in particolare, e nuove forme di comunicazione, di arte, di cultura. Spazi non utilizzati già oggi permetterebbero, con il concorso anche delle Istituzioni Culturali presenti in città, di immaginare nuovi percorsi di accumulazione e confronto di saperi, di esperienze, di laboratori di idee. Cio’ dovrebbe riguardare ovviamente anche gli spazi pubblici da recuperare e dedicare allo sport e allo spettacolo.

Non sarebbe sufficiente un “Urban Center” per la partecipazione democratica reale ai processi di trasformazione della città e del territorio; sarebbe necessario un “Media Center”, che anche per questa via accorci le distanze con Roma, in funzione di decentramento e di scambio ad esempio.

Il Documento del Ministero per la Coesione Territoriale è un documento molto serio, da non liquidare con le mie poche parole. E propone analisi e soluzioni dotate di fondamento. E però, se si vuole davvero accompagnare il processo di ricostruzione/costruzione, il rapporto tra L’Aquila e il Governo nazionale, non può limitarsi al controllo delle risorse stanziate e ad uno stimolo “culturale”, ma deve strutturarsi in una “camera di compensazione” dei processi e delle normative, tra pari, si potrebbe quasi dire. Altrimenti quel che accadrà sarà solo la ricerca costante di sponde per affinità politiche nelle diverse stagioni e la lamentazione per le insufficienze che potranno verificarsi.

E su questo, il tema delle risorse disponibili, in particolare in una fase di crisi, resta decisivo, anche alla luce della concreta possibilità che l’Abruzzo, e l’Aquila, escano dal sistema degli aiuti europei con la prossima programmazione comunitaria. Con il che, invece di realizzare un laboratorio per un modello di ricostruzione urbana e territoriale in una zona altamente sismica del Paese, e di possibile sviluppo economico, ci ritroveremmo, da qui al 2030, davvero a diventare semplici custodi di “ruderi”.

Grazie dell’attenzione.

Alienazioni

16 ottobre 2012 alle ore 15:00

Sei infilato dentro una scatola.

La scatola può essere colorata. Oppure grigia e pesante. Può anche essere diroccata e puntellata.

Ma sei infilato dentro una scatola.

Tu non decidi per te. Ci sono altri che lo fanno, e ti sollevano dalla fatica. Qualcuno insegue i tuoi gusti e gli istinti per spiegarti cosa deve piacerti. E te lo offre pronta consegna, come se avesse letto nel fondo dei tuoi occhi. Qualcuno ti impone i gesti, i percorsi e le strade. Forse lo fa per il tuo bene. O forse lo fa per il suo profitto, che però è un bene superiore. E certe volte ti premia, quando gli cade una briciola dalla tovaglia. O quando ti lascia spiare nel suo mondo dorato. Mentre dentro di te sedimenti, come un fiume che non si ferma, che quello è il modo giusto di essere. Dalla taglia delle mutande, alla marca della pistola.

Qualcuno ti spreme il tempo.

Mentre sei confortato in automobile dalla musica, dal condizionamento dell’aria, dalla protesi telefonica. E ti rechi dalla tua quasi-casa al tuo indispensabile appuntamento con l’acquisto. Lontano, in una terra straniera di capanne cementificate industriali con le vetrine.

Mentre devi ripetere in serie i gesti del tuo lavoro efficientandoli produttivamente sotto le urla silenziose del ricatto. Mentre non ti è chiesto di comprendere quel che fai, ma solo che devi farlo. E come ti viene detto di farlo. Per pensare hai tempo. Dopo.

Mentre rincorri nomi invisibili che devono esprimere un parere sulla tua ricostruzione, o sulla tua preparazione. E il tempo diventa denaro. E anche impossibilità di vivere dentro spazi che non puoi scegliere.

Ci sono i sogni pret a porter.

La bellezza che devi avere la puoi comprare da un manifesto sulla strada. Iniettandoti abbronzature invernali e botulini estivi. O puoi comprare armi allo scopo di avere viaggi in regalo, quelli dei tuoi sogni ovvio. E poter scrivere, sulla giusta app quante città hai toccato in fuga. Tra uno scalo e l’altro mentre acquisti nei free shop una confezione di salmone thailandese. Ma, di certo, puoi anche sognare che riapra il cinema in centro. Purchè la prima proiezione sia “Gli amici del bar Margherita”.

E se sognavi di partecipare ad una discussione che decidesse del tuo qualunque futuro, puoi sempre consolarti con le classifiche della razza. Abruzzese forte e gentile, ma non operoso come l’Emiliano, certo non camorrista come fu il Campano. Sogna che il male sia solo d’importazione. E che la televisioni ti nomini quando una velina dirige l’orchestra wagner dall’auditorium del Palladio. Così sogni d’essere ancora notizia.

Quelle che il giorno dopo, servono ad incartare il pesce.

E, soprattutto, sogna una scuola migliore, che esca dal musp e torni in casa dove finalmente “ il marchesino d’alto ingegno perchè d’alto lignaggio”, abbia il giusto premio con una laurea odoris causa.

Qualcuno spiega che ti sbagli.

Mentre stendi la memoria ad asciugare accanto ai calzini. La tua memoria ti racconta la città dove non sei mai stato e quella che non avrai mai. Perchè leghi la tua memoria alle mani che camminavano accanto a te, e non al tramonto di una città già devastata e tradita. E ti annodi ad un passato che altri hanno riscritto a loro uso e consumo. E dalla memoria scacci tutte le doppiezze mentre non riconosci nulla di quel che hai intorno, recintato d’arancione cantiere. E cammini senza vedere quello che non c’è più, quello che non c’è mai stato e quello che ti raccontano sorgerà all’alba. Ma ti sbagli, comunque ti sbagli. Perchè il tuo domani qualcuno l’ha già trovato, e a te non resta che adeguarti.

Sei in una scatola. Del computer, della televisione. Di una C.A.S.A. O di una S.C.U.O.L.A o di un Ufficio di Collocamento. Sei in una scatola, alla fabbrica e nel tuo ufficio. In una Chiesa.

Il problema è che fin quando non vedi i nastrini colorati che ti legano graziosamente penserai anche che sono prigionieri. Gli altri.

Siamo tutti a termine, ma qualcuno più degli altri.

Per questo, ci dobbiamo riconoscere. E non avere più paura.

Italtel

20 ottobre 2012 alle ore 11:46

C’era un intero territorio dentro quella fabbrica.

Con tutte le sue contraddizioni, e con tutte le sue possibili potenzialità. E la sua fine ufficiale, oggi, avviene in silenzio. Come una morte dopo una lunga malattia. Una luce che si spegne su una storia di cui L’Aquila ha già perso memoria, quasi fosse una colpa di cui non si vuole pagare il prezzo.

Quella fabbrica appartiene ad un tempo in cui lo Stato interveniva nell’economia reale. Molti direbbero che era un’aberrazione. E molti ne potrebbero avere nostalgia, come di qualcosa che proteggeva dalla durezza della legge dei mercati.

Di certo, quell’intervento produsse avanzamenti tecnologici essenziali per il Paese. E produsse la possibilità che il Sud conoscesse l’industria, e L’Aquila era, e forse è ancora, Sud. Ma produsse anche sprechi e clientele. E produsse però saperi diffusi, di cui l’Italtel de L’Aquila era ricca. Saperi cui una mentalità conservatrice del territorio ha sempre impedito di fecondare nuove aziende, di aprire altre strade. E, nel contempo, in molti, produsse l’idea drammatica che bisognasse sempre aspettare soluzioni da altri, dalla politica in primo luogo.

Era una fabbrica fatta di donne, prevalentemente. Il che introduceva una novità rilevante nella società di un territorio interno e di provincia come il nostro. Una novità non sempre ben digerita in una città che si autorappresentava quasi aristocraticamente.

Il peso numerico dell’occupazione in quella fabbrica, per un territorio come L’Aquila, era di assoluto rilievo, tanto che si potrebbe dire che ben poche famiglie non avessero un parente all’interno di quei cancelli. Ma questo, salvo rarissimi momenti, non significò mai una piena compenetrazione tra fabbrica e territorio. Anzi. La fabbrica era e restò per lungo tempo un corpo estraneo e perturbatore. Perchè consentì un reale progresso sociale per molte e per molti, inviso a una parte importante della città, e una diffusione di ricchezza che la politica cittadina usò in larga misura non per accrescere e modificare la propria cultura, ma per giustificare processi di inurbamento selvaggio e speculazione edilizia diffusa. Tenendo sempre, il più possibile, ai margini, la diretta rappresentanza di quel mondo del lavoro. Eppure, in quell’azienda, si diffondeva, grazie anche alla contrattazione sindacale, una cultura diversa del lavoro, e della crescita professionale. Le cui competenze, oggi, sono in larga parte disperse e bruciate.

La stagione decisiva fu quella dei primi anni ’90. Quando, quasi come in una perfetta sceneggiatura da film, mentre a Roma il gruppo dirigente Italtel illustrava alla delegazione sindacale nazionale i piani industriali triennali dell’azienda ( triennali ! ), arrivava la notizia, tramite i primi telefonini, che persino il Ministro della Giustizia, Claudio Martelli, era stato raggiunto da avviso di garanzia per corruzione. Quando il Paese, di fronte ad una crisi pesante del debito pubblico e dell’inflazione, e con la scelta da compiere di entrare o meno nel gruppo di testa che avrebbe costituito l’Unione Europea, scelse di privatizzare quasi tutto il proprio apparato industriale pubblico. Ma con una pura logica di cassa. Di svendita. Proprio come oggi si guarda al patrimonio immobiliare, paesaggistico, d’arte, pubblico, come strumento per ripianare le casse dello Stato. Fu un processo di dissennato impoverimento in realtà, compiuto da una classe politica debole, impaurita, sotto ricatto della criminalità organizzata e di oscure trame, che ritorna oggi, sotto vesti ancora più radicali e drammatiche. Mentre gli ultimi operai di quella che un tempo era l’Italtel, vengono licenziati nel silenzio del terremoto e degli imperativi di un mercato globalizzato, senza alcun freno.

Un mercato che non ha prodotto, in questi ultimi venti anni, maggiori ricchezze e opportunità per i cittadini italiani e aquilani. Ma perdita di diritti, spreco di saperi, divaricazione maggiore tra ricchi e poveri, minore eguaglianza, costi umani altissimi. E anche spreco di risorse pubbliche. Perchè venti anni di ammortizzatori sociali non sono venti anni di investimenti per il futuro. Ma solo il modo con il quale è stato chiesto al Sindacato e ai Lavoratori, di tacere. Di gestire le conseguenze di fatti economici di cui non è mai stato realmente possibile discutere la radice.

Ecco l’unica grande responsabilità della politica. Quella di essersi consegnata mani e piedi ad una impossibilità di discussione di un paradigma economico. Per questo, negli anni, ho sempre considerato le manifestazioni fatte davanti a Regione o Comune, o persino davanti ai Ministeri poco più che il sussulto di una impotenza. Mai in grado di chiedere e di aspettarsi risposte che fossero realmente capaci di restituire un futuro alla cultura industriale dispersa della nostra città. Anche quando le organizzavo io, insieme ad altri, quelle manifestazioni.

E forse è anche per questo che oggi, questa fine burocratica di quella esperienza industriale mi brucia di più. Perchè la nostra città forse non ha mai compreso fino in fondo quale tesoro di potenzialità sociali, economiche, politiche, industriali, culturali, umane fosse quella fabbrica. E forse non lo hanno compreso neanche tanti di quei Lavoratori e di quelle Lavoratrici che un costume distorto aveva deresponsabilizzato. E di cui restano oggi pochi invisibili. “Esodati”, consegnati ad un limbo di inutilità da anni di cassa integrazione senza speranza e da una criminale riforma del sistema pensionistico.

Mi brucia il silenzio. E mi fa rabbia l’assenza di prospettive e di discussione.

La città conserva ancora un luogo fisico. Quel luogo fisico. E per quanto possibile dovrebbe sentire il dovere, urgente, di lavorare perchè quel luogo sia ancora una possibilità per i nostri giovani. Per i nostri saperi. Senza facili speculazioni o scelte avventurose. Ma con serietà. Sapendo di confrontarsi con un mondo e con un’economia profondamente cambiati. Sapendo che il tempo dell’assistenza è finito. Soprattutto gli imprenditori dovrebbero saperlo. E il sistema bancario del territorio, le sue Fondazioni, che potrebbero dare un serio impulso a nuove strumentazioni di sostegno perchè quel luogo non sia il cimitero che è oggi. Ma qualcosa di vivo e pulsante.

Non ho nostalgie del passato. Non voglio puntare il dito su responsabilità di altri, e, per quanto minori, mi assumo anche le mie. E non penso certo con queste poche righe di aver esaurito un tema così ampio e complesso. Ma perchè la fine silenziosa di oggi, meritevole solo di stanche righe di qualche comunicato stampa, sia compresa sino in fondo e possa essere stimolo per una ricostruzione reale della città e del suo territorio, per questo ho scritto. Per questo vorrei che la città discutesse e coinvolgesse ogni sua rappresentanza politica e istituzionale, e imprenditoriale e sociale. Perchè questa non dovrebbe essere materia di campagna elettorale, ma impegno vero di una comunità per il proprio futuro.

Lettera a Luigi tra dieci anni.

19 novembre 2012 alle ore 18:56

Caro Luigi,

forse oggi ti starai chiedendo dov’eri il 25 novembre di dieci anni fa. Avevi quarantotto anni allora, e ti stavi scrivendo questa lettera. Hai pensato di scrivertela perché così avresti potuto capire, a distanza di tempo, quando la memoria magari perde dettagli importanti, o magari tutta la bussola, il perché di una tua particolare scelta. Certo, auspicando che tra dieci anni tu sia ancora qui a calpestare questa terra, e che tra dieci anni, appunto, tu possa conservare una qualche curiosità sul te stesso del passato.

Devi sapere che, il 25 novembre del 2012, con grande personale sofferenza, non sei andato a votare per le Primarie del CentroSinistra. Col tempo, magari, avrai trovato ottime motivazioni per confermare la tua scelta di allora, o forse, avrai avuto modo di pentirtene amaramente. Per questo, mi pare giusto, oggi, mentre la tua scelta ancora ti brucia dentro, provare a spiegartela.

Per arrivare a questa scelta, ti sei posto una prima domanda. Ti sei chiesto cioè, se, nonostante tutte le differenze di opinione, o di idee, o di scelte concretamente effettuate dai partiti che danno vita oggi a quelle elezioni, tu avresti dovuto comunque andare a votare.  In nome, ad esempio,  di una storia in parte comune, o di una appartenenza ad una parte politica comune, che potremmo genericamente definire “progressista”.  Oppure  in nome di una superiore necessità politica derivante, o dal voler dare una più ampia base popolare possibile di partecipazione democratica al processo delle Primarie, e/o dal voler influire anche tu, nel tuo piccolo, a quello stesso processo per dargli esiti il più possibile vicino alle tue priorità. Ci hai pensato molto, voglio rassicurarti. E hai scelto di non andare a votare.

Hai pensato che, stavolta, al contrario di tante altre volte, l’argomento di una “superiore necessità politica, in nome di fini ultimi condivisibili”, era per te un argomento senza più alcun rapporto con la realtà. Soprattutto, era un argomento divenuto per te, soggettivamente, inaccettabile. Sei stato presuntuoso, quindi, devi saperlo. Nella tua scelta ha prevalso un orientamento che è stato innanzitutto di tipo individuale, , ma che, scavando, avevi la sensazione fosse in realtà frutto di una particolare sensibilità che magari era anche di altri e non solo tua. Te lo dirà il tempo, se avevi ragione o torto. Ma tu hai pensato che il rifiuto di partecipare fosse, insieme, una determinazione individuale, maturata nel chiuso dei tuoi pensieri, e anche un gesto di rappresentanza. La rappresentanza cioè di un insieme di altre persone e sensibilità che pensano che questo modo di fare politica, per quanto spesso colmo di generosità, sacrificio, intelligenza, scelga strumenti e fini ormai sbagliati.

Ti racconto una storia, per provare a chiarirti questo punto.

Si era a metà degli anni ’90. E in una riunione, il deputato del tuo territorio di allora, L’Aquila, sosteneva che bisognasse andare a votare positivamente al referendum che aboliva il sistema elettorale proporzionale, con la motivazione che, un sistema maggioritario, avrebbe consentito di scegliere direttamente, da parte dei cittadini la loro rappresentanza, e che proprio in forza di questa scelta diretta si sarebbero rafforzati i processi di controllo, da parte dei cittadini nei confronti dell’eletto, e anche i processi partecipazione democratica, visto che ogni cittadino sarebbe stato coinvolto nella scelta dei candidati.

Tu votasti contro quel sistema elettorale maggioritario.

Temevi che la politica sarebbe divenuta troppo personalizzata; che dalla possibilità di essere eletti sarebbero stati espulsi quelli che non avevano le risorse economiche per fare la campagna elettorale; temevi che la rappresentanza politica sarebbe stata impedita a minoranze anche consistenti e importanti per il Paese, con grave danno per la Democrazia, che sarebbe divenuta a quel punto solo il terreno di conquista per chi, meglio, avrebbe saputo vendere il proprio prodotto di largo consumo, non necessariamente il migliore.

Che cosa sia accaduto di quelle affermazioni puoi scoprirlo, se te lo sei dimenticato, leggendo le cronache italiane 1994-2012, e potrai così scoprire la differenza tra la parola “propaganda”, e la parola “politica”.

La scelta di quel tempo, in fondo, è la stessa che stai facendo oggi.

Le Primarie, sono certamente un bellissimo sistema di partecipazione democratica. Ma sono un sistema che, per sua natura, personalizza la politica, stempera le idee, rendendole in qualche misura persino inutili, dentro il confronto tra personalità e tecniche di comunicazione e di mobilitazione.

Voglio, ancora una volta rassicurarti. Ti sei anche posto una seconda domanda. Se, cioè, la scelta dello strumento delle Primarie, non sia una scelta che interpreti correttamente lo “spirito dei tempi”, se cioè non sia una scelta che è esattamente interprete delle volontà di un elettorato, di una base popolare, del Paese, complessivamente, che chiede di decidere direttamente, non fidandosi per nulla di un sistema-partito, o di un sistema dei partiti le cui mediazioni o processi di selezione interni troppe volte hanno dato prova di sordità alle domande del Paese, o vengano condizionati da logiche che nulla hanno a che vedere con la scelta dei “migliori”, ma solo con la scelte dei più “potenti” dentro un ambito ristretto. Più potenti, magari perché meglio di altri in grado di manovrare le leve clientelari del potere anche all’interno di un singolo partito o di una coalizione di partiti.

Qui, per te, è entrata in gioco una questione molto di merito. Per quanto possa sembrare ancora di metodo. Una questione che ti ha fatto pensare che, ammesso sia questo lo “spirito dei tempi”, esso andava contrastato, e non favorito.

La scelta di uno strumento, dovrebbe essere coerente con la scelta dei fini che si vogliono raggiungere con quello strumento. Quindi la scelta di uno strumento, apparentemente di “democrazia diretta”, chiama in causa la forma stessa della Democrazia di questo Paese. E ne prefigura una evoluzione, che oggi, non ti piace. Magari tra dieci anni avrai cambiato idea.

Vedi Luigi, nel momento in cui ti scrivo, la Costituzione della Repubblica, è ancora quella del 1948, per fortuna. Quella Costituzione, prevede un forte equilibrio dei poteri. Tra potere Legislativo, Esecutivo, e Giudiziario. E non immaginava nessuno di quei poteri “personalizzato”. Incarnato cioè da una singola persona votata dal popolo. Perché sapeva, quella Costituzione, che questo avrebbe significato inevitabilmente, persino al di là delle singole volontà, uno squilibrio dei poteri, modificandone le fonti di legittimazione. E non voleva correre questo rischio. Per il bene dell’Italia, appena uscita da una dittatura, e che avrebbe corso il medesimo rischio con Berlusconi. D’altra parte Luigi, non sono forse le stesse forze politiche che oggi organizzano le Primarie, ad aver difeso, più o meno bene lasciamo perdere questa valutazione ora, in nome della Democrazia, e dell’equilibrio dei poteri, l’Italia, dai ripetuti e sconvolgenti tentativi di torsione autoritaria che Berlusconi ha provato a dare durante tutto l’arco della sua esperienza politica ?

Allora, non è che se una cosa la faccio io che sono buono e giusto, di per sé quella cosa è buona e giusta. Una politica avveduta, che non pensi prima a costruire una nuova ed equilibrata architettura statuale, anche comprendendo nuovi eventuali poteri o forme di legittimazione diverse per i singoli poteri dello Stato, non si balocca come un apprendista stregone con qualcosa che sottende, di per sé, un’altra idea di Stato, potenzialmente più autoritaria di quella che fino ad oggi hai vissuto. Potenzialmente più autoritaria perché personalizzata, direttamente scelta dal popolo. Sciolta quindi dalle necessarie mediazioni, con altri soggetti politici o con i corpi intermedi dello Stato, dalle Associazioni ai Sindacati, nessuno dei quali oggi, incredibilmente caro Luigi futuro, su questo dice nulla. Ma cosa diranno i corpi intermedi quando magari di fronte a scelte difficili, il nuovo Capo dell’Esecutivo, legittimato a partire da un voto diretto del suo elettorato, dirà che sono soltanto le sue idee ad essere quelle giuste perché il popolo, comunque una parte importante di esso, lo ha delegato a governare, se oggi tacciono ?

Questo, caro Luigi, è uno di quei casi in la forma ti appare sostanza. E, naturalmente, speri di sbagliarti. Saranno i dieci anni passati tra quando hai scritto questa lettera, e quando la leggerai, a risponderti, oggi hai scelto un “principio di precauzione”, come quello che senti quando vai a fare la spesa al supermercato, con la voce dell’altoparlante che ti dice che non troverai in vendita prodotti geneticamente modificati, non perché si sia contrari alla ricerca scientifica, ma perché non si hanno sufficienti elementi per capire se un prodotto geneticamente modificato possa far male o meno alla salute. Nel dubbio, meglio prevenire.

A questo punto, Luigi, ti ricordo che c’erano anche tante questioni di merito che ti impedivano di andare a votare alle Primarie.

Le Primarie si svolsero sulla base di una “Carta d’Intenti”, sottoscritta, si dice, da tutti i candidati ( anche se su questo, all’epoca, tu manifestavi qualche dubbio, viste le parole dei candidati stessi, in più occasioni contraddittorie con quel Documento ).

La Carta d’Intenti, aveva un nome bellissimo “Italia Bene Comune”, ed era un Documento interessante, nonostante la forzata sinteticità.

Però diceva delle cose importanti che non ti piacevano, e ne ometteva altre che per te invece sarebbero state essenziali. Per esempio, la Carta assumeva come fondamentale l’impegno di tutti a rispettare e difendere gli impegni assunti a quell’epoca, oggi cioè, mentre ti scrivo, con l’Europa. Impegni, bada bene, assunti da un Governo di cui il CentroSinistra non faceva parte ma di cui aveva votato tutti i provvedimenti.

Impegni fondati sulla necessità di abbattere il Debito Pubblico dell’Italia, corroborati dal vincolo costituzionale, recentemente introdotto, al pareggio di Bilancio, vincolo in via di estensione a tutti gli Enti Locali. Tu, Luigi, pensavi allora, cioè oggi, che di fronte a un impegno vincolato di questa natura, non vi sarebbe stata sostanziale differenza tra chi fosse chiamato alla guida del Paese. Pensavi cioè che le politiche economiche praticabili sarebbero state strutturalmente simili, chiunque fosse andato al Governo. Simili e ingiuste. Non perché non si dovesse rientrare dal Debito Pubblico, ma perché, nei fatti, questa scelta era come mettere le mutande alla Storia. E poco importava se nella Carta c’era un generico auspicio a costruire un’Europa politica migliore. Una forza di CentroSinistra non può decidere, nella Costituzione del proprio Paese, che si può dare il premio Nobel per l’Economia solo a teorici monetaristi. Gli stessi che hanno ispirato le idee e le concrete politiche di chi ha materialmente prodotto la drammatica Crisi che stiamo vivendo dal 2008 e che spero che quando mi leggerai tra dieci anni sia finita. Non te la faccio lunga su questo, che meriterebbe ben altro approfondimento, solo perché spero che tra dieci anni avrai conservato una idea di politica economica decente e realistica; se non fosse così, ti chiedo scusa sin d’ora e ti chiedo di rileggere qualcuno dei tuoi vecchi libri di oggi per capire cosa pensavi.

Direttamente discendente da questo punto vi è la questione, largamente omessa in quel Documento, relativa al cosiddetto “modello di sviluppo”. Tu, Luigi, pensavi che, la Demografia, la Crisi Economica, la Questione Ambientale, la Questione Democratica, dei Diritti e della Pace nel mondo, fossero tutte facce dello stesso prisma. Collegate tra loro inscindibilmente, e che da una risposta in positivo a questi temi, dipendesse la stessa sopravvivenza della specie umana. Eri un po’ apocalittico dieci anni fa caro Luigi, e se mi stai leggendo, magari, per fortuna, ti sbagliavi. Pensavi che fossimo già in ritardo nello scegliere di cambiare completamente il modo di produzione del Pianeta, come unico scampo alla distruzione. E che da questo discendessero una serie di scelte fondamentali. E pensavi che accollarsi questo tipo di questioni fosse necessario, anche nelle Primarie, che pure si disputavano invece sulla “rottamazione”, o sulla “responsabilità”, o sulla “omosessualita’”, o sulla “competitività”… Eri anche un po’ massimalista all’epoca, Luigi.

E poi, per fare tutto quel che c’era scritto sulla Carta d’Intenti, chi si candidava alle Primarie, si vincolava a “promuovere un accordo di legislatura con le forze del “Centro Liberale” del nostro Paese”. Facevi moltissima fatica, all’epoca Luigi a individuare in Italia “forze del Centro Liberale”. In un panorama politico pieno di forze di destra reazionaria, talvolta esplicitamente razzista, confessionale per convenienza, collusa non episodicamente con varie forme di criminalità organizzata. Propugnatrice di politiche ingiuste, prone ai voleri del potere temporale della Chiesa. Di Liberale trovavi molto poco, ammesso che Liberale fosse migliore di una “Sinistra”, finalmente non più legata all’esperienza storica del Comunismo, lo pensavi già allora Luigi, sulla scorta di quel che diceva Hobsbawm, il tuo storico preferito, che sosteneva, da marxista, che la concreta esperienza storica del Comunismo fosse proponibile solo in tempo di guerra.

E, infine, Luigi, un’ultima cosa. Tu vivevi a L’Aquila, colpita dal terremoto del 6 aprile 2009. E sentivi nella carne l’esistenza di una “questione urbana”, fondamentale. Non solo riguardante la ricostruzione della tua città di allora. Ma proprio di carattere generale. Legata a forme di convivenza civile profondamente diversa da quella che concretamente vivevi. Una forma di Città che mettesse al centro la tutela dell’ambiente, il risparmio energetico, la riqualificazione del paesaggio, la mobilità pubblica invece di quella privata. Una forma di città che riempisse di piazze il vuoto sociale, che cercasse nella Scuola, nell’Università, nella Cultura, le forme della propria sfida positiva al futuro. Una forma di città che prescindesse dal consumo, a partire da quello di suolo e di risorse naturali, e investisse invece sulla propria bellezza e sicurezza, sulla propria “apertura”, anche all’altro.

E di tutto questo, e anche d’altro, purtroppo, Luigi, in quella Carta d’Intenti, non c’era quasi traccia. Mentre tu pensavi che proprio dalle forme del vivere urbano, dipendessero lo sviluppo e le possibilità di un territorio e della sua popolazione, dell’Italia tutta. Ma, magari, eri solo un po’ illuso Luigi.

Ciao, Luigi, spero tanto che quello che ti ho scritto oggi sia, tra dieci anni, solo un ricordo minore della vita, perché, nel frattempo, la Bellezza di una musica, o di una Giustizia avrà finalmente vinto su tutta la linea. E l’Italia avrà anche abrogato il Segreto di Stato, avrà smesso di essere Proibizionista, avrà consentito ai suoi Cittadini di avere Diritti di Libertà, sulla propria vita e sul proprio destino individuale, e Diritti di Cittadinanza aperti e guarderà alle proprie Donne come ad una ricchezza e non come ad una copertina seminuda. E ti ricordo Luigi, il grande rispetto che avevi il 25 novembre 2012 per quasi tutti, quei tantissimi che avrebbero lavorato volontariamente per le Primarie, e per quasi tutti quelli che sarebbero andati a votare.

La citta’ visibile

21 dicembre 2012 alle ore 14:55

La città comincia quando l’autostrada che viene da Roma si avvia verso la Galleria di San Rocco. Se, mentre stai guidando, ti concedi un rapido sguardo, in alto a sinistra, ti accorgi che il cielo è solcato da due falchi. Volano lì, a guardare dal cielo le nostre scatolette di latta che vanno veloci in curva.

La città si aggrappa al cielo, prima di infilarsi dentro un lungo tunnel oscuro.

Se sei sufficientemente fortunato, la città la ritrovi lungo il greto colmo di acqua piovana di un torrente sempre secco, che attraversa il cosiddetto nucleo industriale di Pile. Dove industrie, quasi, non ne sono rimaste più. Sugli argini del torrente, hanno tagliato tutti gli alberi, forse perché impedivano la visuale delle insegne commerciali, ma, sotto, se guardi bene, sulla superficie dell’acqua fangosa, nuotano i germani reali, che luccicano del verde smeraldo delle piume del collo, al sole.

Guardinghi, attenti ad ogni movimento brusco. Come clandestini che respirano su una spiaggia dopo la mareggiata. Pronti a scappare.

C’è ancora un tunnel oscuro, quello della Mausonia, che, se vuoi, ti riporta verso la città. Alla tua destra, in alto, vedi le sagome dei palazzi di via XX Settembre. Sventrate di mura. Con la vegetazione che, dal basso, cerca di riappropriarsi della collina, come se fosse possibile restituire verginità alla terra violata.

E, superato il ponte del fiume, cominci a comprendere come fosse, l’idea di città. Roccia e terra si alzano verso il cielo, a sbarrare l’orizzonte dello sguardo, come se l’acqua del fiume, e quella che sgorga dalla terra, e si versa nelle novantanove cannelle, più una nascosta, avessero innaffiato una umana idea di scalata al cielo. Le mura della città fanno da scudo alle domestiche faccende di lavandaie e giovanotti che le spiano. E sembrano crescere direttamente dalla pietra, costeggiata da una assurda strada asfaltata che le taglia a metà. E pensi che, prima, tra la ferrovia e la strada, qualcuno ci aveva persino edificato un palazzo, nell’indifferenza generale. Perché ogni volta che le mani degli aquilani sono intervenute a riempire gli spazi vuoti tra la storia e la natura, hanno solo sporcato. Come se fosse una condanna al peggio, al peggio che non ha mai fine.

L’idea di accompagnare lo sguardo, dal basso verso la cima di Corno Grande, la capisci quando arrivi in stazione. quella bombardata il giorno dell’Immacolata del 1943. Se scendi dal treno, e guardi di fronte a te, vedi le mura e la porta. E i contrafforti che salgono lungo il fianco della collina, aggiungendo umana difesa alla difesa naturale. Mentre invece, se lo sguardo lo sposti alla tua sinistra, quella che doveva essere una zona artigianale, e di campi agricoli lungo il fiume, è solo una sfatta frittata di capannoni senza industrie, bar e abitazioni, costruite in buona parte sotto il livello del fiume, e allagate ad ogni pioggia. Almeno i primitivi, edificavano palafitte. Che forse non sarebbero crollate neanche col terremoto.

Dietro le mura, che avrebbero dovuto coprire la vista delle umane arti e mestieri, lasciando solo il cielo, da guardare oltre la loro sommità, si ergono invece palazzi bombardati, crivellati di proiettili da Beirut, colmi di vittime. Scarnificati dal tempo come ossa nel deserto.

E continua, l’abbraccio delle mura alla collina. Spezzato però da via XX Settembre e da viale Corrado IV, che invece d’essere un ingresso trionfale dentro la città, s’è trasformato con gli anni in un cafarnao di ferri, d’asfalto tumefatto, di grumi d’erbacce che segnano il confine tra il cemento e una miriade di ingressi a negozi e centri commerciali, che non puoi percorrere a piedi passeggiando nel sole o nella neve, ma solo agguantare, inscatolato e rabbioso alla ricerca di un parcheggio, lungo una retta segmentata da Piazza d’Armi, sino alla rotonda dell’Aquilone. La topografia è diventata marketing e solitudine incoerente.

E lo cerchi, ancora, quell’abbraccio, lungo il gomito d’asfalto che congiunge viale XXV Aprile e Viale della Croce Rossa. Tra parcheggi privatamente abusivi, e abusi edilizi sanati, pronti ad essere riabusati e sbarre di passaggio a livello in attesa di autorizzazione fittizia. Ma è dietro le mura, quasi sbriciolate, che, invece di incominciare ad intravvedere la neve delle montagne, lo sguardo si spacca sugli sbreghi della pietra mal cementata, scossa dal profondo, che ha lasciato i palazzi come carcasse agli avvoltoi e finestre buie di giorno. Occhi spenti.

Vorresti un sentiero d’erba, per percorrere le mura dal basso, che ti veglino come un padre i primi passi del figlio. E non puoi.

Perché il viale della Croce Rossa è una verminosa distesa di bandoni lamierati, di pareti di legno e plastica, di benzina che non esplode, di tetti sputati su pareti cavernose. E sai che, tanti, in quel terrificante inquinamento dello sguardo, ci si guadagnano onestamente da vivere. E sai che tanti pagano affitti pazzeschi al proprietario della terra, moderno usuraio senza faccia. E non hai un orologio che porti il tempo in avanti, fino alla bonifica totale del luogo, alla sua restituzione al lento e umano passo di due mani intrecciate, tra alberi erba e fiori, e l’ombra delle mura, lassù in alto come un soffitto bordato di affreschi. Che porti il tempo fino alla rilocalizzazione di tutte, tutte tuttissime, quelle attività di sopravvivenza commerciale, altrove, in un luogo meno sventrato da una sovrana indifferenza a tutto, tranne che al denaro che non puzza mai, maledizione non puzza mai.

La città vorresti ritrovarla a Santa Barbara, tra gatti neri e pelosi e liberi, in uno dei pochi quartieri di espansione post-bellica “pensati”. Persino con il Centro Sociale, un tempo, e con l’asilo poi, che aveva terminato i lavori di ristrutturazione il trentuno marzo duemilaenove. E gli alberi tra le case, e qualcosa che assomigliava a piccole piazze che davano aria. Con un disegno unico dei palazzi, come piccole comari che ogni mattina si salutavano sull’uscio, e che ora, ora che è tutto da ricostruire, ognuno farà come gli pare, e non sarà come fare l’amore ognuno come gli va’, e i preti, invece di sposarsi, ma solo ad una certa età, potranno solo vergognarsi della chiesa rimovibile perenne, già inclusa nel definitivo masterplan di Piazza d’Armi, che, insieme agli alloggi della Guardia di Finanza, è una delle trovate più deturpanti degli ultimi anni. Come se i nostri anni non abbiano alcun diritto ad abbracciare con lo sguardo il cielo, e le umane mura e gli alberi e la terra, ma solo artificiali contenitori di un nulla telegenico. Più o meno.

La città che dall’acqua innerva le rocce di mura e porte, e ha scacciato negli anfratti il suo popolo che avrebbe bisogno di camminare a piedi nudi sulla terra, guardando la neve che sogna il cielo, a questa città auguro di finire l’anno, e di nascere.

Auguro di avere lo sguardo di un falco che racchiude l’azzurro dentro le sue ali, e i colori di un germano reale, e la leggerezza di un gatto gentile con gli artigli affilati.

Auguro di ripulirsi dalle erbacce e di abbracciare il sudore della fatica che costruisce. E di dimenticarsi di inesistenti gloriosi passati perché il futuro lo vogliamo migliore del presente. Semplicemente.

Mi creda

26 gennaio 2013 alle ore 10:07

Eh, sì. Sono io.

Sono Pasquale Piscialetta. Nato a L’Aquila il 29 febbraio 1952.

Sì, sono io. E, di mestiere, faccio il libero professionista, consulente. Io fornisco consulenze su tanti problemi e risolvo questioni . Sono conosciuto, e stimato, anche se non ho biglietti da visita. Il mio lavoro va fatto con discrezione, e io sono parecchio discreto. Sono domiciliato a Vaduz, perché io sono aquilano, però europeo, e l’Europa è densa di possibilità, e un consulente come me è molto ricercato. Sì. Avevo una casa a L’Aquila, in via dell’Arcivescovado. E si è rovinata tutta. L’avevo ereditata dalla povera mammetta. Eh, la mia mammetta è morta a novantatre anni, e mi ha lasciato quella bella casa in centro. Sa, lei voleva stare da sola, pure se non camminava più e io rispettavo la sua volontà, per carità. Non è che andassi spesso a trovarla, sa, il lavoro. Però ci sentivamo al telefono, almeno una volta al mese, anche se lei era sorda. E per fortuna che se ne è andata, a un certo punto. Sa, la sofferenza non dovrebbe durare tanto. Mi ha lasciato la casa, bella, in centro, e io l’avevo affittata a due studenti, che per fortuna non c’erano a casa il sei aprile duemilanove. Erano in vacanza, prima di Pasqua. Il problema è che erano in affitto da poco, e non avevo ancora registrato il contratto, sa com’è, e ci ho perso un paio di mesi d’affitto che ancora non me li pagavano. Adesso sto vedendo se la casa la posso cedere, con la sostituzione edilizia, al Comune. Sa, quella prevista dalle Ordinanze. Però mi devono fare una valutazione seria. Casa signorile in centro. Mica gliela posso lasciare ai trecentomila euro che mi hanno proposto. Devo proprio parlare con quel mio fratello dirigente. Non è proprio proprio mio fratello: è un “fratello”, non so se mi spiego. E’ una prima casa poi eh ! Perché io ero residente li, per l’anagrafe, e non ho altre case intestate. Per questo mi avete trovato al MAP a Preturo. Che poi non ho capito le bollette che mi sono arrivate adesso, che io li dentro non ho mai consumato niente. Tranne quando scaldavo un po’ casa per quelle due amiche brasiliane che, ogni tanto ci andavano con i loro amici a far festa. Tutto legale, eh ! Quelli erano amici, amici veri, e ogni volta mi lasciavano pure un po’ di soldi per il disturbo. Per rimettere a posto, sa ? Io c’avevo le mie spese, per pulire tutto. Certo, erano discrete, e tanto care. Pensi che mi mandavano sul cellulare le foto delle feste. Anche quando stavo al funerale di un mio carissimo amico, che cercavo di piangere, e mi arrivavano le loro foto. Eh, le foto fanno memoria ! Cementano l’amicizia. Sono così carine quelle due. E io le conservo le foto, sempre.

Ecco, quindi. Prima del terremoto io avevo a L’Aquila questa bella agenzia di consulenze. Sa, terreni, case, fabbricati industriali. E mi arriva un giorno questo signore di Alessandria. Mai visto prima, eh ! Che mi spiega che si sta comprando un’azienda qui a L’Aquila, di proprietà delle Partecipazioni Statali. E mi spiega anche che, però, ha anche dei problemi finanziari con le sue aziende su in Piemonte.

Allora io mi prendo il dossier e ci studio un po’ su. Mi ci è voluto , per capire bene cosa fare. Però lo studio rende liberi, eh !? Quindi lo convoco, e gli spiego il sistema.

Lui allora acquisisce la proprietà dell’azienda. Poi cede, “ nummo uno ”, a un euro, per capirci, il capannone industriale ad una società immobiliare svizzera, in cui è presente suo padre nel Consiglio d’Amministrazione. E questa società, a sua volta, cede il capannone industriale in leasing finanziario ad una società lombarda di proprietà della famiglia, che a sua volta, affitta il capannone all’azienda aquilana diventata di loro proprietà, così, immediatamente, gli entrano un po’ di soldi freschi in famiglia. E poi basta vendere un po’ di prodotti dell’azienda aquilana alle sue aziende del nord. Così le aziende del nord li possono commercializzare e incassare il guadagno netto, e quella aquilana iscrive il venduto a bilancio sotto la voce dei crediti inesigibili. Ho forse colpa io se poi l’azienda aquilana è fallita ? Bastava che riuscisse ad allargare il giro di mercato, e alimentava tutto il sistema. Non ce l’ha fatta, e pace. Era tutto legale, eh ! Tutto scritto sui bilanci depositati in Camera di Commercio a L’Aquila in corso Vittorio Emanuele. Bastava che uno se li leggesse i bilanci, anche se un aiuto con la depenalizzazione del falso ce lo hanno pure dato. E poi, pensi, ho saputo, per certo, che il Prefetto dell’epoca, a chi gli chiedeva cosa succedesse in quell’azienda che stava andando a gambe per l’aria, rispondeva che mica si poteva chiedere ragione di certe politiche di bilancio. Gli imprenditori del Nord, si sa, sono un po’ gelosi della loro autonomia. Non sta bene fare certe domande. Eh, sì ! L’Aquila non è fortunata coi prefetti. Chi cuor di leone, chi cuor di iena.

E io mica c’entro qualcosa poi con il fatto che dal fallimento il capannone industriale se lo è comprato qualcuno, non so come, e poi lo hanno affittato all’Università. Certo, come affare è stato ottimo. Vendere e comprare e affittare, da privati, qualcosa che era stato costruito con i soldi pubblici. Tutto legale eh ! Però è così che si trasforma l’economia industriale in economia finanziaria. Scompaiono gli stipendi di chi lavora, eh, vabbè. Però i soldi girano, l’economia pure. Qualcuno è ricco ed è rimasto ricco, qualcuno lavorava ed è rimasto povero. E’ la vita. Oggi a te, e domani pure. Il cemento funziona sempre come affare, mi ascolti.

Si figuri il cemento ! Ce li portavo io gli imprenditori del cemento a fare la fila dal Sottosegretario. Alla sfilata del perdono. C’era una processione dentro la processione. Sì, proprio lui, quello sposato, che però lo sanno tutti, che c’ha l’amico. Ora io dico, non sono razzista, eh ! Ma lei sa, se uno vede un ragazzo e una ragazza che si baciano per strada, uno l’occhio a lei ce lo butta, soprattutto se lei è una bella fregna, con rispetto parlando. Ma se lo immagini se vede due uomini in strada che si baciano. Non si può vedere, dai ! Se stanno a casa loro sono liberi di fare quello che vogliono, per carità, pure se è contro natura. Ma in pubblico no. E mica sono razzista io, lo sottolineo. Però da quel Sottosegretario ce li portavo sì. E il perché è semplice. Avevano bisogno di lavorare. Io aiuto. Se lei lo trova, c’è un bellissimo libro, grosso, tutto pieno di fotografie e di storie e di scritte, e di tabelle coi costi del Progetto C.A.S.E. Lo hanno realizzato le imprese che hanno vinto gli appalti del Progetto C.A.S.E. Insieme con la protezione Civile. Però poi, se lei va sul sito della Protezione Civile, ci sono altre tabelle coi costi sostenuti, che stanno scritte piccole piccole. E mica sono uguali i costi, rispetto a quelli del libro. Questo non significa niente, per carità. Magari è la stessa differenza che c’è tra un detersivo che lava bianco che più bianco non si può, secondo la pubblicità, e il bucato che ti fai a casa con quel detersivo, che poi non è proprio bianco bianco, ma la colpa è del calcare dell’acqua, no ? Ed è la stessa differenza che c’è tra raccontare tutta la verità a un bambino, e dirgli qualche piccola bugia per il suo bene, no ?

E poi, se mi permette, adesso basta con queste storie del terremoto. Che mi sono stancato pure io di sentirle e raccontarle. Ormai stiamo oltre no ? Dobbiamo pensare al futuro e metterci una bella pietra sopra. Tanto, già chi se lo ricorda più quello che è successo davvero ? La memoria in certi casi, aiuta, in altri, pesa e non serve. Impedisce il movimento. E poi, come si dice ? Chi muore giace, e chi vive si da’ pace.

  • Ha finito ? “

  • Sì “

  • Avvocato, lei ha niente da aggiungere, a quanto detto dal suo cliente ? “

  • No “.

  • Allora, Signor Piscialetta, firmi il verbale di – Dichiarazioni spontanee di imputato in reato connesso – “

  • Bene “.

  • Sergente Maggiore Lorusso, lo può riportare in cella adesso, e, mi raccomando, se dovesse toccarlo, poi, si lavi le mani con l’alcool “.

Il Convegno OCSE

1 marzo 2013 alle ore 17:46

Si è tenuto oggi un Convegno: “ Abruzzo verso il 2030 sulle ali dell’Aquila”, organizzato da Confindustria, CGIL-CISL-UIL, in collaborazione con l’OCSE e con l’Università di Groningen, cui è stato affidato un progetto di ricerca, finanziato con le donazioni dei Lavoratori italiani, e delle Imprese, a seguito del terremoto del 6/4/2009. Obiettivo dello studio, e del Convegno, è illustrare le strategie che dovrebbero aiutare a costruire politiche di risposta post-catastrofe.

A questo Convegno, io non avevo titolo per partecipare, e, tanto meno, intervenire. Perciò mi permetto di raccontare qui le mie impressioni relativamente al Documento preparatorio del Convegno. Un Documento di oltre 170 pagine reperibile sul sito del Ministero della Coesione Territoriale, autore di un precedente Documento sullo stesso tema, cui i lavori preparatori del Convegno si connettono.

Il Documento base del Convegno, è frutto dello studio operato sul Territorio dall’Università di Groningen, dall’OCSE e da un gruppo di lavoro che ha coinvolto anche tecnici e ricercatori aquilani; è un documento molto complesso il cui scopo, è indicare terreni sui quali i decisori politici ed economici dovrebbero esercitarsi per innescare scelte capaci di trasformare il disastro da cui siamo stati colpiti, in una occasione per immaginare strategie di sviluppo e trasformazione positiva.

Ed è qui, il mio primo punto di disorientamento.

Il Documento formula un insieme di proposte, interconnesse tra loro, che appaiono però drammaticamente scollegate dallo stato di cose presenti. Credo che, chi ha redatto quel testo, abbia compiuto una scelta. Proporre cioè una riflessione complessiva “come se” fosse possibile prescindere dalle concrete decisioni già assunte dal 6/4/2009 ad oggi; come se fosse possibile prescindere da ogni considerazione relativa alle risorse disponibili, e alla loro allocazione, sia per i processi di ricostruzione, che per i processi capaci di innescare sviluppo; come se fosse possibile prescindere dall’evidente tentativo, consumato in questi anni e tutt’ora in corso, di avere, da parte di diversi soggetti politici e istituzionali, una egemonia nel processo di ricostruzione.  La scelta operata dal gruppo che ha elaborato il Documento, in sintesi, è la scelta di chi, forse proprio per poter proporre qualcosa, si pone in una prospettiva “astratta”, di studio, e offre le proprie elaborazioni, a qualcuno che le possa far vivere. E’ una scelta di metodo, mi pare, ma non riesco a condividerla. Pur se posso comprenderne le ragioni.

Il risultato finale però, proprio per questa scelta di metodo conduce a diverse aporie che forse meriterebbero invece di essere risolte.

Provo ad affrontarne alcune.

Innanzi tutto, la questione delle risorse.

Il Documento sottolinea come l’Abruzzo abbia beneficiato positivamente, negli anni, del sistema di sostegno economico-finanziario dedicato dall’Unione Europea alle Regioni del Mezzogiorno. E sottolinea come, con il venir meno, dai primi anni ’90, di questo sistema di sostegno, la Regione sia entrata, prima, in una fase di stagnazione, trasformatasi rapidamente poi, anche per l’impatto delle crisi esterne, in una fase di recessione prolungata a tutt’oggi. Come si immagina, e se si immagina un sistema di sostegno all’economia regionale, nel Documento preparatorio del Convegno, non si fa parola. Se ne dovrebbe dedurre quindi, che ogni ipotesi di sviluppo futuro sia legata esclusivamente alla attrattività del nostro Territorio per investimenti privati, nazionali e internazionali, nonché alla capacità ordinaria di spesa della nostra Regione e del nostro Stato. Una prospettiva realistica, quanto sconsolante.

Si potrebbe leggere, quindi, tutto il Documento, come una sorta di vademecum per restituire/conferire attrattività all’Abruzzo, e a L’Aquila. Nella consapevolezza dell’assenza di risorse pubbliche significative, di origine europea, nazionale o regionale, dedicate al sostegno allo sviluppo.

Nulla hanno da dire gli attori sociali che hanno promosso il Convegno su questo ? E nulla hanno da dire su questo i decisori politici, ad ogni livello, alla vigilia della definizione di un nuovo sistema di aiuti europeo in questi giorni in discussione a livello comunitario ?

Naturalmente, o quasi, il Documento non si diffonde sulla questione delle risorse effettivamente disponibili per il puro e semplice processo di ricostruzione. E però, non dire nulla su questo, significa non confrontarsi su una questione che a me sembra decisiva per il futuro, le cui premesse sono già tutte nel processo di ricostruzione in atto. Non si può cioè auspicare che L’Aquila diventi una “smart city”, investendo in tecnologie di comunicazione, in innovazione nelle costruzioni, in risparmio energetico e fonti rinnovabili, quando le risorse per la ricostruzione non coprono neanche l’adeguamento antisismico delle abitazioni danneggiate, alla normativa vigente. A meno di non pensare che ci sia una enorme quantità, ad ora del tutto nascosta e imprevedibile, di investimenti privati dei cittadini pronti a mobilitare risorse proprie a questo scopo. Se non si trova risposta a questo tema, tutto il discorso, pregevole, che il Documento costruisce su questi temi, diviene un puro libro dei sogni.

In tutto il testo, per dirla forse troppo sinteticamente, il tema delle risorse, disponibili per i privati, per gli attori istituzionali, per l’Università o i Centri di Ricerca, per ognuno degli obiettivi che il Documento pone, è, semplicemente, eluso. Così come manca una ricerca, una discussione, una indicazione completa, salvo che per alcuni accenni ad Agenzie Regionali tutte da verificare nella loro capacità di svolgere i compiti assegnati, sulle questioni del credito, del mercato dei capitali, delle istituzioni finanziarie che potrebbero essere mobilitate sui temi dell’auspicabile sviluppo.

Forse quello delle risorse non era tra i compiti assegnati allo studio dai committenti. Ma è un tema cui Governo, Regione, attori sociali, Istituzioni Locali, non possono e non devono sottrarsi.

La questione della attrattività dell’Abruzzo.

In tutta la ricerca sono scandagliate le questioni attinenti alla costruzione di una attrattività del nostro Territorio per gli investimenti futuri in ogni settore. Vale a dire cioè che sono analizzate, in profondità, le condizioni, o pre-condizioni, capaci di essere un nuovo tratto distintivo del Territorio e che dovrebbero costituire le basi portanti per un nuovo modello di sviluppo che conduca, in particolare, ad arrivare a L’Aquila, città della conoscenza, città della creatività, città intelligente.

Trovo singolare che, in questo studio, non sia per nulla affrontato il tema delle condizioni e del costo del lavoro. L’OCSE non perde occasione di spiegare all’Italia che, per rilanciare l’economia è necessario rendere ulteriormente flessibile il mercato del lavoro, e in particolare rendere più semplici i licenziamenti. Dato che la legislazione vigente, e gli Accordi Interconfederali vigenti, sottoscritti da tutti i soggetti che hanno dato vita a questo studio, tranne che dalla CGIL, offrono l’opportunità di sottoscrivere Accordi settoriali, o locali, in deroga pressochè a tutta la normativa vigente in tema di lavoro, perché non si propone che il nostro Territorio sia una “zona franca” dai diritti del lavoro, se questo è un percorso utile a rilanciare l’economia di un territorio e a condurne lo sviluppo verso i traguardi che il Documento auspica ? O la ricerca ha subito un condizionamento “politico”, legittimo, ma che andrebbe dichiarato, oppure si sta perdendo un’occasione di agire localmente in piena consapevolezza su un tema che, spesso, è alla base delle decisioni degli investitori per la localizzazione di una nuova impresa, ad esempio. Io non credo che questa strada conduca allo sviluppo o a nuova e buona occupazione, ma, le Intese di carattere locale tra gli Attori Sociali su temi a loro disposizione, sono per me una strada utile ad affrontare un discorso sullo sviluppo. Se non si limitano alle dichiarazioni di intenti, e se non si limitano a chiedere a soggetti pubblici di effettuare/agevolare investimenti.

Sui temi dell’attrattività, configurati più come obiettivi da raggiungere, che come pre-condizioni ( capitale umano, capitale territoriale ambientale e culturale, formazione, innovazione, qualità della vita etc. ), il Documento produce una vasta gamma di riflessioni, molte delle quali assolutamente condivisibili, e sulle quali ci sarebbe da attendersi una convergenza di comportamenti tra gli Attori Sociali e quelli Istituzionali. Eppure, l’affermazione iniziale del Documento, in linea con quanto contenuto nel precedente Documento del Ministero della Coesione Territoriale, secondo la quale non c’è da attendersi in Italia nei prossimi anni alcuna crescita economica significativa, bensì un ulteriore inasprimento della crisi che rischia di intaccare ulteriormente il patrimonio di industria manifatturiera, e dei servizi, dell’Abruzzo e de L’Aquila, come si concilia con una idea di sviluppo futuro ? In una condizione di crisi globale, cui si aggiungono le peculiarità della crisi italiana, cui si aggiungono, ulteriormente, le peculiarità di un territorio devastato da una catastrofe naturale è assai complesso delineare strategie di sviluppo possibile e di attrattività; ma questa particolarità di condizione presente non mi pare innervi le riflessioni del Documento, che rischiano di apparire pregevolissime riflessioni esercitate però all’interno di una bolla di sapone inesistente, e non invece, come sarebbe necessario, nel fuoco di una straordinaria emergenza che mette a durissima prova la tenuta di tutto un sistema.

La questione della governance.

Il Documento parte da un assioma. Parte cioè dalla considerazione che la nuova legislazione in materia di gestione della ricostruzione, prodotta dal Governo Monti e dal Ministero per la Coesione Territoriale, sia la soluzione dei precedenti conflitti istituzionali e la risposta positiva a tutte le questioni inerenti la gestione del processo di ricostruzione. Evito, qui, di intervenire su questo tema.

Il Documento compie, perciò, a partire da questo assunto un importante lavoro di riflessione su temi nodali. Quello della partecipazione alle scelte dei decisori politici, e quello degli assetti territoriali della nostra Regione. Non si può non essere d’accordo con la sollecitazione a costruire percorsi decisionali ad alto livello di qualità e di coinvolgimento dei cittadini e delle comunità locali, e che siano percorsi aperti, partecipati, trasparenti, rendicontabili. Intanto, però, accade altro. E forse basterebbe far funzionare quanto già esiste. Ad esempio offrendo strumenti di vera conoscenza dei processi in campo, e vera partecipazione alle ormai dimenticate e ridicolizzate “Conferenze dei Servizi”. Il Documento offre argomenti convincenti alla tesi secondo cui un processo di decisione partecipata costituisce un vantaggio, anche competitivo, per una comunità. Resta, per me, da definire, con chiarezza il perimetro delle decisioni da costruire con processi partecipativi reali. Per esempio le opere pubbliche, le infrastrutture, ogni “variante” ai Piani Regolatori vigenti. Il processo di partecipazione reale non è una operazione di “moral suasion”, o di “lobbying” ma il modo con il quale una comunità, nel rispetto delle prerogative istituzionali, decide del proprio futuro, in tempi rapidi e certi. Resta, su questo tema, solo da attendere che si traduca in realtà quanto sollecitato nel Documento, armonizzandosi però anche con i poteri contrattuali delle Parti Sociali, che restano invece, nel Documento, del tutto ai margini su questo tema, come se la mediazione sociale non fosse essa stessa un processo partecipativo.

Delicatissimo è il tema degli assetti territoriali della nostra Regione, nonché il tema dell’individuazione territoriale ove costruire le scelte strategiche ed esercitare funzioni di governo dei processi. Siamo in una fase di blocco e confusione della ridefinizione degli assetti istituzionali del territorio. E i decisori politici sono stati sino ad ora dei sostenitori dello status quo.

In questo senso il Documento evidenzia invece l’importanza di definizioni ottimali degli ambiti territoriali in cui agire. E propone delle scelte. Tuttavia qui, mi pare poco analizzato l’intrecciarsi dei diversi ambiti territoriali di responsabilità di una serie di soggetti fondamentali. Il gestore dell’acqua si intreccia con quello dei trasporti o del gas, e gli ambiti territoriali di competenza non coincidono; e gli esempi potrebbero continuare: dalle telecomunicazioni all’elettricità, alle fognature, ai bacini idrografici, agli enti di bonifica etc. Così come nulla si dice, ad esempio su quale dovrebbe essere l’ambito ottimale per la gestione dei rifiuti. Però si sostiene che L’Aquila trarrebbe beneficio da impianti di produzione di energia elettrica a biomasse. E’ importante che vi siano nella Regione Poli di Innovazione, ma, al momento, a L’Aquila, non ne è formalizzato nessuno.

La riflessione che il Documento ci consegna su questi temi è certamente parziale, e credo andrebbe arricchita con discussioni specifiche. Anche riguardo a scelte infrastrutturali, su cui il Documento non interviene, ma che sono decisive per capire e scegliere le polarità regionali, i processi di integrazione e lotta alla marginalizzazione dei territori, e il modello di sviluppo cui si punta. E su cui lo scontro politico nella nostra Regione è sempre stato al calor bianco.

La questione dell’Università a l’Aquila

Una espressione mi ha colpito nel Documento. Quando sostiene che l’Università deve essere a sostegno dell’Impresa. Non è questa la sede per una discussione sul rapporto tra Università e Impresa, e il Documento contiene tuttavia su questo tema sollecitazioni positive e da approfondire e praticare. Ma l’Università, per me, non può essere a sostegno dell’Impresa.

Ci si propone, nel Documento, che L’Aquila sia una sede universitaria che aumenti la residenzialità di iscritti e ricercatori, e sia capace di trattenere le proprie menti più creative, originali e formate. Ma, ancora una volta, siamo di fronte ad una questione che travalica i nostri ambiti territoriali. Il Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica userà le risorse che avrà a disposizione per perseguire questo obiettivo ?

In quest’ambito, l’attrattività che le Istituzioni Locali possono aiutare, ad esempio, potrebbe riguardare un serio riuso di spazi cittadini che ormai non hanno, o stanno per non avere più le funzioni che avevano in passato. Per la residenzialità agevolata in particolare per i Ricercatori ad esempio, con la ristrutturazione/riorganizzazione di spazi oggi adibiti a caserma.

Ma occorrerebbe anche non nascondersi un altro tema estremamente pesante che, fino ad oggi, ha impedito ogni reale sinergia tra i soggetti della ricerca e dell’alta formazione. Il tema della guida e del governo dei processi. Tra INFN, Università, il neonato Gran Sasso Institute. E altri soggetti che ci sono e che possono decidere di insediarsi sul territorio. Ognuno di questi soggetti ha suoi Statuti e sue relazioni, orizzontali, verticali e internazionali. Quale potrà essere la governance che consente proficue collaborazioni tra loro e con la realtà locale ed eviti conflitti di egemonia in un quadro di risorse scarse, e di investimenti azzerati da parte delle imprese sui temi della ricerca ?

Certo che la risposta a queste domande non può del tutto essere richiesta ad un Documento che indica delle direttrici di possibile lavoro per i decisori politici e istituzionali. Ma, credo, che sarebbe stato opportuno anche indicare le criticità cui si può andare incontro, affinchè non si arrivi, in modo del tutto irrealistico, ad aspettarsi dall’Università de L’Aquila, la soluzione ad ogni problema di sviluppo e prospettiva del Territorio.

Mi scuso per essere stato troppo “lungo”; mi scuso per aver tralasciato di intervenire su tante altre questioni, stimolanti e utili, o magari problematiche pur contenute nel Documento alla base del Convegno di oggi.

Personalmente, resto con l’assillo che ogni scelta dell’oggi ha conseguenze e riflessi sul futuro, anche più lontano del 2030. E che troppo spesso, sino ad oggi, abbiamo assistito a scelte praticate, dal 6 aprile 2009 ad oggi, che sono state autoritarie o sbagliate. Nel silenzio di tanti. E vorrei che se un senso si debba dare a questo Documento, sia proprio quello della consapevolezza che per raggiungere obiettivi importanti per il futuro della nostra Città, ogni scelta, ogni singola scelta dell’oggi va fatta con gli occhi al futuro; al futuro delle giovani generazioni e di una comunità locale che ha bisogno di aprirsi, di legarsi ad altri e alle loro migliori esperienze; che ha bisogno di intessere rapporti positivi e non conflittuali con i poli fondamentali della propria Provincia, e con il resto della Regione, e del Paese. Con gli occhi all’Europa ed al mondo.

19 gennaio 2014

Ci sono cose che mi colpiscono, mentre le leggo, ma non mi accorgo bene del perché.
Allora provo a ricostruirle, per cercarne un senso.

Dopo le dimissioni del Sindaco de L’Aquila, viene fatto conoscere alla stampa il contenuto di una lettera che il Sindaco de l’Aquila ha inviato al Presidente della Repubblica.
Tra le altre cose, in quella lettera, si sottolineava il pericolo che la Curia arcivescovile de L’Aquila, attraverso modificazioni della normativa vigente, potesse, a dire del Sindaco, divenire soggetto attuatore della ricostruzione, sia per gli edifici di sua proprietà che per gli edifici di culto, sottraendo, per questa via, risorse, alla ricostruzione delle case.
L’apparizione sulla stampa di questa lettera, ha provocato la reazione della Arcidiocesi aquilana, che ha, a sua volta, diffuso un comunicato stampa nel quale dichiara che è la Conferenza Episcopale di Abruzzo e Molise a chiedere una modificazione alla normativa vigente che consenta di che applicare, per il cratere interessato al terremoto del 6/4/2009, la stessa normativa applicata per il terremoto di Umbria e Marche .

Ma, in cosa consiste la normativa di Umbria e Marche ?

La Regione Marche, ad esempio, ha stabilito, con propria normativa, che il soggetto attuatore dell’intervento di ricostruzione su un bene culturale, è il proprietario del bene culturale. Ed ha, per questo, stabilito, che, per i beni culturali di proprietà ecclesiastica, la Chiesa, o i suoi Enti, siano direttamente beneficiari del contributo per la ricostruzione, e possa affidare i lavori di ripristino, quando essi superino i 150.000 euro, mediante gara informale cui siano chiamati almeno cinque concorrenti. Il lavoro sarà poi assegnato a chi faccia un’offerta più bassa entro il limite massimo di ribasso del 5%. Quando invece i lavori da affidare siano inferiori ai 150.000 euro si deve svolgere gara informale, con almeno tre concorrenti.
La Regione ha poi costituito una Commissione Congiunta tra Direzione regionale dei Beni Culturali, e Conferenza Episcopale delle Marche, con lo scopo di stabilire le priorità di intervento.

Si tratta di una scelta normativa legittima, visto che nessuno ha dichiarato quella norma anticostituzionale.
Forse, date le quantità economiche cui si fa riferimento, si potrebbe desumere che i danni di quel terremoto ai beni ecclesiastici non siano stati poi così ingenti.

E’ legittimo altrettanto chiedersi cosa comporterebbe la trasposizione di una normativa così costruita sulla situazione aquilana.

Il programma operativo della Direzione regionale Abruzzo dei Beni Culturali, per il periodo 2013-2021, prevede interventi per circa 525 milioni di euro.
Di questi, 175 milioni di euro circa, per le sole chiese del comune de L’Aquila.
Una ulteriore maggioritaria quota dei 525 milioni di euro, interessa i beni ecclesiastici in tutto il cratere sismico, e oltre.

E’ legittimo che la Conferenza Episcopale di Abruzzo e Molise chieda di gestire, per la sola città de L’Aquila, 175 milioni di euro di risorse dello Stato, con procedure di gara informale ?
Tenendo presente, ovviamente, che questa è solo una parte dei beni ecclesiastici. Poiché tutta la parte riguardante scuole, o asili, appartamenti parrocchiali, collegi, oratori, e altro, già è gestita con le forme della ricostruzione privata. Secondo la vigente normativa.

La questione, quindi, mi appare un poco più chiara.
E’ questione di denaro, non di opere di bene.

Le “linee strategiche” dell’Università

30 gennaio 2014 alle ore 16:14

Le “Linee strategiche 2014-2019” della Università de L’Aquila, sono un documento importante, poiché, in modo esplicito, mettono in relazione le future scelte dell’Ateneo aquilano con il futuro della nostra città.

E richiedono, perciò un dialogo, anche critico, da parte della città.

I risultati di un’analisi sistematica condotta nel Marzo 2010 per mezzo dell’ISI Web of Science sui lavori scientifici pubblicati in Italia dal 1975 al Marzo 2010, riguardanti la ricerca e la ricerca di eccellenza nelle università statali italiane, pone l’Università aquilana al posto n. 26 su 62, sopravanzata da Università come Catanzaro, Verona o Ferrara, tra le altre.

Secondo lo University Ranking by Academic Performance ( URAP ), L’Università de L’Aquila, a livello mondiale, si colloca al posto n 663 su 2000 Università censite secondo vari indicatori. E’ sopravanzata da molte Università italiane, tra le altre, ad esempio, Perugia si colloca al posto n. 334 ; Catania al posto n. 398 o Modena-Reggio al posto 433.

Al di la di classifiche, più o meno opinabili, quello che nelle “Linee strategiche” non emerge è quali siano i campi e i Settori in cui l’Università abbia effettivamente le sue eccellenze nella Ricerca. Se non altro, per comprendere da dove partire per puntare a rafforzare l’Ateneo, e dove invece intervenire con decisione per superarne le debolezze.

La linea che invece il documento sembra assumere, è quella dell’intervento diretto sullo scenario aquilano post-sisma. Collocandosi nella scia di altri documenti di carattere generale: quello prodotto dall’Università di Groningen per l’OCSE, e quello del Ministero per la Coesione Territoriale, quando il Ministro era Fabrizio Barca.

Ecco allora, che l’Ateneo, scegliendo il “modello residenziale”, collegato al sistema locale, intende porsi come “laboratorio di creatività” che sia agente attivo dello sviluppo locale. Allora, si tratta di comprendere se le “Linee Strategiche” proposte colgano, e in che misura, la sfida dello sviluppo; della possibilità che L’Aquila viva la fase della ricostruzione introducendo elementi di cambiamento strutturale su un piano economico e della sua dotazione di imprese e servizi, per andare oltre il tempo fisico della ricostruzione.

Penso, innanzitutto, che occorrerebbe introdurre un elemento di innovazione nel concetto di “residenzialità”. In vari punti il documento fa riferimento alla possibilità di attrarre dall’esterno Dottori di Ricerca o Insegnanti, o di costruire relazioni strutturate con altri atenei italiani o stranieri. Ma esiste, credo, anche una questione di residenzialità per i Dottori di Ricerca già oggi presenti a L’Aquila, Assegnisti di Ricerca, Borsisti etc. tutte figure caratterizzate da una precarietà di fondo nel percorso lavorativo.

Mettere in relazione e comunicazione il più possibile tutte le figure presenti sul territorio che si occupino di ricerca, di innovazione, di alta formazione, tra imprese, Università, altri Istituti di Ricerca etc, di per sé è un elemento importante, fecondatore. Tanto più se la relazione può avvenire in un luogo fisico e con abitazioni dignitose e a prezzo ridotto. La vasta area di caserme, a ridosso di Piazza d’Armi, ad esempio, potrebbe essere un luogo dove sperimentare una nuova cultura abitativa: una sorta di “housing sociale” dedicato a chi lavora nella ricerca. Anche attraverso la progettazione di abitazioni con innovative tecniche costruttive antisismiche e a risparmio energetico . Un nuovo “quartiere” che metta insieme bellezza, efficienza e intelligenza.

Nel guardare al ruolo dell’Università per l’innovazione dell’armatura urbana, a me pare vi siano due elementi critici. Il primo, è l’assenza di una considerazione di fondo, che pure “inconsapevolmente” emerge in tutta una serie di proposte di merito che considero positive e utili alla città.

L’Aquila, purtroppo, non può vantare una “massa critica” su nessuna situazione di impresa o di ricerca, tale da caratterizzare il tessuto economico/sociale della città. Vi è al contrario una presenza diffusa ma debole di competenze, di imprese, di intelligenze, in vari settori, talvolta interessanti e/o di sicuro spessore per il futuro. Ciò dovrebbe imporre una scelta di fondo, di tutti gli attori sociali. Ammesso che non sia ormai troppo tardi per compiere questa scelta.

Il “terremoto”, è, purtroppo, la nostra “massa critica”.

La declinazione a 360 gradi di questo tema, su ogni aspetto della vita materiale, intellettuale e sociale di una comunità è il punto dal quale partire.

Come una comunità possa convivere, al massimo livello possibile, con il rischio sismico, proteggendo il proprio patrimonio storico-artistico; la salute dei propri abitanti; rendendo efficiente e bello e innovativo il proprio patrimonio edilizio; salvaguardando il paesaggio e le sue emergenze naturalistiche; costruendo nuove reti e nodi infrastrutturali materiali e immateriali, nuovi spazi di relazione sociale, nuova comunicazione.

Credo sia qui la sfida, con la quale misurarsi per produrre il cambiamento, la ricerca, nuova impresa di produzione, di costruzione, di restauro, di servizi.

Qui c’è lo spazio di ricerca e relazione con il territorio, non solo per le Facoltà scientifiche dell’Università, ma anche per quelle umanistiche.

C’è un secondo elemento di criticità. A mio giudizio. Anche in questo documento, come purtroppo già nel documento dell’OCSE e in quello del Ministero per la Coesione Territoriale, manca del tutto una riflessione sul sistema bancario del Territorio. Come se il sistema bancario che vive sul territorio fosse un soggetto che non possa essere chiamato a svolgere un ruolo attivo nella ricostruzione e per lo sviluppo. E ruolo attivo è, ad esempio, la scelta di concentrare gli investimenti su progettazioni innovative o ricerca. E non limitarsi ai mutui per pagare le aziende edili impegnate nella ricostruzione. Oppure concentrare gli investimenti su proposte che tengano finalmente insieme l’Università con il tessuto reale delle piccole imprese del Territorio.

Oppure un ruolo di cofinanziamento rispetto alle risorse della ricostruzione che sono indirizzate al rilancio e allo sviluppo economico ( il famoso 5% della Delibera CIPE ).

Il documento dell’ateneo aquilano mi auguro abbia la forza di rilanciare un dibattito generale sul futuro della città, producendo però quelle scelte concrete sino ad ora mancate. Alcune delle proposte contenute nelle “Linee strategiche” si muovono nella giusta direzione credo. E penso anche che l’Università possa svolgere un ruolo, trasparente, nel riassetto urbanistico della città, come il documento si propone. E come le fondamentali proprietà immobiliari dell’Università nel Centro storico cittadino chiedono. L’Università dovrebbe essere uno di quei soggetti, che in piena e leale “competizione per il meglio” concorre alla ripianificazione della città richiesta dalla legge 77/2009, e ancora non attuata dal Comune. Non un portatore di interessi particolari.

Infine.

Tutto il documento è segnato dalla necessità, ribadita più volte, di un nuovo rapporto tra Università e Impresa. Coniugata anche nella proposta di nuovi “tirocini e training on the job”. Non voglio qui aprire il dibattito sulla “libertà di ricerca”, o sul rischio che il profitto d’Impresa condizioni l’Università.

Mi limito a dire che ci sono tre fattori che rendono chiara la “qualità” di questo nuovo rapporto possibile.

La trasparenza dei percorsi.

Il livello di impegno finanziario concreto che l’Impresa mette in campo ( un’impresa non potrebbe farsi finanziare dall’Università una ricerca applicativa propria, ad esempio ).

Il livello di partecipazione democratica di tutti i soggetti coinvolti, e quindi anche i percorsi di contrattazione collettiva di queste scelte.

Credo sia da salutare con profonda riconoscenza l’idea che l’Università si metta in gioco per il futuro della città. E spero che l’Università sappia ascoltare la città. Proprio come la città deve saper ascoltare l’Università, ed ogni sua componente, a partire dagli studenti.

Un po’ di realtà

4 febbraio 2014 alle ore 19:08

Alla fine del 2013, gli Iscritti al Centro per l’Impiego de L’Aquila, erano 23.310.

Il Centro per l’Impiego de L’Aquila, serve l’area che va, più o meno, da Montereale a Capestrano, dove vivono circa 106.000 persone; gli Iscritti al Collocamento, quindi, sono il 21,88% dei residenti.

Tra il 2009 e il 2013, il numero degli iscritti al Centro per l’Impiego è cresciuto di 6980 unità, un aumento del 42% circa.

Il 52% degli Iscritti al Centro per l’Impiego è donna.

Circa il 38% degli Iscritti al Centro per l’Impiego è diplomato; circa il 9% è laureato; il 30% circa ha, come titolo di studio, solo la scuola dell’Obbligo.

Al 31/12/2013 , risultano iscritti al Centro per l’Impiego, da più di 24 mesi, 4115 persone ( il 17% del totale degli iscritti, circa; di questi, 1671 sono maschi, e 2444 sono femmine. Dal 2009, i maschi in questa specifica condizione, sono aumentati dell’81%; le femmine sono aumentate del 102%.

Dal 2009 ad oggi, gli avviamenti al lavoro, sono passati da 9322 a 10309, con un aumento del 10,5%.

Nello stesso periodo, le cessazioni dei rapporti di lavoro, sono passate da 9693 a 11515, con un aumento del 18,7%.

Il dato degli Iscritti al Centro per l’Impiego, provenienti da altri Paesi, ha solo una base provinciale. Si tratta quindi di un dato non paragonabile con i numeri aquilani.

Va detto, comunque, che, su base provinciale, gli stranieri comunitari iscritti ai Centri per l’Impiego, nel 2009 erano 2271, mentre nel 2013 erano 4425 ( con un aumento del 94% ); quelli extracomunitari sono passati, nello stesso intervallo di tempo, da 4063 a 6633 ( con un aumento del 63% ). Tra gli stranieri iscritti al Centro per l’Impiego nel 2013, 5370 sono donne e 5688 uomini.

Questi sono alcuni numeri scelti tra quelli che il Centro per l’Impiego e la Direzione provinciale del Lavoro monitorano. E spiegano alcune linee di tendenza della nostra realtà.

In primo luogo, spiegano che, tra il 2009 e il 2013, gli anni della crisi globale, e italiana in special modo, L’Aquila ha vissuto e vive un peggioramento netto della propria condizione materiale. Lo si vede da tre fattori, specialmente:

  • l’aumento degli iscritti al Centro per l’Impiego, ben al di la di una crescita derivata da un incremento demografico;

  • la dinamica occupazionale costantemente negativa, nel saldo annuale tra avviamenti e cessazioni dei rapporti di lavoro;

  • l’aumentato numero di quelli che sono iscritti al Centro per l’Impiego da un tempo lungo, e che non riescono a rientrare, o entrare nel mondo del lavoro.

Questi dati indicano che il tessuto economico del territorio, neanche in una condizione specialissima come quella della ricostruzione post-sisma, riesce ad intaccare lo stock di Iscritti e Iscritte al Centro per l’Impiego, sia pure scontando un saldo migratorio attivo che certamente incide su questa condizione.

Questi dati indicano svariate criticità :

  1. Non vi sono state in questi anni politiche anti-cicliche, o, semplicemente, capaci di sostenere l’economia: si è discusso, sul nostro territorio, di misure come la “zona franca urbana”, o di fondi dedicati alla ricostruzione economica dell’area colpita dal sisma, e il risultato è negativo. La politica, o le forze sociali ( Sindacati e Imprese ), che hanno discusso di questo, hanno dimostrato di non aver compreso nulla di quanto accade sul Territorio e nel Paese: le Imprese che intendano assumere o investire, lo fanno a partire da considerazioni che prescindono dalla presenza di sostegno pubblico, che è comunque gradito e ricercato, ovviamente;

  2. Non vi è stata alcuna politica attiva del lavoro; né in termini generali, né specifici. Nessuna politica capace di intervenire sul fenomeno di coloro i quali da troppo tempo sono assenti dal mercato del lavoro; o sul fenomeno della disoccupazione scolarizzata o sul fenomeno della disoccupazione femminile; o su quella degli ultracinquantenni gettati nella disperazione dalle riforme pensionistiche;

  3. Vi sono state solo politiche passive del lavoro, attraverso l’uso dei cosiddetti ammortizzatori sociali in deroga, che hanno prodotto e producono passivizzazione e frustrazione, umiliando le persone che, tra l’altro, non percepiscono mensilità da luglio 2013 e che, dal momento del licenziamento, non ricevono alcun ri-orientamento pubblico al lavoro; ma creando anche pericolose sacche di “lavoro nero”, necessitato, o di comodo. Queste stesse politiche sono senza prospettive reali, vista la mancanza di fondi, e l’uso dei fondi per l’area del terremoto, per tutto l’Abruzzo, e visti i progetti di riforma del Governo che sono in realtà tagli selvaggi a quel poco che oggi c’è. Queste politiche passive hanno sino ad ora consentito di non affrontare conflitti sociali: lo hanno consentito in primo luogo al Sindacato  e alla Regione Abruzzo, che si sono comodamente sdraiati sui finanziamenti nazionali, permettendo alle imprese, nei fatti, ogni libertà di ristrutturazione e di licenziamento. Arrivando al paradosso di aziende che, attraverso il ricorso alla cassa integrazione in deroga, continuano a drogare la loro competitività sul mercato;

  4. Non c’è alcun intervento di cui si avverta il peso per equilibrare la presenza di Lavoratori stranieri sul nostro territorio. Tale presenza, sta già producendo un conflitto sordo: che è quello che si gioca sul terreno della cosiddetta “sicurezza” e delle statistiche sui reati commessi nel territorio. Mentre è in realtà soprattutto un conflitto per il lavoro e sul lavoro. In presenza di una assurda politica nazionale sui fenomeni migratori, gli Enti Locali, le Forze Sociali, avrebbero il dovere di costruire seri percorsi che disinneschino la bomba sociale sui cui a L’Aquila siamo seduti. E forse è già tardi;

  5. La dinamica occupazionale costantemente negativa in questi cinque anni, non è solo il frutto di una crisi che è nazionale e globale, e sulla quale la ricostruzione non ha inciso significativamente, se non magari contribuendo a rendere più ampi e veloci i fenomeni, ma anche di una ulteriore precarizzazione in nessun modo contrastata, ma anzi favorita dagli innumerevoli strumenti che non producono un solo posto di lavoro in più ( borse lavoro, tirocini, stages etc. ), ma solo sostituzione di posti di lavoro stabili con posti di lavoro ricattabili: lo si legge in controluce anche dalla qualità degli avviamenti al lavoro nel nostro territorio: quelli a tempo indeterminato sono circa il 40% degli avviati totali, tenendo conto che anche in edilizia si avvia con contratti a tempo indeterminato, per poi licenziare con la brutta stagione.

Nessuno può pensare che da L’Aquila, o dall’Abruzzo, sia possibile porre in essere politiche in grado di sconfiggere una crisi economica drammatica come quella che viviamo dall’estate del 2008 ad oggi.

Ma è davvero difficile accettare che nessuna delle politiche poste sin qui in essere abbia prodotto un qualche risultato di rilievo. Nessuno dei nodi strutturali che riguardano la situazione del mercato del lavoro aquilano è stato oggetto di studio e di intervento politico o sociale. E, in verità, nessuno pare neanche essersi posto il problema.

La deregolamentazione di questi decenni, la drammatica perdita di potere contrattuale del Sindacato, l’assenza di ogni politica industriale o di serio sostegno all’economia del Paese e del Territorio, ci lasciano un campo di battaglia irto di macerie e trappole, nel quale le persone si aggirano da sole, e senza protezione alcuna, che non sia quella delle reti familistiche o clientelari.

Buona parte della Questione Morale, da qui nasce.

Fondi Europei

14 maggio 2014 alle ore 18.44

In campagna elettorale, ogni “aggiustamento” della

realtà, vale.

Improvvisamente, il Presidente della regione Abruzzo, si scaglia contro il Governo che, insieme all’Europa,“ avrebbe il dovere di supportare con tutti i mezzi a disposizione il rilancio e la ricostruzione dell’economia de L’Aquila, senza per questo penalizzare altri ambiti del territorio abruzzese. “

Il riferimento, è alla discussione in corso riguardante gli aiuti di Stato ammissibili in alcuni territori del nostro Paese.

Secondo il Presidente, la Conferenza Stato-Regioni avrebbe bocciato la proposta della Regione Abruzzo di riconoscere una quota di

popolazione abruzzese, pari a 377.000 abitanti, che, divisi in zone, potrebbero usufruire di aiuti di Stato a finalità regionale.

Se ne accorge oggi, il Presidente della Regione ?

La Conferenza Stato-Regioni, in data 19 marzo 2014, ha approvato una ripartizione della popolazione residente nelle aree ammissibili agli aiuti di

Stato, che per l’Abruzzo, è pari a 251.000 persone.

La Conferenza ha approvato. Dove è stato l’Abruzzo, ed ogni sua rappresentanza istituzionale, dal 19 marzo ad oggi ?

Il presidente della Regione, desume, in automatico, l’esclusione della città de L’Aquila, dagli aiuti di Stato, se la decisione

della Conferenza restasse questa.

Il che significa, che, nella discussione sino ad ora svolta in Regione ( con qualcuno, suppongo; nel suo Partito, in Consiglio Regionale,

con le Parti Sociali…. ), sono già state individuate le zone ammissibili per la Regione Abruzzo, sulla base di alcuni criteri, e che, nel caso non siano

accolte le richieste dall’Abruzzo formulate, tali criteri, automaticamente, indichino, che L’Aquila, va esclusa.

Mi piacerebbe sapere, da cittadino, quali siano i criteri scelti per individuare le zone d’Abruzzo, e anche chi li abbia scelti.

Ad esempio, la Conferenza Stato-Regioni, in suo Documento del 13 marzo 2013, presenta dei numeri interessanti.

Secondo questi numeri, nella Provincia de L’Aquila, gli occupati nell’Industria, sarebbero passati tra il 2007 e il 2010, in valori assoluti, da 30.976 a 32.255 ( aumento del 4,1% ); in Provincia di Teramo, si è passati da 44.537 a 42.488 ( diminuzione del 4,6% ); a Chieti, da 56.573, a 42.330 ( diminuzione del 25,2 % ); a Pescara, da 29.214, a 26.297 ( diminuzione del 10% ).

Di certo, il numero di occupati nell’industria, all’interno di una Provincia, non costituisce, di per sé, un indice capace di descrivere la

situazione socio-economica di un territorio. Peraltro, questi dati si fermano al 2010, cioè a quattro anni fa.

Ma, essendo numeri scritti dalla Conferenza Stato-Regioni, devono essere numeri condivisi anche dall’Abruzzo.

Delle due, l’una: o questi numeri indicano una situazione positiva per L’Aquila, e quindi la sua esclusione dagli aiuti di

Stato è legittima, e non si capisce quindi cosa abbia da dire in merito il Presidente della regione Abruzzo; o questi numeri sono solo una parte della realtà, ma,allora, non si capisce perché il Presidente della regione Abruzzo li abbia validati a suo tempo, e oggi ci venga a dire che, in forza delle decisioni della Conferenza Stato-Regioni, L’Aquila sarebbe automaticamente esclusa dagli aiuti di Stato a finalità regionale.

All’indomani del 6 aprile 2009, invece di puntare ad un regime di aiuti destinato ad ovviare ai danni derivanti da calamità

naturale ( art. 107 punto 2 b del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea ), il governo Berlusconi ci ha elargito la Zona Franca Urbana, che ha

tenuto impegnate forze politiche e sociali, Istituzioni Locali, in una discussione di anni che, ad ora, è del tutto ferma, in attesa di capire se quello strumento servirà alla fine solo per compensare, in parte, quanto abbiamo già ricevuto in termini di abbattimento di tasse e contributi a seguito del sisma, e che l’Unione Europea giudica invece “aiuto di Stato” illegale. E nulla, in questi anni, sulla possibilità di uno specifico regime di aiuti per l’Aquila, ha detto, o fatto, la Regione Abruzzo.

E neanche i Governi, che dal sisma ad oggi si sono succeduti alla guida del Paese, hanno ritenuto possibile impegnarsi per una Trattativa con l’Unione Europea che assegni a L’Aquila una particolare condizione di aiuto, pure prevista dai trattati europei.

Le elezioni regionali, servono dunque, in ritardo di oltre cinque anni, a sollevare un tema importante, che però, ciascuno dei soggetti

coinvolti ( Enti Locali, Istituzioni Territoriali, Parlamentari, Forze Sociali Regionali e Provinciali ), ha affrontato

in maniera totalmente opposta alla necessità. E, agitarsi oggi, è purtroppo, solo strumentalizzazione.

Era chiaro, da tempo, che si sarebbe posta una questione molto seria di disponibilità delle risorse europee, anche a causa

dell’allargamento dell’Unione, e del fatto che, se Reggio Calabria ha indicatori economico-sociali molto migliori di quelli di Bucarest, allora, l’Abruzzo e

L’Aquila, al confronto sono territori molto sviluppati. In questo quadro, era ovvio, che l’Abruzzo, nel quadro della nuova Programmazione Europea 2014-2020 avrebbe pagato un prezzo duro.

E per questo, da tempo, si sarebbe dovuto salvaguardare L’Aquila, anche costruendo una griglia di criteri che tenesse

conto dell’impatto del sisma sul nostro sistema economico-sociale, e non lo si è fatto, perdendo tempo invece dietro mirabolanti promesse di volta in volta elargite.

Questi temi, per la loro profonda delicatezza, e anche per le responsabilità che implicano, meriterebbero qualcosa di più della

propaganda elettorale. O meglio, qualcosa di più della continua campagna elettorale cui l’Italia è sottoposta.

In realtà, a meritare di più, dovrebbe essere una discussione che preveda una profonda riforma dei sistemi di funzionamento dell’Unione

Europea. L’Europa non merita che l’unico criterio cui tutto debba conformarsi, sia quello della tutela della libera concorrenza sui mercati. Ma questo non è neanche materia di discussione nella campagna elettorale per il Parlamento Europeo, visto che le presunte principali forze politiche sono impegnate

esclusivamente a dimostrare una presunta egemonia su base nazionale.

L’Aquila, meriterebbe d’essere meglio rappresentata. Molto meglio.

Sanità aquilana

18 giugno 2014 alle ore 6:30

Può accadere che si voglia provare a comprendere qualcosa di come funzioni la sanità della provincia de L’Aquila.

Da semplice cittadino, senza contatti diretti con la struttura della ASL Avezzano-Sulmona-L’Aquila, apro allora il sito internet della Azienda Sanitaria Locale, e comincio a leggere quel che contiene.

Il sito contiene un “Portale Trasparenza”, al quale accedo.

Ed ecco che, se cerco di conoscere quale sia il Patrimonio Immobiliare della nostra ASL, finisco su una pagina che contiene solo la parola “Patrimonio Immobiliare”, ma nessuna descrizione.

Analogamente, accade, sempre in quella pagina, se cerco di sapere qualcosa di più su “canoni di locazione o affitto”.

Mi sarebbe piaciuto, ad esempio, sapere quanto la ASL paga di affitto, e a chi, per la sua sede direzionale post-sisma in via Saragat a L’Aquila. Per capire se sia stata una scelta oculata, su un piano economico-finanziario, affittare una sede per gli uffici direzionali, da cinque anni a questa parte. O se, invece, sarebbe stato più lungimirante ristrutturare l’edificio a suo tempo adibito a direzione, nel complesso di Collemaggio, che, peraltro, non dovrebbe aver subito danni gravissimi dal sisma, dato che si svolgono al suo interno, regolarmente, le visite per l’accertamento delle condizioni di invalidità.

Per quanto attiene dunque al patrimonio immobiliare, nelle pagine ad esso dedicate sul sito, non vi è alcuna informazione.

Provo allora ad utilizzare il motore di ricerca interno al portale, riguardante la normativa, e digito la parola “assicurazione”, con la segreta speranza di trovare qualche traccia di quel che è accaduto al denaro che spettava alla ASL aquilana, per la assicurazione a suo tempo stipulata contro il rischio di danni da sisma. Ma la ricerca mi dice che non vi è alcuna informazione da visualizzare. E lo stesso accade se digito la parola “L’Aquila”, o, persino, la parola “Legge”. Nessuna informazione è da visualizzare qualunque cosa io cerchi nella normativa. In compenso, il portale mi consentirebbe di condividere, l’assenza di informazioni, su ogni social network disponibile. C’è un pulsante apposito.

C’è anche un richiamo alla “Modulistica” in questa sezione, e, quindi seguo le indicazioni per scaricare il modulo necessario per effettuare un accesso agli atti della ASL. Ma, al momento di scaricare il file, il computer dice che c’è un errore: questo file non è presente sul server.

Quindi, nel Portale Trasparenza, del sito internet della ASL di Avezzano-Sulmona-L’Aquila, non c’è modo di sapere come debba essere correttamente scritta una richiesta di accesso agli Atti dell’Azienda Sanitaria Locale.

Purtroppo, analoghi risultati, cioè nessuna informazione, ottengo se vado a cercare, ad esempio, la parola “ospedale”, nel motore di ricerca che riguarda i Provvedimenti assunti dalla ASL, dal 6 aprile 2009 ad oggi. O nessuno dei provvedimenti assunti contiene la parola “ospedale”, o nessun provvedimento è stato assunto.

Faccio un ultimo tentativo, così, per scrupolo.

E, sempre nel Portale Trasparenza, cerco di capire, ad esempio, quali siano i tempi di attesa per una eventuale prestazione di cui io abbia bisogno. Ma se cerco qualcosa sulla pagina che si chiama “Liste d’attesa”, vengo portato in un’altra pagina che mi spiega come sia impossibile collegarmi a quel che cerco. L’unico modo che ho, per sapere quanto tempo occorra, ad esempio, prima di poter effettuare un elettrocardiogramma da sforzo nella ASL , è quello di recarmi al CUP. O telefonare al call center cui è stato affidato il lavoro di prenotazione delle visite.

In realtà, però, quel che mi interessa di più, è accedere ai Bilanci della ASL, e, da profano, cercare di osservare la situazione economica della ASL.

Il sito però non mi aiuta.

In primo luogo non contiene alcuna informazione relativa al processo di fusione delle ASL che erano in provincia de L’Aquila, e che furono unificate nel dicembre 2009.

Non sono a disposizione così, i dati iniziali di pianta organica, di patrimonio immobiliare e non si possono valutare pienamente quindi le scelte operate nella fusione delle ASL della provincia aquilana. E gli apporti dati da ciascuna delle ASL preesistenti.

E’ anche questo il modo attraverso il quale scompaiono i 47 milioni di euro erogati dall’Assicurazione dopo il sisma.

A pagina 43, del Piano Operativo Regionale della Sanità abruzzese, c’è una Tabella. Al rigo 3 della Tabella si riporta la voce di Bilancio “Entrate proprie” della Sanità abruzzese, che, per il 2009 ammontano a 108 milioni di euro, e sono previste per il 2010 a 63 milioni di euro. La differenza fa 45. I soldi che l’Assicurazione ha erogato per il risarcimento del danno subito dalle strutture aquilane con il sisma del 6 aprile 2009, sono così entrati nel Bilancio Regionale della Sanità, e lì scomparsi per abbattere il deficit, forse, o il debito.

Ma di questi passaggi, non v’è traccia, sul sito della ASL aquilana.

Sul sito, invece, sono presenti “estratti”, dei Bilanci 2010, 2011 e 2012, ed il bilancio preventivo 2013.

Per poter svolgere una corretta analisi dei dati presenti in questi estratti del bilancio ASL, sarebbe necessario poter costruire delle “serie storiche”, comparare cioè analoghe voci di bilancio, nel tempo, in modo da comprendere l’evoluzione della sanità aquilana.

Ma questo processo è reso pressochè impossibile da compiere. Infatti, mentre per gli anni 2010-2011 è possibile comparare i dati, in quanto costituiti dalle stesse voci, ed anzi è possibile aggiungere il 2009 ( i cui dati sono riportati nell’estratto del Bilancio 2010, come se esistesse un documento contabile che consolidi i valori preesistenti delle ASL della provincia aquilana prima della fusione ), nel 2012 le voci di riferimento vengono del tutto modificate, rendendo la comparazione difficile o arbitraria, e, addirittura, del Bilancio Preventivo 2013, non è riportato lo Stato Patrimoniale ( quello che definisce la situazione patrimoniale dell’Azienda ).

Posso solo provare, pertanto a sottolineare alcune questioni che emergono, o almeno così a me pare, nell’arco di tempo 2009-2013. Tenendo ovviamente presente, che in quel che racconto di seguito sarà necessariamente presente, per la parzialità dei dati disponibili, una certa quantità di approssimazione, della quale mi scuso anticipatamente, pur avendo cercato di renderla minima.

Dallo Stato Patrimoniale del Bilancio, si evince come la ASL abbia un debito nei confronti dei Fornitori, che passa dai 255.368.059 milioni di euro del 2009, ai 264.255.000 del 2012. Un dato che riguarda tutte le imprese di fornitura di beni e servizi, e che racconta come sia pesante lavorare per la Pubblica Amministrazione, per chi non abbia forti spalle finanziarie capaci di ammortizzare i  ritardi nei pagamenti. Un dato che spiega come sia facile invece per l’economia criminale, l’unica che possa contare su notevole liquidità al di fuori del sistema bancario, avere rapporti con la Pubblica Amministrazione, o acquisire imprese che siano in situazione economica critica, proprio per la difficoltà a vedere soddisfatti i propri crediti dalla Pubblica Amministrazione.

Troviamo qui, nello Stato Patrimoniale, un valore dato al patrimonio immobiliare della ASL, che passa dai 127.301.755 milioni di euro del 2009 ai 118.858.000 del 2012. Non so dire se la diminuzione del valore discenda da alienazioni, o da una politica di Bilancio che svaluta il valore degli immobili. Resta però, con tutta evidenza, un patrimonio immobiliare di assoluto valore, spesso collocato in aree strategiche delle città e dei paesi della provincia, e che quindi, proprio per questo, dovrebbe essere vincolato ad un uso “pubblico”. Credo che se la Regione Abruzzo approvasse una Legge che vincoli questo patrimonio immobiliare all’uso pubblico e sociale, non si correrebbe il rischio di speculazione che corriamo a L’Aquila con l’area di Collemaggio. Area che, invece, oggi, è interessata da uno dei “Progetti Strategici Urbani”, individuati dalla Giunta Comunale, per un intervento di dismissione e valorizzazione, in collaborazione con non meglio identificati Fondi Immobiliari, che fa conto solo sulle risorse disponibili per la ricostruzione, senza che, ad oggi, sia evidenziato un solo euro di investimento privato.

Il Conto Economico è il documento di bilancio che illustra il risultato economico di gestione.

Innanzi tutto, ad esempio, evidenzia come, tra il 2009 e il 2013, non vi sia neanche un euro, ricevuto dalla ASL per fare Ricerca. Il che, è desolante.

Si dovrebbe aprire qui un capitolo di discussione sui rapporti tra ASL e Università, che meriterebbe un approfondimento specifico; ma che non vi siano capitoli specifici di Bilancio dedicati alla Ricerca è una grave perdita, per il territorio e per i suoi cittadini, per le professionalità presenti all’interno della ASL. Oltre a non essere, purtroppo, una preoccupazione per nessuna forza politica di governo o di opposizione all’interno della Regione Abruzzo, o di nessuno dei tanti Sindacati presenti all’interno della ASL.

I contributi che la Regione ( in misura molto maggiore di altri Enti ) versa alla ASL, in Conto Esercizio ( cioè con il compito di integrare i ricavi ASL per coprire integralmente i costi di    esercizio ), ammontavano, nel 2009 a 508.317.848 milioni di euro, e sono passati a 556.106.000 milioni di euro nel 2012 ( il Preventivo 2013 prevedeva un calo a circa 524 milioni di euro ).  L’incremento in tre anni, è stato del 9,4% circa.

Credo sia possibile affermare che, nonostante la brevità del tempo preso in esame, siamo in presenza di una sostanziale stabilità nel finanziamento, tenuto anche conto dei tassi di inflazione.

E’ interessante notare che, in questo capitolo, erano riportati negli anni 2009-2011 i contributi aggiuntivi forniti alla ASL per raggiungere determinati obiettivi, ( oltre 16 milioni di euro nel 2010 ad esempio ). Ma, dopo il 2011 diventa impossibile comprendere se tali contributi siano ancora esistenti, e in che misura, o meno. Naturalmente, nei documenti resi pubblici dalla ASL, non è dato sapere, quali obiettivi siano stati raggiunti, e quali invece no; o chi e quali reparti o unità operative, abbia avuto una dotazione di questo genere, e per far cosa. Senza una reale trasparenza su queste cifre, e senza una reale contrattazione sui criteri d’uso di questi fondi, queste risorse rischiano di costituire una fortissima leva clientelare e di potere.

Tra il 2009 e il 2011, è possibile apprezzare la quantità di risorse incamerata dalla ASL aquilana per la cosiddetta mobilità attiva, intraregionale o extraregionale, che passa dai 58.817.035 del 2009, ai 57.875.758 ( una diminuzione dell’1,6% delle risorse in ingresso provenienti da cittadini non abitanti della nostra provincia che la scelgono invece per curarsi ).

Analogamente, tra il 2009 e il 2011, è possibile apprezzare i costi sostenuti dalla nostra ASL per la cosiddetta mobilità passiva, intraregionale, o extraregionale, passati dai 75.020.432 del 2009 ai 71.233.252 del 2011 ( una diminuzione del 5% delle risorse spese dalla ASL della nostra provincia per la cura di persone residenti in provincia de L’Aquila che hanno scelto/dovuto curarsi fuori provincia ).

Il differenziale, tra mobilità attiva, e mobilità passiva, segna un deficit di 16.203.397 nel 2009, che si abbassa a 13.357.494 nel 2011.

Un processo virtuoso, sembra essere avviato, o forse un processo in cui anche la crisi economica contribuisce a spingere le persone a restare nelle proprie province di residenza, a curarsi, vista la contemporanea diminuzione di mobilità attiva e passiva registrata nel periodo in esame.

Di certo, se volessimo usare questo indice, come un indicatore, sia pure parziale, di qualità della Sanità a disposizione dei cittadini della nostra provincia, dovremmo dire che, comunque, la tendenza prevalente resta quella della scelta al di fuori della nostra provincia. Vuoi per la necessità magari di specializzazioni non presenti nella nostra ASL, o vuoi per vere o presunte migliori qualità di offerta che il cittadino percepisce altrove.

Di certo, dai documenti resi disponibili dalla ASL aquilana, non si evince, ad esempio, quali siano le specializzazioni per cui ci si rivolge all’esterno, o dall’esterno si viene in provincia, indicando così dei campi in cui potrebbe essere importante investire, o, magari, utile disinvestire per concentrare le risorse altrove.

Così come a partire dal 2012, questi dati non possono più essere confrontati in serie storica. Spariscono, semplicemente, forse inglobati in altre voci che non so riconoscere.

Credo, invece, che sarebbe essenziale una discussione trasparente, su questi temi. Anche da un punto di vista sindacale, ad esempio, per rivendicare una Sanità aquilana, che, di più, si sposti verso le effettive esigenze dei cittadini, invece di proteggere magari rendite di posizione che non hanno ragion d’essere rispetto al reale volume della richiesta. Ad esempio, dai dati di Bilancio, non si comprende quale e quanto sia consistente l’investimento in medicina preventiva o anche di controllo nel Territorio: non si evince ad esempio quali siano le attività svolte nel campo della Medicina del Lavoro, o nel controllo delle frodi alimentari.

Potremmo poi sommare, per gli anni 2009-2011, i costi sostenuti dalla ASL per l’acquisto di prestazioni da istituti privati accreditati e per l’acquisto di assistenza specialistica accreditata, verificando così che passiamo dai 93.112.216 milioni di euro, ai 85.308.077 milioni del 2011. La diminuzione di circa l’8%, su queste spese, mentre potrebbe apparire un passo positivo, letta così, solo con questi numeri, non consente di apprezzare il processo in corso.

Non consente cioè di capire se si tratti dell’effetto di un puro taglio lineare, obbligato dalle varie leggi finanziarie di questi anni, o se, invece, sia l’effetto di scelte organizzative o di investimento diverse, effettuate in questi anni, capaci di individuare magari un bisogno, e di potenziare conseguentemente l’offerta pubblica, risparmiando così risorse.

Anche qui, dal 2011 in poi, la visione di questi fenomeni si oscura. La ASL certifica le voci di bilancio in maniera diversa, e non consente di ricostruire l’ulteriore dinamica.

Credo che, in larga parte, sia qui il cuore di qualsiasi ragionamento relativo a quale possa essere davvero il bisogno di salute della nostra comunità, e come, a questo bisogno, la ASL dia risposta. Vi è qui l’intreccio, tra risorse disponibili, concreta organizzazione del lavoro dei reparti, loro dotazione organica, e scelte di investimento ed intervento che si fanno, o dovrebbero fare, sulla prevenzione in generale, sulla prevenzione del disagio sociale, sulla Assistenza Sociale. E’ qui il nodo delle decisioni che andrebbero assunte per abbattere drasticamente il peso delle “Liste d’Attesa”, per esami diagnostici o specialistici, che si trasformano in altrettanti incentivi alla sanità privata o convenzionata. Incentivi che non appaiono essere inconsapevoli, ma frutto di una precisa politica che svuota la Sanità pubblica della possibilità di intervento nei settori più appetibili sul mercato, a partire dalla Riabilitazione ad esempio.

Dovrebbe essere possibile valutare qui il concreto intervento sulla Medicina di Base, quella Pediatrica o del Territorio, nel loro dialogo con i Pronto Soccorso e le Guardie Mediche, e cercare di comprendere se una rete di pronto intervento, nella nostra Provincia, caratterizzata da grandi distanze, da una viabilità difficile, dalla presenza di numerose realtà isolate e da un generale invecchiamento della popolazione, sia adeguata agli effettivi bisogni, o se sia tutto da ripensare e come.

E’ qui che dovrebbe potersi leggere con chiarezza la tipologia delle patologie prevalenti nella nostra Provincia, e come su esse sia organizzato l’intervento, o la politica della spesa farmaceutica, o la concreta risposta che viene loro data in termini di dotazioni sanitarie, ospedaliere, di personale.

Certo, non è compito di un bilancio aziendale discutere questo, e però dalle scelte di Bilancio, dovrebbe potersi leggere come su queste tematiche si interviene concretamente, ed invece non è possibile farlo. I numeri non sono trasparenti, e da essi non è possibile, se non parzialmente, individuare una lettura possibile. Ed è l’assenza di trasparenza, il regno della propaganda, da qualunque parte provenga.

Salvo poi a confrontare la concreta condizione delle persone con le chiacchiere che si fanno.

Estremamente rigida appare la spesa per il Personale, che oscilla intorno ai 188/189 milioni di euro annui, nel periodo tra il 2009 e il 2013 ( previsione ), senza segnare significativi scostamenti nè in assoluto, nè nella divisione interna dei costi tra personale del comparto sanitario, o personale tecnico, o amministrativo, o di ruolo professionale.

Il che indicherebbe che la dotazione organica del personale, al momento della fusione fra l’ASL de L’Aquila, e quella di Avezzano-Sulmona, era sostanzialmente equilibrata, in termini assoluti e di composizione interna.

Ma, in realtà, questi numeri non danno alcun conto di cosa accada realmente nella politica del personale della nostra ASL.

Se cambiano le Unità Operative, e i Dirigenti perdono gli incarichi che prima esercitavano, conservano tuttavia intero il salario percepito, pur non esercitando più le precedenti responsabilità. Il personale del comparto sanitario diventa inidoneo al servizio nei reparti ( senza che questo apra una discussione seria sull’usura causata dal lavoro, o sulla facilità con cui si stabilisce che magari una persona non può più fare i turni ed è bene che si sieda dietro una scrivania ), ma resta in dotazione organica stressando l’organizzazione del lavoro e scaricando il lavoro su precariati di vario genere, tirocinii, studenti universitari etc, o sulla giungla di assistenze private pagate in nero dai parenti dei degenti.

Non vi è trasparenza nei processi di valutazione della formazione che, essendo spesso obbligatoria, alimenta magari un vasto sottobosco di opportunismi, purchè si svolga comunque, o costituendo spesso, si pensi agli Operatori Socio-Sanitari, un elemento decisivo di accesso e selezione alle forme di reclutamento, e per questo a fortissimo, e conclamato, rischio clientelare.

Quali siano i criteri valutativi, nell’affidamento di responsabilità direzionali, è troppo spesso un mistero, visto che si formulano interi Piani aziendali, già con l’idea di costruire articolazioni organizzative funzionali al solo conferimento di maggiori prebende o poteri a chi costituisce cordate affini ai poteri “vincenti”. A prescindere troppo spesso dagli effettivi risultati conseguiti nella cura delle persone. In un quadro in cui, la legislazione nazionale, e le compiacenze locali, consentono ancora troppe volte una confusione drammatica tra lavoro che si svolge in una struttura pubblica, e terapie che devono svolgersi in ambito privato ( con costi tutti a carico dei cittadini ), perché questa è l’unica strada per ingraziarsi il medico o il terapeuta cui ci si rivolge per la propria salute.

Così come non si comprende, nel Bilancio, come effettivamente funzionino i rapporti tra le varie sedi ASL e gli ospedali nella Provincia. Come sia avvenuta, e se sia avvenuta, una reale omogeneità e razionalità e uniformità di comportamenti e trattamenti e come poi la struttura del personale sia, e in che misura, effettivamente valorizzata o penalizzata.

Quello che in sostanza appare, da tutti i dati che il sito della ASL offre, è una situazione di Bilancio sostanzialmente cristallizzata. In cui non sono apprezzabili scostamenti di rilievo nella dinamica dei costi o dei ricavi o del patrimonio. Come se, l’unico esercizio concesso alle funzioni direzionali, sia quello di adeguarsi supinamente a dettami superiori, preoccupati esclusivamente non di curare la popolazione, ma di gestire ingentissime risorse che costituiscono il cuore del potere nella Regione Abruzzo, in un’ottica di tagli ovunque sia possibile e di contemporaneo mantenimento, di facciata, dello status quo.

La lettura dei dati di bilancio della ASL aquilana ( quelli almeno disponibili ), fornisce il quadro di una sostanziale staticità della situazione. In cui è solo negli interstizi che qualcosa si muove, premiando o punendo, popolazioni, lavoratori, territori, reparti, singole persone, attraverso l’esclusivo uso di un potere politico che tutto determina, e che, spesso, non ha neanche più il colore di un partito, ma solo l’odore afrodisiaco del comando.

Dai puri dati di Bilancio, dalla loro fissità sostanziale, si comprende il processo che, negli anni, acuisce le differenze nella società, tra chi può permettersi di integrare la Sanità Pubblica di base, con fortissime specializzazioni, più o meno private, e particolarmente onerose, e chi invece talvolta non può neppure pagare il ticket per prestazioni essenziali, o è sottoposto, senza vie di fuga, allo scandalo di attese lunghissime per esami diagnostici o visite specialistiche. Si capisce cioè che la politica non è affatto intervenuta per colmare questo gap di possibilità economiche individuali, e che, anzi, tagliando risorse disponibili, o anche solo mantenendo le risorse invariate negli anni, ha agito indirettamente, ma decisamente, per allargare il fossato che divide le persone e la loro possibilità di accesso alla salute.

In questo senso, neanche la contrattazione è intervenuta fino in fondo, non costruendo una seria cultura e pratica di Fondi Sanitari Integrativi che potrebbero aiutare a colmare le impossibilità economiche delle persone con un’ottica mutualistica.

In questo senso, è interessante rilevare come sia possibile scorgere nei dati Bilancio ASL pubblicati sul sito, solo per gli anni 2011-2012 il dato delle entrate da ticket, che passa da 9.991.000 a 10.641.000 milioni di euro con un incremento del 6,5% in un solo anno.

Un tema decisivo, quale quello della Sanità pubblica, meriterebbe, nella nostra Regione, un dibattito alto e responsabile, capace di affrontarne ogni sfaccettatura in modo trasparente e innovativo, immaginando le concrete forme organizzative solo in funzione di diritti e bisogni delle popolazioni, e non in funzione di affaristi di vario genere, o di potentati che aspettano la loro parte di bottino.

Voglio sperare che la nuova Legislatura Regionale che si apre, in questo senso, operi radicali cambiamenti.

Perché non accada più, che ad una persona in fase terminale della propria vita, siano fatti svolgere una impressionante serie di inutili esami diagnostici, da parte di una struttura privata convenzionata, per di più trasportando la persona da L’Aquila, ad una città sulla costa.

Perché la Sanità, interviene sulle persone, e non è solo una voce di profitto aziendale, o di debito pubblico.

Una conversazione

4 luglio 2014 alle ore 13:24

Esterno giorno.

E’ il Parco del Castello, a L’Aquila.

Panoramica lungo le stradine interne, tra aiuole e fontanelle. E’ un giorno di sole.

La telecamera inquadra una panchina lontana; si vede un uomo seduto, con un cappello in testa. La panchina guarda verso via Castello. Passano automobili, altre sono parcheggiate sotto i puntellamenti delle case. Il rumore è attutito, come fosse distratto.

Si inizia a sentire lo scricchiolio di passi sulla ghiaia dei sentieri tra gli alberi. Prima da lontano, poi sempre più vicino.

La telecamera si accosta lentamente all’uomo seduto sulla panchina, fin quando questi, si volta, e viene inquadrato in primo piano, mentre guarda i passi arrivare. Non sorride.

Dovrebbe avere circa sessanta anni di età. Il cappello, a tesa stretta, color panna, gli nasconde parzialmente i capelli, corti, bianchi e folti. Porta occhiali tondi, ha gli occhi celesti, leggermente acquosi e sporgenti. Le labbra sono carnose, ben disegnate; ha una pronunciata fossetta sul mento, e dei baffi severi, ancora parzialmente neri. Indossa giacca e cravatta. La camicia è bianca.

Si sposta su un lato della panchina, per lasciar posto al nuovo arrivato; la telecamera si allontana, e li inquadra, di fronte.

E’ arrivato un altro uomo. Circa trenta anni di età.

Capelli molto corti, rasati sui lati, biondi. Una barba rada e disordinata sul volto. Gli occhi scuri, febbrili. Indossa una maglietta di cotone, a maniche lunghe, sbottonata sul collo, color turchese scuro, e jeans.

-Grazie, d’aver accettato di parlare con me. –

Dice il più giovane.

-Sia chiaro – risponde l’altro – che questo colloquio, non è mai avvenuto. –

Si guardano negli occhi. Il giovane stringe le mascelle.

-Da dove iniziamo ? –

-Iniziamo dal denaro. Il denaro è quello che muove tutto. Il denaro è la misura di ogni passo. E’ come il vento, il denaro.

Non lo vedi, ma lo senti. Ed è capace di travolgere ogni cosa. Ogni casa. Ogni dignità.

Prende fiato, l’uomo dal cappello. Ha una voce profonda, espressiva. Distoglie lo sguardo dal giovane, e guarda di fronte a sé, sulla strada, ma senza vederla. E inizia a parlare senza fermarsi.

-Gli ultimi soldi, realmente stanziati per L’Aquila, sono quelli della Delibera CIPE del dicembre 2012. Poi li hanno rimodulati, affettati, ma quelli sono. E non altri; e non ce ne sono ancora. E non si vede quale strumento possa esserci per stanziarne degli altri per L’Aquila.

Ma i soldi arrivati a L’Aquila sono tanti, davvero tanti, in questi ultimi anni. Anche se non bastano a ricostruire. E tutti concentrati su un unico territorio.

Quello che racconto è uno sfondo. Una scenografia.

Lo sguardo che puoi avere quando giri un angolo e ti si apre davanti una piazza. Guardi tutto insieme, e, allo stesso tempo, non riesci a vedere nulla di preciso. Devi fermare lo sguardo su una colonna, sulle scale di una chiesa, per vederle davvero. E, ancor più, isolare una singola persona che cammina sulla strada, anche solo per sapere se è un uomo o una donna. E questo, bisognerà farlo . Si dovrebbe indagare; riempire gli spazi vuoti con i nomi. Oppure provare a raccontare i movimenti, i nodi, le svolte. E i nomi li metterà ognuno di quelli che guarda. –

Ancora un attimo di pausa. Si toglie il cappello, lo tiene tra le mani. Riprende a parlare.

-Facciamo che io sono una piccola impresa edile aquilana. All’inizio, dopo il terremoto, passata la fase dei puntellamenti, con l’avvio del lavoro per le case poco danneggiate, inizio ad acquisire contratti. La normativa, però, prevede che, prima io faccio i lavori, li finisco, li riconsegno, e, poi, alla fine di tutto, incasso. Però, se con l’andare avanti di questo processo, io mi ritrovo con qualche ritardo di pagamento, ad esempio perché il Comune non ha disponibilità economica, allora devo andare in banca, perché, nel frattempo, operai e fornitori ( che, data la crisi, mi chiedono di saldare oltre il 50% di quello che ordino, prima ancora che loro carichino il materiale sui camion che devono poi scaricare da me ), vanno comunque pagati. La banca è lieta di scontarmi la fattura, quindi io posso spendere i soldi che incasserò certamente. Però, il ritardo, continua. E allora, la banca, anche se sa che sto spendendo soldi coperti da una fattura derivante da finanziamenti dello Stato, mi chiede di rientrare perché sono andato molto oltre il fido che mi era stato concesso. Con la banca, quindi, accumulo un debito doppio. Il fido che avevo, più l’importo della fattura che mi hanno anticipato.

E se non pago, vengo segnalato alla Centrale Rischi. Divento una impresa non solvibile.

Anche se ho qualche milione di euro di lavori in portafoglio.

Improvvisamente, si materializza nel mio ufficio, un commercialista, con l’accento del nord. Ben

vestito, con la macchina di lusso. E mi dice che mi può finanziare lui. Non gli devo mica vendere l’azienda. Anzi, è importante che io resti. E’ gentilissimo.

Però, se gli dico che ci voglio pensare, non mi lascia un biglietto da visita, nulla. Nessun pezzetto di carta. Magari mi dice che mi ricontatta lui.

Io posso pure passare il tempo a chiedermi chi gli avesse raccontato della mia condizione. Intanto

però, la banca mi ha segnalato alla Centrale Rischi. E quindi non posso più avere soldi per pagare

i contributi dei Lavoratori. Quindi non posso più fare il DURC. Il Documento Unico di Regolarità Contributiva. E senza il DURC, il Comune non mi paga. E l’INPS, anche se faccio un accordo per rientrare a rate del debito, se non pago le rate, deve mandare il debito ad Equitalia. Ed Equitalia, mi deve pignorare. Tutto secondo Legge. E finisco così con il perdere anche i lavori che avevo in portafogli. –

L’uomo più giovane, deglutisce. E chiede:

-Scusi, ma la banca, forse si comporta così perché con la crisi ha tante situazioni critiche anche lei, no ? –

-Può darsi. Però, prima, i crediti delle banche erano garantiti dalla Cassa Depositi e Prestiti, e poi, finito l’intervento della Cassa Depositi e Prestiti, il Comune ha fatto una convenzione con l’Associazione delle Banche Italiane, che frutta alle banche il 3,40% di interesse sul denaro che transita per le pratiche di finanziamento della ricostruzione. Quindi, se il denaro si ferma un po’, produce altro denaro. E produce anche per il Comune, che se ferma il denaro in cassa, percepisce un

interesse e mette a posto il Bilancio. E, in Comune, c’è un unico dirigente, che governa tutte le pratiche di ricostruzione, e c’è un unico geometra che provvede ai pagamenti, se i suoi impiegati gli preparano le pratiche però. Perché lui il computer non lo sa usare. –

Lungo la stradina cammina una ragazza che porta un

cagnolino al guinzaglio. I due restano silenziosi, finchè non passa oltre.

-Scusi, comunque, ad un certo punto, lo Stato paga, e le cose si mettono a posto… –

Ribatte il giovane.

-Può non andare proprio così. Può succedere che in una Assemblea Condominiale, che magari era già in parola con me, piccola impresa edile aquilana, per il lavoro della ricostruzione, uno dei condomini, debitamente istruito, cominci a seminare dubbi, sulla mia situazione. E l’Assemblea Condominiale, magari con il supporto di commercialisti che offrono consulenze ad hoc, può decidere di affidare formalmente ad altri, il lavoro. –

-Questa che mi racconta, però, mi appare una forzatura… –

-Potrebbe esserlo. Ma lei potrebbe verificare quali imprese, o gruppi di imprese, si aggiudichino prevalentemente il lavoro che è coordinato da importanti amministratori di condominio, o da certi studi tecnici. E potrebbe accorgersi che esistono precise cordate. –

-Ma anche questo, potrebbe non essere un problema. In fondo si lavora con chi ci si fida, no ? –

-Certo. Però, il punto delicato della questione, riguarda il “come” si forma una volontà assembleare, e quanto liberamente siano effettivamente affidati i lavori. –

-Va bene, ma, alla fine, l’importante è ricostruire la città no ? E poi, per evitare che siano imprese disoneste a farlo, c’è la “ White List”… –

L’uomo dal cappello accenna un sorriso tirato. Si sistema meglio sulla panchina.

-La “White List” non esiste. Forse esisterà. Dopo. –

-Come ? –

-Se lei va, ora, sul sito della prefettura de L’Aquila, alla Sezione “ Amministrazione Trasparente “, trova un elenco di ditte, che, volontariamente, hanno chiesto di far parte di un elenco di fornitori che soddisfano una serie di requisiti antimafia etc. –

-Quindi la “White List” c’è. –

Ribatte ad alta voce il giovane.

-Sì, che c’è, ma per le ditte che fanno “fornitura di ferro lavorato”, o “noli a freddo di macchinari”, o la “guardiania ai cantieri”… Non c’è una “White List “ , ad esempio per le aziende che abbattono e ricostruiscono case.

O per aziende che fanno movimento terra. E’ proprio la Legge, che è così. E la Lista, riguarda comunque le Aziende che, volontariamente, decidono di proporsi.

E non c’è obbligo alcuno, a servirsene. A oltre cinque anni dal sisma. –

-Ma, sul sito dell’Associazione Costruttori de L’Aquila, qualcosa ci sarà… –

-Si, materiale informativo relativo alla “White List”. Più o meno. Del 2010.

E peccato che manchi, nel sito, una sezione dedicata all’affiliazione massonica… –

-Che vuol dire ? –

-Ma nulla, ovviamente. Era solo una battuta. Non si definiscono tra loro i massoni come “liberi muratori “ ? –

Il giovane guarda fisso l’uomo dal cappello. Un camion passa, con grande frastuono. Il giovane si allontana un po’ dall’uomo col cappello, come se volesse mettere una distanza, non solo fisica, dalle sue parole.

-D’altra parte -incalza l’uomo col cappello – è noto che esiste una tariffa, variabile tra il 3 e il 10% del valore dei lavori da svolgere, che viene pagata come tangente da chi deve vedersi affidati quei lavori. E io, piccola impresa edile aquilana, non me lo voglio permettere, di pagare. Quindi, non lavoro. –

-Mi scusi, ma io mi rifiuto di accettare queste dicerie, come vere. Se io mettessi nella mia storia questa roba un po’ qualunquista e scontata, perderei di credibilità. –

-Può darsi. Però sarebbe interessante vedere quanti appartamenti in questo periodo sono venduti a prezzi reali da regalo, o quante consulenze costosissime si fanno.

Le cose, non sempre hanno l’anima del nome che si da loro. Certe volte, il nome è solo un lenzuolo che nasconde certi fantasmi. –

-Prendiamo per un attimo per buona la cosa che mi sta dicendo: adesso sono io, un’impresa, e per farmi affidare un lavoro, dovrei pagare una tangente. Ma, quello è un lavoro della ricostruzione. Il cui valore è costruito su un prezziario. I margini di guadagno sono ridottissimi. Da dove prendo i soldi per pagare tangenti ? –

L’uomo dal cappello, si alza un istante dalla panchina. Si passa una mano tra i capelli, e accenna qualche movimento sulle gambe. Poi si piega e siede di nuovo. Sporgendosi in avanti. E inizia a parlare, a bassa voce. Con il viso rivolto a terra.

-Tante imprese aquilane hanno usufruito dei servigi di imprenditori campani recentemente arrestati, con manodopera a 19 euro l’ora tutto compreso, e nessuno controlla, dove si deve controllare, o sindacalizza; se prendo finestre dalla Romania, posso giostrare bene con l’IVA che non pago; se assumo solo manovali comuni, risparmio parecchio; se faccio subappalto, guadagno, e posso subappaltare quasi tutto, e quando non posso, faccio figurare che alcuni dipendenti delle ditte subappaltatrici, sono in realtà miei dipendenti; e certe volte, se il subappaltatore non mi riconsegna tutto secondo i tempi stabiliti, è lui a pagare a me la penale, che se la stabilisco dall’inizio, e il subappaltatore, coscientemente ritarda la consegna, è una tangente per me. Se poi il subappalto lo faccio con una ditta estera che si porta i lavoratori direttamente dal loro paese, e li paga con i contratti del loro paese, anche così, ci guadagno.

Ma, in realtà, il guadagno vero, è quando prendo il lavoro, e metto in moto i soldi, e se serve, le fidejussioni: con i soldi che non ho io, ma che qualcun altro mi da, e che porto in banca; perché se sono il titolare d’impresa, certe volte, puzzo di legno e qualcun altro comanda. Perché così, i soldi si lavano. Allora sì, che posso pagare tangenti per i prossimi lavori che voglio prendere. Perché il soldo lavato, vale di più, molto di più del soldo sporco. –

Il giovane dai capelli biondi, si mette a sedere sul bordo della panchina, e poi stende la schiena all’indietro. Mette le mani dietro la testa, come a poggiarsi su un cuscino nell’aria. Poi si rialza. Si prende la testa tra le mani, e guarda l’uomo col cappello.

-Si rende conto che dopo tutto quello che mi ha detto, ci manca solo che mi racconti che gli appalti per la ricostruzione di edifici pubblici sono pure lottizzati dalla politica, e abbiamo concentrato tutto insieme sulla città il male degli ultimi secoli ? Chi ci crede ? –

-Che gli appalti pubblici della ricostruzione siano lottizzati dalla politica, io non glielo dico, però lo so. Come so che alcune importanti aziende edili aquilane hanno lavorato, parecchio, nel periodo della presenza e responsabilità unica della Protezione Civile, e poi, si sono un po’ fermate, ad attendere che di nuovo scatti il loro turno. Oppure che altre imprese, che prima del terremoto fatturavano qualche decina di migliaia di euro all’anno, ora viaggiano a milioni. E consiglierei anche di verificare quanti sono i Lavoratori che effettivamente sono assunti, e al lavoro, nei cantieri più o meno aperti, o fermi, lungo l’Asse Centrale della città, per capire come certe imprese si

prestino a rendere quasi veri i desideri della politica. Il perché si prestino, forse fa parte di altre storie. –

Alza le mani, il giovane, a interrompere il discorso dell’altro.

-Lei non mi ha fatto un nome. Lei getta ombre sulla buona fede di Istituzioni e Associazioni. Lei favoleggia di cupole segrete che si muovono nell’ombra cercando di ritagliarsi un posto alla tavola

imbandita da una politica vorace o schiava. Ma guardi che a L’Aquila centinaia di imprese, cittadini, Lavoratori, sono persone oneste che si danno da fare per ridare vita alla loro città. E tanti, in Associazioni o Partiti, o nelle Istituzioni, seriamente e disinteressatamente si battono per L’Aquila. Magari anche facendo, semplicemente e silenziosamente il proprio dovere. Ma di loro nessuno parla perché non fanno notizia. –

-Vero. Verissimo.

Ma a L’Aquila, dal 6 aprile 2009 si svolge un gioco molto pesante. In cui molti attori vogliono semplicemente accumulare potere, ridefinire gerarchie e ricchezze. Consolidare influenze, ed elettorati. L’inquinamento è generalizzato: nella testa delle persone. Il vero nemico, paradossalmente, è il mercato dalla cui competizione tutelarsi in ogni modo lecito o criminale. Il vero nemico sono le regole e la democrazia, e il conflitto trasparente.

Vede, giovane amico. Lei potrebbe essere il primo a realizzare una sceneggiatura da film su queste storie. Non serve che ci sia qualcuno che tiri le fila. Qualcuno che dica esplicitamente quel che si vuole fare e come. I potenti, si annusano tra loro, e cercano accordi. Senza neanche parlare tra loro, come seguissero un galateo non scritto. O si fanno guerra, ma mai per distruggere del tutto il nemico. Solo per acquisire posizioni migliori. Tanto, la ruota gira. E c’è un parco di mucche da mungere sempre.

Il punto è esattamente questo. E’ vero che ci sono tanti onesti e positivi. Ma sono proprio loro il mangime di quegli altri. E vanno conservati; proprio come il fieno per l’inverno.

La scriva questa sceneggiatura da film. E la realizzi questa sua opera. Magari non cambia nulla, ma sarà comunque un fatto importante. Magari tra venti anni i nostri nipoti capiranno di più.

La telecamera si stacca. La panchina torna lontana.

La telecamera indugia sui raggi del sole che penetrano le foglie degli alberi.

I rumori della città affievoliscono.

Silenzio.

Liberamente ispirato ad una scena, magnifica, del film “ JFK “ di Oliver Stone.

Certe volte, la realtà, si incarica di avere pochissima fantasia.

24 luglio 2014

Oggi è giovedì.
Da circa otto anni, tutti i giovedì, ho avuto il privilegio, concessomi dall’Editore, di avere un mio spazio di parola a TVUno. Non pagavo per avere quello spazio, e non venivo pagato. Ma quello spazio non aveva prezzo, per me, perché era totalmente libero.
Liberamente, ho sempre potuto esprimere il mio pensiero, su ogni cosa io ritenessi importante.
E, in questi anni, ho sempre avuto il supporto preziosissimo, dei Tecnici di TVUno, e, ogni volta che era possibile, il confronto stimolante con la Redazione delle Giornaliste. E anche con la Proprietà aziendale.
Da circa un mese, TVUno è spenta.
Non è importante che sia spento il mio spazio, ma è terribile che sia spento uno spazio di informazione, di impresa, di lavoro, di storia, della nostra città.
Ho sempre pensato che una impresa esista in quanto faccia profitto, senza sfruttare il lavoro delle persone. E, pagando dei prezzi personali per questo, ho sempre pensato che alla Politica, o alle Istituzioni, rispetto all’economia, debba essere chiesto di costruire condizioni ottimali, perché ci sia cittadinanza per l’Impresa, e, soprattutto, per il Lavoro. Senza demagogie e senza assistenza. Ma con rigore.
Non importa la mia opinione sulla situazione di TVUno.
Ma non è accettabile il silenzio assordante di una città che vede scomparire una delle sue voci storiche. E’ segno di rassegnazione e sconfitta.
E io vorrei che L’Aquila vincesse.

Viale della Croce Rossa

10 agosto 2014 alle ore 20:27

E’ una domenica d’agosto.

Una domenica prima di Ferragosto.

Tutti, spero, hanno qualcosa di bello da fare.

E mi permetto, quindi, in punta di piedi,  dentro il bello della vostra serata di disturbare, ma solo poco.

Poco poco.

Quando Viale della Croce Rossa, sta per diventare Salita delle Aquile, c’era una volta, una volta c’era, una macilenta costruzione, adibita ad officina meccanica. Prima del terremoto.

Era parecchio rattoppata. Ed è crollata, col sisma. Lasciando in eredità anche parecchio amianto, se non mi sbaglio.

Ora, quell’area è recintata. E allargata, rispetto allo spazio prima occupato dall’officina. Non ci sono cartelli, fuori la recinzione, che indichino cosa accadrà lì dentro. Ma sembra un cantiere pronto a partire. E pronto a realizzare qualcosa non di grande, ma di grosso.

Correva voce, anche nelle carte del Comune, nei Progetti Strategici Urbani, di iniziativa pubblica, che ci fosse un percorso di valorizzazione possibile, di tutta l’area sotto le mura lungo viale della Croce Rossa.

Un percorso di valorizzazione che bonificasse quell’area dalla situazione attuale. Indecorosa. Tristissima.

Destinando ad altri luoghi degni, anche con facilitazioni magari, le iniziative commerciali lì impropriamente situate. Non era forse il Partito del Sindaco ( lo stesso mio partito, allora ), quel Partito che fece una lunga battaglia per evitare che si installasse un altro distributore di benzina lungo Viale della Croce Rossa, tanti tanti anni fa ? Le buone idee, non necessariamente diventano archeologia.

Non voglio farla lunga, anche se ci sarebbe tantissimo da dire su quanto sarebbe bello poter camminare a piedi sotto le mura della città. E utile per il turismo. Qualcuno è stato a Lucca, ad esempio ?

Ma è sera, di una domenica prima di Ferragosto. E l’attenzione è altrove.

Però si può fare una buona azione, anche oggi.

Impedire, che un nuovo fatto compiuto renda irrealizzabile una bella possibilità per la città.

Per favore.

Prima del pranzo di ferragosto, pensateci. Dopo, magari, complice il sonnellino pomeridiano, potreste dimenticarlo. E sarebbe proprio una bella zappa sui piedi.

Grazie.

Intemerata

3 settembre 2014 alle ore 22:41

L’attenzione sulle notizie dura al massimo un giorno e mezzo. Il tempo di una qualsiasi reazione su un social network. Da un caffè all’altro, al mattino davanti al televisore di casa.

O il tempo che ci vuole ad una notizia più attraente o drammatica, per conquistarsi la prima fila nel balletto.

E’ difficile, ricostruire i processi storici, i nessi tra i vari giri del mondo. Le relazioni tra chi nasce, e chi muore, e le memorie che restano. E’ difficilissimo sottrarsi alla narrazione dominante, del dominatore di turno. Una multinazionale della comunicazione, incistata in un opaco potere economico-finanziario, governata da subalternità politiche e profitti da assalto ai titoli di Borsa e ai forni. . Costruttrice di consenso e fede consumistica. Capace di spianare al suolo ogni senso critico, funzionale solo al mantenimento di diseguaglianze sempre più radicali, con un occhio di riguardo per la criminalità organizzatissima, che, quando si debba ammazzare qualcuno scomodo, può sempre servire.

In tutto questo, e millemila altre cose importanti ancora, a l’Aquila, parliamo di tradizione. Parliamo, di un evento, per il quale è chiesto il riconoscimento di “Patrimonio orale e immateriale dell’umanità”. La Perdonanza.

Il cardinale, allora Segretario di Stato, Tarcisio Bertone, viene intervistato dall’Osservatore Romano, il 27 agosto 2009, in occasione della sua partecipazione alla Perdonanza dell’agosto 2009.

La domanda dell’intervistatore, esalta il gesto di Celestino, che ha messo a disposizione dei più umili le indulgenze spirituali, ma chiede, in realtà, quale sia l’atteggiamento di Papa Benedetto XVI, Ratzinger, nei confronti dei più poveri.

E il cardinale risponde :

Conosciamo la forza dirompente dell’atto compiuto da Celestino V: il suo dono ha spinto poi il suo immediato successore, Bonifacio VIII, a promulgare il Giubileo, con l’indulgenza estesa ormai a tutto il mondo, in un impulso plenario di rinnovamento, di perdono e di condono anche a livello economico e sociale, oltre che spirituale. “

Tra coloro che vissero “sanza ‘nfamia e sanza lodo”, gli ignavi, Dante Alighieri, colloca l’ombra di colui che “ che fece per viltade il gran rifiuto “. Forse Celestino V. Una sorte comunque migliore, rispetto a quella che attende Bonifacio VIII, di cui Dante profetizza il supplizio eterno a testa in giù, dentro un pentolone immerso nelle fiamme destinate ai papi simoniaci, quelli avidi, che vendono indulgenze per brama di oro e argento.

Nessuno mai che, a suo tempo, abbia chiesto a Carmelo Bene di venire a L’Aquila a recitare per noi quei canti dell’Inferno.

L’intervista al principe della Chiesa, a terremoto ancora caldo, prosegue su temi importanti, riguardanti il rapporto tra Ratzinger e il Concilio Vaticano II; il rapporto tra Ratzinger e la Curia romana; la responsabilità di Ratzinger, per tutto quello che concerne la Chiesa.

Di Perdonanza si parla solo nelle prime tre righe, quindi.

Per dire che Celestino ha avuto una grande intuizione, ma è Bonifacio, ad aver fatto fare il salto di qualità all’indulgenza plenaria, “un condono a livello economico e sociale”. Dandogli un respiro mondiale. Quando lo decide il papa, col Giubileo.

E viene in mente l’Estate Romana, dell’Assessore alla Cultura di Roma, Renato Nicolini, dalla seconda metà degli anni ’70, alla prima degli anni ’80 del ‘900.

E L’Aquila è a 100 chilometri da Roma, e qualcosa forse, bisogna che pure arrivi, dall’autostrada da poco inaugurata.

L’invenzione della tradizione, è un atto di egemonia culturale.

Come Bossi, che ha inventato la “padania” ( merita il minuscolo ), diventata parola colloquiale, lessico famigliare. Sottomissione al federalismo dell’assenza dello Stato.

Oppure, la tradizione, è un atto spontaneo del popolo, non codificato, ma di massa, vivo, vitale, ripetuto nel tempo, trasmesso di generazione in generazione.

Dalla coratella d’agnello nella colazione di Pasqua, a “ju calenne”, o al gioco de “ju zirè”.

Altrimenti, davvero, la tradizione, diventa un atto di conquista culturale. Un marchio che si vuole definire identitario, prima di altri “marchi”, perché si sceglie una identità cui aderire. O perché ci si conformi ad essa, o perché la si voglia enucleare, “costruire”, definire.

Ma, tradizione, e quindi trasmissione di educazione, formazione, consenso e valori, è anche qualcosa di parzialmente indipendente da una volontà demiurgica. Può anche essere il riconoscimento di qualcosa che è.

La Bolla del Perdono contiene un precetto religioso. Evidentemente capace di compiere un cammino secolare. Che sia ancora lungo il suo passo. E capace di dare conforto e forza a tutti i credenti.

Profondamente rivoluzionario, Camillo Cavour. “Libera Chiesa in libero Stato”.

E, per questo, il più rapidamente possibile dimenticato.

Eppure, fecondo. Quanto sarebbe fecondo, oggi, restituire al Giubileo aquilano, tutta intera la sua dimensione religiosa; il suo dibattito interiore, tra le anime della Chiesa, ancora capaci di nominare, sia Celestino V, che Bonifacio VIII. L’ultimo, in continuità col primo. E, pazienza, per le 95 Tesi di Wittenberg, guarda caso “Disputatio pro declaratione virtutis indulgentiarum”.

Martin Lutero, riposa tra le braccia di Luther Blisset.

E che si svincoli, la Municipalità. Da una subalternità culturale cercata, perseguita, scelta.

Non è un destino.

Sia capace la Municipalità di guardare con occhio attento e rispettoso, al percorso religioso. Quale che la Chiesa lo voglia far essere.  E, se lo ritiene, intervenga al lato, di esso.

Con sue riflessioni, iniziative, percorsi.

L’identità, può anche essere un ri-conoscimento nuovo, una molteplicità che non esclude.

Magnifica, la fotografia di questa ultima edizione di Perdonanza, che ritraeva figuranti in corteo, su sfondo di bagni chimici sotto indagine per malversazioni post-sisma. Sintesi mirabile di un corto circuito oppressivo.

Se un precetto, debba riprodursi “annualmente”, dice la Bolla del Perdono, non v’è ragione alcuna perché esso sia ri-prodotto in forma simil-medievale. Se non quella scenografica del panem et circenses. E’ da ricordare una magnifica edizione del corteo, in epoca Tempesta, caratterizzata da Giannizzeri rossi, con la mezzaluna rossa, un fez d’accatto e spadine di plastica.

Che tutto questo sia “cultura”, è opinabile.

E, nei fatti, trattasi comunque di cultura che non produce neanche un panino in più venduto nei bar. Ammesso che, destino della cultura, sia necessariamente provare a sconfessare quelli che pensano che la cultura non si mangia.

La cultura a l’Aquila, è interamente in mano pubblica.

Pubblico è il Teatro, e l’Orchestra. Pubblica la bella, ma parziale, prova dei Cantieri dell’Immaginario. Pubblici sono i ludici spettacoli offerti  insieme al Perdono. Pubbliche sono le risorse economiche che tutto alimentano.

Non c’è un centesimo d’euro, speso da un imprenditore privato qualsivoglia, in tema di cultura. Fatti salvi alcuni piccoli spettacoli posti in vendita da pub o locali. ( Persino temerari quelli che ospitano formazioni musicali giovani, anche locali ).

In compenso, abbiamo un imprenditore Presidente del Teatro Stabile, che, quindi, da Presidente, chiede che sia lo Stato, e le sue articolazioni territoriali a finanziare la cultura, mentre, come imprenditore, a ogni piè sospinto chiede che lo Stato si ritiri dall’economia, e mette in cassa integrazione in deroga, dal 6 aprile 2009 ad oggi tutti i Lavoratori del Teatro L’Uovo, di cui pure era ed è Presidente.

Allora, può farsi, “politica culturale”.

E se “pubblico”, è di tutti, e tutti rappresenta, può sciogliersi dall’abbraccio con la Curia. E può sciogliersi dall’abbraccio con gli interessi privati o politico-clientelari.

E suscitare innovazione, e magari una cultura popolare nuova che diventi tradizione.

I Cantieri dell’Immaginario potrebbero essere scuola permanente, anche dei “mestieri” del teatro.

Si può recuperare un ruolo attivo nel cinema.

Si può portare l’Orchestra a suonare per il popolo nei progetti C.A.S.E, e nelle frazioni della città.

Si possono aprire spazi per i giovani, che, liberati dal peso della tradizione inventata, possano innovare.

Si possono esplorare strade inedite. Dalla fotografia, all’informatica. Dal ciclo dell’acqua ( da cui L’Aquila prende il nome ) alle lezioni – e risposte – alla catastrofe, declinata in tutte le molteplici forme assunte nella modernità globalizzata. Individuali e collettive.

C’è più cultura in raduno di haker all’Asilo Occupato, che dentro certe ulcerose stanze di decisori assessorili.

Il sapere, non è altro che una infinita e sublime ricapitolazione”, diceva Padre Jorge da Burgos, mentre cospargeva di veleno le pagine del libro che non doveva essere letto nella biblioteca dell’abbazia che non deve essere nominata, del “Nome della rosa”.

Il sapere, invece, dovrebbe essere memoria e ricerca. E c’è, anche, una dimensione di divertimento popolare, senza che debba esservi per forza, un intento codino e pedagogico da sinistra cocktail. O da destra sollazzante, con la faccia rifatta , del “famose dù spaghi”. Capace di pervertire persino la bontà di un piatto di spaghetti.

Monicelli faceva film popolari. Arte. Come De Sica. O Eduardo De Filippo. E facevano incassi.

Bruno Vespa, è solo un vassallo. Che annuncia sempre in tv, in un eterno ritorno,  l’arresto dell’attentatore di Piazza Fontana, Pietro Valpreda.

E’ una questione di qualità.

E’ solo una questione di qualità.

E se in economia, la città degli ultimi venticinque anni non ha potuto, e in parte saputo, difendere un tessuto industriale e produttivo anche perchè non aveva massa critica sufficiente – e risorse finanziarie proprie sufficienti perché male investite nel mattone-finanza – e non era sufficientemente radicato nel territorio, e non aveva sufficientemente fecondato la cultura del fare del territorio; non è detto che nella cultura debba continuare a percorrersi una strada tutta dispersa e dispersiva. Che non scelga priorità e su esse punti investendo con continuità e libertà, nel tempo. Disinvestendo da quanto è solo tradizione inventata. Senza radici.

Senza radici vere e ben piantate, i rami non hanno tanta fantasia per crescere fino al cielo. Inventando fiori e frutti.

La fine della Mobilità in Deroga

20 novembre 2014 alle ore 18:04

Stanno arrivando le lettere Del Dipartimento Sviluppo Lavoro e Formazione, della Provincia de l’Aquila, Unità Operativa del

Centro per l’Impiego.

Le lettere, indirizzate a chi ha richiesto, a partire dal  4 agosto  2014, di essere ammesso al trattamento di

Mobilità in Deroga, comunicano la domanda non può essere accolta.

Facciamo un passo indietro.

Dal 2008, per effetto della crisi, sono stati introdotti gli ammortizzatori sociali in deroga. Destinati a tutti coloro i quali, avendo perso il lavoro, e rientrando in taluni requisiti scelti a livello regionale tramite accordi siglati dalle Regioni, con le Organizzazioni Sindacali e con quelle Datoriali, non avevano più alcuno strumento di sostegno al reddito.

In particolare, la Mobilità in Deroga, riservata a chi aveva perso il lavoro ( un ultimo rapporto di lavoro durato almeno 12 mesi con lo stesso datore di lavoro ), e finita la indennità di Disoccupazione, ha interessato centinaia di  migliaia di persone in Italia, e qualche migliaio nella nostra Provincia.

Il primo agosto scorso, il Decreto Interministeriale 83473, stabilisce, tra le altre cose, che il trattamento di Mobilità in Deroga, può essere concesso per tempi precisi, oltre i quali non sarebbe più possibile erogare il trattamento, la cui validità è prorogata al 31/12/2016, tempo, entro il quale, il legislatore suppone di essere in grado di sostituire lo strumento di Ammortizzazione in Deroga, con uno strumento “Ordinario”, di sostegno al reddito, avendo effettuato una riforma complessiva del sistema degli Ammortizzatori Sociali.

Ma, in realtà, il Decreto, nel tipico linguaggio della legislazione italiana, recita che hanno diritto al trattamento di mobilità in Deroga “i Lavoratori disoccupati che risultano privi di altra prestazione legata alla cessazione del rapporto di lavoro”.

Intendendo con ciò, come chiarito in una successiva circolare del Ministero del Lavoro del 19 settembre 2014, che, se un Lavoratore, al momento del licenziamento, poteva avere diritto ad un trattamento di sostegno al reddito ( Mobilità Ordinaria, Indennità di Disoccupazione ASPI o MiniASPI ), per ciò stesso, non ha, e non può più avere diritto al trattamento di Mobilità in Deroga.

Di fatto, quindi, la Circolare del Ministero del Lavoro, in via interpretativa del Decreto Interministeriale, abolisce la Mobilità in Deroga, per come l’Italia, e l’Abruzzo, l’hanno conosciuta sino ad oggi, riservandola a rarissime fattispecie di Lavoratori. Ad esempio, il personale artistico di una compagnia teatrale. O le comparse professionali del cinema.

In Abruzzo, però, tra il primo agosto, e il 19 settembre, l’otto settembre 2014, si riunisce il C.I.C.A.S. Comitato di Intervento sulle Crisi Aziendali e di Settore.

Nel C.I.C.A.S. siedono le Organizzazioni Sindacali dei Lavoratori e dei Datori di Lavoro, la Regione, e le Province abruzzesi, tra gli altri, ed è l’organismo che, dal 2008 ad oggi, ha gestito, in Abruzzo, la situazione e le scelte sugli Ammortizzatori Sociali in Deroga.

E il C.I.C.A.S. delibera che possono ancora fruire del trattamento di Mobilità in Deroga, coloro i quali non abbiano raggiunto i 3 anni e otto mesi di trattamento, o i tre anni e dieci mesi di trattamento, a seconda di particolari condizioni individuali. Delibera sempre il C.I.C.A.S. che possono usufruire di Mobilità in Deroga, dal primo settembre 2014 al 31/12/2014, tutti i Lavoratori, provenienti da imprese, che per la prima volta chiedano il trattamento, essendo privi degli strumenti ordinari di ammortizzazione sociale; quest’ ultima norma, pone immediatamente dei problemi interpretativi, visto che sembrerebbe escludere, secondo l’INPS, tutti coloro i quali, ad esempio, avendo usufruito di un periodo di indennità di disoccupazione, provenendo da un lavoro che abbiano svolto per almeno 12 mesi, lo abbiano concluso in data posteriore al primo settembre. Ad esempio, per L’Aquila, tutti i Lavoratori provenienti dalla chiusura della clinica Sanatrix.

Sembrerebbe, quindi, che il C.IC.A.S. abruzzese abbia deliberato che il trattamento di Mobilità in Deroga possa continuare ad essere erogato per tutti quelli che già ne usufruivano ( ma con un limite temporale massimo ), e, limitatamente agli ultimi tre mesi del 2014, per tutti quelli che non abbiano altri strumenti di ammortizzazione di cui poter usufruire.

Le scelte del C.I.C.A.S. sono sottoscritte all’unanimità da tutti i presenti.

Ma arriva la circolare interpretativa del Ministero, e, il primo ottobre, la Regione Abruzzo, in risposta ai quesiti interpretativi del Centro per l’Impiego de l’Aquila, via mail, dichiara, di fatto, a far data dal 4 agosto ( data della pubblicazione del Decreto Interministeriale 83473 ), cessato il trattamento di Mobilità in Deroga.

Per completare il quadro, vale la pena riportare alcune precisazioni finali.

Tutto il sistema degli Ammortizzatori in Deroga, si è sempre retto, con la clausola del limite delle risorse finanziarie disponibili. Vale a dire cioè, che, nel tempo, le Regioni, hanno deliberato criteri di ammissibilità, magari sempre più larghi, sotto la pressione della crisi, spingendo volta per volta il

Governo ad allargare la quantità di risorse nazionali disponibili.

Il Decreto Interministeriale del primo agosto, stabilisce che, fermo restando quanto deciso in quel Decreto dal Governo, le Regioni, con risorse proprie, o con risorse provenienti dall’Unione Europea, possono decidere diversamente. L’Abruzzo non sembra intenzionato ad intervenire in questo senso.

Appare abbastanza incredibile che, quanto scritto in un Decreto Interministeriale, oggetto di un Accordo Quadro di livello regionale con tutti gli Attori Sociali, possa essere completamente ribaltato nel suo senso e nella sua applicazione pratica, da una Circolare interpretativa.

Con enormi conseguenze di carattere sociale.

Occorre infine, ricordare che, ad oggi, chi aveva comunque diritto al trattamento, almeno fino al mese di agosto 2014, è stato pagato solo per gennaio e febbraio, del 2014.

La Mobilità in Deroga, non è mai stato lo strumento ideale per affrontare la crisi. Ed anzi produceva distorsioni, sul mercato del lavoro, favorendo ad esempio il crearsi di sacche di lavoro nero. E, per come era costruita, da un punto di vista normativo, scoraggiava ad accettare periodi di lavoro  brevi, tra chi fruiva di quello strumento, perché altrimenti ne avrebbe perso il diritto.

E però era uno strumento, sia pure parziale, di risposta ad un bisogno, in assenza di reali politiche capaci di creare sviluppo e buona occupazione.

La fine della Mobilità in Deroga, per via “burocratica”, è un fatto gravissimo. Legato certamente alla assenza di risorse disponibili, nazionali e regionali, ma anche alla scarsa considerazione che, in generale, vi è nei confronti di chi abbia perso il lavoro. E’ una sua colpa, e da solo, o da sola, deve risolvere il problema. Anzi, liberalizzando ancora di più le regole del mercato del lavoro, togliendo ogni residua tutela, di per sé, il problema della disoccupazione dovrebbe risolversi.

Come se oltre trenta anni di deregolamentazione in questo senso ( è del 1984 l’introduzione dei Contratti di Formazione-Lavoro in Italia ), non avessero abbastanza dimostrato che,  avere meno regole, non vince la disoccupazione, ma la aumenta.

Ed è straordinario, il silenzio di tutti quelli che siedono nel C.I.C.A.S.

L’otto settembre hanno deliberato qualcosa, che una Circolare ministeriale cancella.

E nessuno ha nulla da dire, o da fare.

Migliaia di persone, in Abruzzo e a l’Aquila, hanno perso una possibilità. Così è, ad oggi.

E altre migliaia, non l’avranno neppure quella possibilità.  

Sei città

12 gennaio 2015 alle ore 22:37

Un bambino nato nel 2009 a L’Aquila, il prossimo anno andrà in prima elementare. Dentro un Modulo ad Uso Scolastico Provvisorio.

Se non avessi paura di volare, dall’alto, vedrei sei città in una sola.

Vedrei la città delle frazioni: piccoli paesi con il loro Centro Storico.

Vedrei il Centro Storico della città de l’Aquila.

Vedrei la città delle speculazioni edilizie dei decenni passati; quella di Pettino, di via Strinella, di Sant’Elia, della Torretta….

Vedrei la città dei progetti C.A.S.E.

Vedrei la città dei furbi e degli ignavi, quella delle casette di legno, dei ruderi di pietra trasformati in palazzotti, quella di chi costruisce sull’argine di fiume e torrenti, dei capannoni industriali, prima del sisma abbandonati, e poi miracolosamente restaurati. Quella di chi aggiunge, come se la sazietà fosse la somma di ogni bulimia possibile.

Infine, vedrei la città dei nuclei industriali di sviluppo, sottratti alle scelte comunali, avocati alla Regione senza che nessuno dica nulla. Diventati città, senza più confini, senza più funzioni.

Ma io non so volare. E ho paura di volare.

E queste città, le vedo camminando, rasoterra. Sono mischiate, tra loro. Indistinguibili.

Ma non comunicano tra loro.

Dentro gli spazi di uno spartitraffico c’è un prefabbricato di una azienda che si occupa di sicurezza. A piedi sarebbe pressoché irraggiungibile, senza rischi d’essere accarezzato da milioni d’automobili. Ma, non ha neanche lo spazio per consentire il parcheggio d’un auto. Nel verde incolto dello “stradone” è spuntato il prefabbricato di un’officina che sostituisce i vetri delle auto. Enorme, con parcheggio annesso e sbarra da passaggio a livello. La scuola De Amicis alimenta foreste. A Pettino, un vecchio casolare in pietra si arma di cemento e si innalza al cielo. Potrei divertirmi con una foto del “prima” e del “dopo”, come una cura ingrassante farlocca. Una intera collina di Genzano di Sassa viene riempita di palazzi, sette, otto, ho perso il conto, su una strada dove può passare una sola auto per volta, e che invece è a doppio senso di circolazione. Sul Vetoio, fisicamente sul torrente, ci abbiamo fatto una rotonda, un’officina, un concessionario d’auto con autolavaggio, un ponte, un allevamento di trote.

L’auditorium giapponese spicca nel vento della solitudine. E il prossimo palasport giapponese sarà contiguo all’azienda indiana di recupero dei rifiuti elettronici. Il necessario traffico di TIR, per alimentare la fabbrica, sarà gestito sull’asse longitudinale della viabilità cittadina, che, da Scoppito a Poggio Picenze, vanta, a destra e a sinistra, decine di Centri Commerciali, alcuni dei quali in attesa, per cambio di destinazione d’uso dell’area; un distributore di benzina trasformato in un palazzo di cinque piani; una ex scuola privata che ha avuto modo al suo piano terra, di far aprire un locale commerciale; decine e decine di rotonde, e di esercizi commerciali dentro container, comprese quasi tutte le farmacie ( le farmacie, negozianti senza risorse, come è noto !!!! ) del Centro Storico e non solo, tranne quella di Piazza Duomo, l’unica dignitosa, riaperta dai familiari della titolare, morta nel sisma, in un Centro Commerciale.

C’è una Piazza d’Armi dove non si può correre, ma ci si possono edificare chiese provvisoriamente abusive per sempre, e spiantare tutti gli alberi esistenti, sostituendoli con arbusti, giusto per favorire il parcheggio dei dipendenti della Guardia di Finanza.

C’è Viale del Croce Rossa dove si ammassa sotto le mura antiche della città la migliore rappresentazione possibile del situazionismo dadaista. Negozi, in muratura o in prefabbricato. Abitazioni, distributori benzina, depositi di lapidei, officine meccaniche ristoranti e pub. E tutti godono di un marciapiede multiuso, che non può essere camminato: parcheggio, fermata di autobus, e luogo dove si poggiano i cassonetti dell’immondizia, e dove spuntano stenti alberi ingabbiati nell’asfalto. In viale della Croce Rossa, si edifica ovunque. Tra poco, anche nello spartitraffico dello stadio.

E, sempre lungo l’asse longitudinale della città, si arriva alla nuova tangenziale, la cui costruzione, che attraverserà una intera piana, di sopra e di sotto, passando panoramicamente sul progetto C.A.S.E. e su un gruppo di case di legno poggiate in zona alluvionale, è bloccata per il fallimento della ditta che ci lavorava.

Ma si può arrivare comunque, al Nucleo industriale di Bazzano e Paganica, che non ha le fogne, ma può ospitare il Tribunale, l’Archivio di Stato, un numero imprecisato di esercizi commerciali, che hanno trasformato una strada provinciale, in una strada del centro cittadino, con accessi laterali di ogni genere ogni dieci metri, ma senza marciapiede alcuno. E poi, banche, e imprese, quelle ancora esistenti, e bar, e supermercati e call center, e, forse una centrale nucleare a biomasse. Palestre, negozi di riparazione di prodotti elettronici e domestici, concessionari d’auto e qualche reperto archeologico d’epoca romana, ora abbandonato dentro il capannone di una azienda che è stata anche Università, e che fa sorgere la domanda, che non si può fare, se, l’antica Roma, fosse tutta concentrata in quei pezzetti di pietra dentro quell’azienda, o se magari, è nascosta anche da qualche altra parte, là sotto. Tutta là sotto. Pietosamente sepolta.

Un ex cinema, un teatro, impianti sportivi. E capannoni industriali dismessi, senza bonifica, forse.

E poi, i moderni casinò…loculi con le lucette elettroniche e le musichette ipnotiche.

Dislocati lungo lo stesso asse. A ovest, come a est. Ma anche a nord, a sud, a sud-ovest. A sud-est e a nord- ovest, e a nord-est. Qualcuno anche sotto il piano stradale.

Da Scoppito a Poggio Picenze, quasi trenta chilometri di città senza poter respirare, altro che smog. Diesel o benzina verde, a scelta. Talora gas, come gli impianti di rifornimento infilati in mezzo ai palazzi.

Una città, una qualsiasi via di una città, è il frutto di una storia. Delle relazioni che si sono sovrapposte e alimentate tra uomini, e tra uomini e donne, e tra Stati, e tra popoli. Tra famiglie, clan, tribù. Le relazioni tra poteri e conflitti. Le relazioni di mercato. Tutto quello che lascia un segno, sta dentro le vie di una città, persino le guerre, e la pace, e l’arme, e gli amori.

E io, io che non so, e non posso volare, e che solo rasoterra posso, più o meno camminare, mi accorgo che non ci sono le parole, e le comunicazioni.

L’Aquila, è il regno della funzionalità astratta impossibile.

Ma non razionale.

Il sobborgo galleggiante, una razionalità dovrebbe averla, penso, mentre guardo lo scatolone del bar “ mon amour”, che precede il casinò di “Ocean’s eleven”, andando verso l’aeroporto di Preturo. Che non vola sul Gran Sasso, che non scia a Campo Imperatore, ma che ha un Presidente del Parco ricco di meriti. Come ogni manager che ci circondi, a partire dal padrone dell’ospedale nei container. Sì, il nostro ospedale che domina, dall’alto della sua salubrità, un laghetto adibito a pesca sportiva, a due passi dal traffico che va verso Cagnano e Montereale, dove ho forte il sospetto che tutta la bellezza dell’Aterno, nasconda covi di spaventoso inquinamento.

La funzionalità astratta che governa la ricostruzione, come prima più di prima.

Ogni piccolo pezzetto, ogni piccola monade, perfettamente progettata, secondo norma, o sostituita, secondo norma, o calcolata parametricamente, secondo norma. E senza alcun rapporto con la finestra di fronte, con la strada di sotto, col cratere sottoterra, col fiume di nuvole che percorre il cielo, col bosco d’alberi abbattuti e bruciati di San Giuliano o di Roio. Ognuno per sé, e qualche dio per tutti. Nessuna comunicazione, tra case e luoghi, nessun filo, nessun legame tra persone. Ogni casa per i fatti suoi. Tutto secondo legge, secondo economia e correttezza, forse.

Mentre sulla costa fanno l’azienda unica dei trasporti, che però l’unico profitto lo fa con la tratta L’Aquila-Roma, noi abbiamo gli autobus che, se fosse aperto il centro storico, dentro, non ci potrebbero andare, per quanto sono grossi e inquinanti. Un’azienda di trasporti pubblici che boccheggia, che non è favorita in nessun percorso, che non può aiutare i cittadini, ma che, in compenso, avrà, immagino, grande giovamento dal suo Consiglio d’Amministrazione, esattamente come le altre municipalizzate; e, chissà mai, se l’ex manager ( ora responsabile dell’azienda comunale dei rifiuti ) della ex banca locale, che, cambiati nome e proprietà, non ha alcuna intenzione di rimettere in piedi i suoi palazzi nel Centro Storico, la fa mai una passeggiata a piedi, dal parcheggio di Collemaggio alla Fontana Luminosa, guardando per terra e sulle banchine incolte l’orrendo appoltigliarsi di sudiciume non riciclabile che appesta lo sguardo e il cuore.

Ma io vorrei non avere anche i pensieri rasoterra. Elevarmi, dal lamento e dal pettegolezzo. Certo, dovrei smettere di guardare lo scempio perpetrato lungo il torrente Raio, nel nucleo industriale di Pile. Il letto del torrente ingombro d’ogni detrito possibile e immaginabile, le sponde scarnificate d’ogni albero, su cui si poggiavano, persino, aironi, germani reali e poiane, per realizzare opere di prevenzione delle alluvioni, bloccate dai ricorsi al TAR.

Mentre si potrebbe andare a piedi, in bicicletta o a cavallo, lungo tutto il corso del fiume Aterno e in parte degli affluenti, da est a ovest della città, e così, comunicare….

Come si potrebbe comunicare se le caserme vuote fossero riempite di case a costi bassissimi, per i Dottori di Ricerca dell’Università, o per i giovani ricercatori delle Aziende private che ancora eccellono a L’Aquila, o per gli studenti e insegnanti del Gran Sasso Science Institute o dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. Che potrebbero mischiarsi fisicamente, e così comunicare. Fecondarsi di idee.

Ci vorrebbe un Assessore alle piazze, ai marciapiedi, alle convenzioni urbanistiche non rispettate, al verde pubblico, cui fossero affidate risorse e competenze, per consentirci di comunicare. Altro che recinzioni al Parco del Castello. Mandiamo i vigili urbani che non devono più fare multe alle auto, a sanzionare chiunque getti una sigaretta a terra, o abbia costruito un capanno recintato con la siepe, vicino al teatro di Amiternum sulla strada per Pizzoli. Le persone, quando si incontrano, comunicano. Non quando sono in automobile e si odiano, o dentro un centro commerciale dove, esercitano la loro funzionalità astratta comprando tutto quello di cui hanno, forse, desiderio, ma magari non bisogno.

Ci vorrebbe un assessore che mettesse in comunicazione col resto della città i migranti che vivono a Lucoli e quelli che vivono a Tornimparte, o ad Arischia, o nei Progetti C.A.S.E., per fare in modo che, tra loro, ci sia il prossimo estremo dell’Aquila rugby, e non il prossimo candidato a far esplodere un asilo in qualche parte del mondo, isole comprese.

Ci vorrebbe un rabdomante che scoprisse le vie camminate dai quindicenni, e su queste offrisse loro occasioni non di solo consumo. Ma di sport, di spettacolo, di invenzione, di riflessione, di scuotimento del cerebro. Di comunicazione. Di ascolto.

Il problema, non mi pare, concettualmente, come far rivivere il Centro Storico, e farci tornare attività pubbliche e private e cittadini. Se si continua così, il Centro sarà ricostruito. Nel giro di venti anni, realisticamente. Ci saranno i soldi, forse, e, forse, tutto sarà fatto secondo Legge. E, magari, quando si sarà ricostruito tutto il Centro, tutta la sua arte, e tutta la sua bellezza, e tutti i suoi splendidi palazzi nuovi che sembrano cappelle cimiteriali, come il palazzo dell’Agenzia delle Entrate, o quello posto alle spalle del palazzo delle Poste, e, forse, sede dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, si scongelerà il signor Cavaliere dall’ibernazione per farlo partecipare all’inaugurazione, tutta in una volta da porta Barete, fino a Porta Napoli.

Il problema non mi pare solo di servizi, o di parcheggi o di negozi, o di sottoservizi e reti immateriali e video sorveglianza.

E’ tutto vero, è tutto giusto. Tutto questo è un problema, e tutto questo va affrontato. Va sconfitta la rendita, se ce ne fosse il coraggio.

Ma il problema vero, è che di sei città, bisognerebbe farne una sola.

Avere il coraggio di pensare che il bello, deve stare ad Arischia e ad Assergi. Che lo spazio per i giovani, e per le loro creazioni artistiche, cinematografiche, artigianali, o contadine, deve stare a Coppito e in Piazzetta Chiarino.

Avere il coraggio di sconfiggere il potere dell’abusivismo edilizio e del palazzinaro che si costruisce da solo la licenza edilizia.

Ma, i miei pensieri rasoterra, arrivano tardi. Quanti ne ho, di pensieri. Talmente tanti da usare quasi tutte le parole, più e più volte.

Il bimbo va già in prima elementare, e un mese d’affitto in un palazzo appena ristrutturato in corso Vittorio Emanuele, viaggia verso i cinquemila euro al mese. E di certo non si ammortizza, col passeggio che non c’è. Allora io domando.

Facciamo che lo slogan aquilano del “come prima, più di prima, meglio di prima, nello stesso posto di prima”, funziona per davvero. E tra venti anni in Centro Storico sono tornati tutti, ma proprio tutti quelli che c’erano e anche qualcuno in più.

Io avrò settanta anni, se sarò ancora vivo, e andrò a cercare i miei pensieri rasoterra nell’altra città, quella lasciata vuota. Dei centri commerciali e degli scatoloni prefabbricati. Dei container superstiti. Avrò enormi spazi nei nuclei industriali. Vuoti. Dove realizzare magnifici servizi fotografici post, post e ancora post industrial-commerciali.

La città di oggi destinata a diventare fantasma. Ad essere la zavorra di una Chiesa di San Bernardino totalmente risplendente, nella facciata, nella cupola, e nel convento e nelle sale attigue.

La città vuota parente della città fatiscente del Progetto C.A.S.E. tra vent’anni.

L’economia, quando diventa storia, non si comporta secondo astratta funzionalità. Ma segue sue strade, qualcuna prevedibile, più o meno.

E’ la politica, come governo dell’esistente e immaginazione del futuro che può essere quasi magica. Purchè non sia solo destino personale di un numero ristretto di ottimati.

Io penso oggi alla città vuota di domani.

Perché, il bambino che a settembre andrà in prima elementare, quest’anno, tra vent’anni, di anni, ne avrà ventisei. Sarà un giovane splendido nel pieno delle sue forze, e io vorrei che ringraziasse i suoi padri e i suoi nonni, e non che li maledisse.

Sì, lo so. Tra vent’anni non conta più chi si deve votare o no. Magari sarò pure morto.

Ma, cari tutti e care tutte, se continuate a pensare che L’Aquila è solo il suo Centro Storico, finirete col ricostruire un tacchino.

E io che non mangio carne, di un tacchino, me ne fotto proprio, che è pure brutto, come uccello.

La versione di Luigi

24 gennaio 2015 alle ore 11:40

Tutta colpa di Terry.

E’ lui il mio sassolino nella scarpa. E, se proprio devo essere sincero, è per togliermelo, che ho deciso di cacciarmi in questo casino, cioè di raccontare la vera storia della mia vita dissipata. Fra l’altro, mettendomi a scribacchiare questo racconto, violo un giuramento solenne, ma non posso non farlo”.

Erano passati quattro anni abbondanti, dall’ultima volta che aveva partecipato ad un convegno sul futuro della città. Tanto che non ricordava nemmeno più, di quale futuro si parlasse allora. Nel frattempo, la sua vita era molto cambiata. Però, stavolta, aveva deciso di andare ad ascoltare.

Iniziava un nuovo anno; i buoni propositi erano ancora di moda: informarsi di più, partecipare.

Aveva deciso perciò di prendersi l’ultimo giorno di ferie rimasto dal 2014, e usarlo. Aveva chiesto al Direttore del suo ufficio se la sua assenza avesse comportato problemi sul lavoro, ed aveva ricevuto una risposta rassicurante. Quindi, aveva scritto una brevissima lettera di comunicazione della richiesta di ferie e gliela aveva consegnata. Poi, ne aveva data copia anche all’Ufficio Amministrazione, perché avvisasse l’Ufficio Paghe, così da computare il giorno di ferie fruito, in busta paga.

Il mattino arrivò all’Auditorium del Parco.

Entrò per primo. Per primo vide le persone poste alla reception. Le persone alla reception di un Convegno, di qualunque convegno, sono sempre donne, giovani, e indossano sempre scarpe col tacco altissimo. Un convegno che si rispetti, non può iniziare senza gonna e tacchi a spillo.

La sala era vuota. Il rosso delle pareti, e delle sedie, aveva un sottile profumo di resina fresca.

Scelse una sedia tra quelle dell’ultima fila, in alto. Per poter avere uno sguardo d’insieme. Trascorsi pochi minuti, arrivò in sala il suo vecchio amico Marcos. Che lo vide, dal basso, e lo salutò, calorosamente.

– Allora ogni tanto esci dal tuo guscio ! –

La sala rimbombò del suo vocione calvo e barbuto.

Sedette vicino a lui. Lo guardò ridacchiando.

– Fammi capire… che ci fai qui ? –

– Sai, voglio ascoltare. Il Gran Sasso Science Institute, organizza, e io sono curioso. Voglio capire se esce fuori qualche idea interessante; voglio capire come l’Istituto si colloca nel dibattito cittadino. Voglio guardare l’ex Ministro, che sembra voler costruire una politica a partire dai territori per poi  far sintesi a Roma, e capire che relazione ha con i rappresentanti politici aquilani, se di conflitto, o di collaborazione.

La Senatrice più importante, ad esempio, proprio oggi, ha fatto pubblicare il testo di una sua lettera al Sottosegretario alle Finanze, con delega alla ricostruzione, in cui fa l’elenco delle cose che servono alla città. E quindi si pone, classicamente, come mediatore delle risorse, tra Roma e L’Aquila. Che, per carità, serve pure, ma io speravo che questa funzione politica si fosse esaurita con gli anni ’80 del secolo scorso. E quindi, si pone oggettivamente distante, dall’ex Ministro. –

– E che fai, l’anima candida ? Senza soldi non si fa niente. –

– Vero. Ma i soldi senza progetto, servono solo a finanziare i poteri e le clientele.-

– Piantala. Se quella scrive che servono i soldi per i Lavoratori precari del Comune tu che dici ? Che fa male ? –

– Io non lo so se fa male; direi una stupidaggine se pretendessi di dare un giudizio su come quelle persone sono state selezionate, da chi, come lavorano, cosa fanno e quanto servono. Non ho informazioni sufficienti. Però, chiedo. Ma quando tra dieci anni avremo ricostruito tutta L’Aquila ( dieci anni ? ), e avremo millemila dipendenti comunali, con quali risorse li pagheremo ? –

– Hai rotto davvero. Ti leggo, sai, quando scrivi le tue storielline su Facebook. Sempre a pensare a quello che succederà tra cinque, dieci, quindici, venti anni, un secolo. Guarda che tu vivi adesso !

Adesso. Adesso la gente mangia, lavora, è disoccupata. Adesso, mica fra dieci anni ! –

– Certo, adesso. Come adesso si ristrutturano le case che dovranno resistere al prossimo terremoto fra trecento anni. No ? Con l’adeguamento sismico, che, adesso, è pagato solo fino al 60% del possibile. E non mi preoccupo, adesso, di arrivare al 100% della sicurezza tecnicamente raggiungibile; e, invece di arrabbiarmi per una legge sbagliata, o al limite decidere di cacciar soldi di tasca mia, mi preoccupo invece di sceglier il parquet per la stanza da letto, così quando calo dalla branda la mattina, posso scendere a piedi nudi nel caldo e andare subito al bagno senza cercare le ciabatte. E la prostata gode. –

– Pure lo spiritoso mi fai ? Ma allora ti fa bene startene solo solo nel tuo guscio… –

Era l’orario di avvio dell’incontro e iniziavano ad entrare le persone nella sala. Molti giovani, che non aveva mai visto prima, forse dottorandi del Gran Sasso Science Institute. Molti aprivano computer portatili e tablet.

Era una L’Aquila parzialmente diversa, da quella di quattro anni prima, ad un Convegno nella sede ANCE, dove aveva ascoltato spiegare, dall’allora Presidente della Regione Abruzzo, che L’Aquila avrebbe avuto seri problemi a riuscire a spendere tutta la enorme quantità di denaro che sarebbe piovuta sulla città per la ricostruzione. E in tanti, al governo, all’opposizione, nel sindacato, tra i costruttori, annuivano.

Ed ancor più diversa dalla platea radunata in un palasport a Rocca di Mezzo, nel 2005, per la “ Fabbrica del Programma “, dedicata ai temi della Montagna.

C’erano Sindaci, allora, Associazioni Imprenditoriali, Cooperative, tre Sindacati, politici, associazioni ambientaliste. I corpi intermedi della società, a discutere di  una elaborazione nazionale, partendo da esperienze locali.

L’Aquila presente al Convegno era fatta di cittadini e cittadine. Legami di conoscenza, magari di comune impegno lavorativo o di studio. Ma, fondamentalmente, una città molecolare. Fatta di solitudini, e di rapporti diretti, quando possibili o voluti, tra rappresentanti e rappresentati.

Era una platea che si frequentava sui social network.

Il Direttore del GSSI avviò i lavori, auspicando che tutti i soggetti in campo nella città, fossero capaci di muoversi insieme, coerentemente. Come se fosse possibile conciliare interessi conflittuali, attraverso il saggio uso della buona volontà. E non invece attraverso l’esercizio, durissimo e responsabile, delle scelte di priorità, sulla base di una visione vera e profonda del futuro della città.

Ad aprire gli interventi, fu chiamato un professore, che aveva già scritto sulla città.

Il sistema urbano europeo, raccontò, era sottoposto a straordinari cambiamenti, passando attraverso momenti anche molto duri, e, spiegava, le città che non riuscivano a comprendere il contesto nel quale si stavano muovendo, a partire dalla crisi fiscale, rischiavano enormemente.

Si rivolse a Marcos, a voce bassissima:

– Europa ? Ma se qui, l’unica Europa che interessa è quella che deve ratificare che non aver pagato le tasse durante l’emergenza del sisma, non era “aiuto di Stato”. Per il resto l’Europa è considerata fuffa e burocrazia.

Marcos rispose:

– E pensa alla crisi fiscale. Sono sei anni, che chiediamo, tutti, dal sindacato, al Sindaco, che per L’Aquila non sia applicabile il Patto di Stabilità. –

– Bhè, in un certo senso è pure giusto: ci sono tasse locali che nessuno può o dovrebbe pagare. –

– Avrai anche ragione, ma c’è qualcuno che si preoccupi di verificare se, in condizioni “normali”, anche L’Aquila non avesse qualche problemino di Bilancio ? Un giorno, dovremo pur tornare alla

normalità”, no ? –

– Adesso che fai, sei tu che pensi ai prossimi cinque, dieci o vent’anni ? Non eri tu il teorico dell’”adesso” ?

– E’ proprio perché penso all’”adesso” che te lo dico: guarda che, al prossimo giro di Legge di Stabilità, magari non si giustificano più gli stanziamenti a copertura dei buchi del bilancio comunale… –

Semplicità, pertinenza, realismo, erano le qualità necessarie, indicate dal professore, per trovare uno spazio per L’Aquila, in ambito europeo. Su un piano economico, quanto accadeva a L’Aquila, non era decisivo né per l’Italia, né per l’Europa, sosteneva.

– Ma come ? L’Aquila non è il più grande cantiere d’Europa ? –

Scattò Marcos.

Indipendentemente dal sisma, L’Aquila, per sopravvivere, per trovare una propria via di sviluppo, avrebbe dovuto comunque cambiare traiettoria, rispetto al suo passato.

Si rivolse a Marcos:

– Vedi, quando te lo dicevo io… che era fondamentale comprendere la continuità, tra quello che c’era prima del terremoto, e quello che c’è dopo il terremoto. E non tanto la discontinuità, creata dalla tragedia. –

– Quando esci dal guscio, fai pure il saputello ? –

– Guarda che io lo avevo scritto, prima. –

– Nostradamus de noantri… –

– Lascia perdere le battute. Tutti pensano come se il mondo iniziasse il sette aprile del 2009. Io invece penso che dovremmo sempre ricordare bene come era, il 5 aprile del 2009, per comprendere dove stiamo andando ancora oggi. –

– Mi sembra un giochetto di parole. –

– E non lo è. Pensa all’affare edilizio che si voleva fare, prima del terremoto, sull’area davanti al motel Amiternum; e pensa a dove oggi vogliono fare la “stazione dei bus “. Cambia il nome, non la sostanza delle cose. E la sostanza è solo quella degli interessi particolari sul piano urbanistico-edilizio. Quegli interessi che, ancora oggi, impediscono che si faccia il nuovo Piano Regolatore, che, pure, secondo la Legge 77 del 2009, avrebbe dovuto essere fatto subito. “ I comuni dispongono la ripianificazione del territorio comunale “, recitava la Legge! –

Ogni comunità locale, sceglie il proprio futuro, continuava il professore. Dentro un orizzonte di Democrazia, e Partecipazione, diceva.

– E noi, dopo sei anni, avremo l’Urban Center… –

Quasi urlò, Marcos.

– Forse. Forse discuterà il Piano di Ricostruzione di Collebrincioni bassa.

E, fondamentale, sarà l’interazione tra attori diversi, concludeva il professore. Con il tono di voce dello sconfitto. Di chi aveva, in tempi ancora utili, indicato una traiettoria possibile per la città.

Cui però non era seguita alcuna politica concreta. Nessun atto amministrativo conseguente. Nessuna visione d’insieme, capace di dare agli sforzi della ricostruzione, lo slancio del futuro possibile. Quello che aveva a suo tempo scritto il professore, era solo uno dei tanti ipotetici futuri di questi anni, nessuno dei quali, capace di avere un decente presente.

E nella testa, le tre parole “semplicità, pertinenza, realismo”, rimbombavano.

Cercava di coniugarle con questioni concrete. E ne aveva scritto, tanto. Ma quasi solo per sé stesso. Come fare i compiti a casa, da bambino, senza un maestro che li correggesse. Senza un luogo collettivo dove discutere, in realtà. Senza un confronto tra soggetti, e senza che le elaborazioni passassero per mediazioni superiori, a livello regionale, o nazionale, e poi europeo. Gli sembrava solo d’aver provato, in quegli anni, a scalare un muro, per guardare oltre. E ogni volta che riusciva a

buttare lo sguardo oltre il confine di mattoni, trovava solitudine.

Entrò la Senatrice meno importante. Una volta, la presenza di un parlamentare, sarebbe stata annunciata dal palco, e vi sarebbero stati applausi. Magari anche solo di cortesia. Nella sala, solo qualche breve mormorio.

Entrarono sindacalisti, in ritardo, di due diversisindacati. L’architetto movimentista ciuciuettava, con l’ingegnere capo dell’opposizione in Consiglio Comunale.

La sala era quasi piena, mentre gli interventi programmati della mattinata, si susseguivano, più o meno precisamente, secondo tempi brevi già stabiliti.

Ciascun intervento, avrebbe dovuto raccontare un progetto, un lavoro svolto. Un futuro possibile. E, ciascuno dei relatori, si sforzava di far questo. Per lui, che osservava da lontano, cresceva però l’estraneità a quelle parole. Era una sensazione disturbante. Poiché ogni volta che qualcuno raccontava un pezzo di generosità e di impegno, immediatamente gli salivano in gola richieste di chiarimento. Dubbi sui possibili conflitti di interesse personali. Scenari in cui si raccontava di fibre ottiche e linee di comunicazione futuribili ( di cui lui ascoltava discussioni a partire dai primi anni ’90 del secolo scorso ), e non si raccontava di quali aziende le avrebbero progettate, e installate, e per fare cosa.

Decisioni già assunte su importanti immobili, proprietà di istituzioni pubbliche, per un cambiamento delle loro destinazioni d’uso. E qualcuno che aggiungeva che era esattamente così, che si sarebbe potuto costruire un nuovo Piano Regolatore. Solo fotografando i punti di aggregazione, che il mercato, o le decisioni singole di ciascuno stavano creando.

Una magia spontanea.

E anche i tanti soggetti che, con il solo volontariato, intervenivano su questioni strutturali, come la formazione o la scuola, con abnegazione, gli apparivano come anelli di una catena che non legava nulla insieme. Perché non vi era un discorso complessivo che intervenisse, contemporaneamente, su

ogni pezzo del panorama sconnesso che vedeva davanti a sé. Il lavoro, meritorio magari, svolto su un territorio, non si saldava con strategie nazionali, o europee, e con soggetti che ne fossero portavoce ad un livello più alto.

Tutto, gli appariva essere chiuso dentro le mura della città.

La legge 366/1990 diceva che, sarebbero dovuti esistere fondi a disposizione del trasferimento tecnologico, che l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, avrebbe dovuto e potuto favorire, tra le proprie ricerche, e il tessuto di piccole e medie imprese del territorio.

Ma chi se lo ricordava ? Di sicuro non chi aveva parlato a nome dell’INFN. Chi avrebbe potuto magari chiederne il rifinanziamento ? Di sicuro non una rappresentanza politica territoriale.

Impegnata in altro. Era tutto, come se tutto, ma proprio tutto, fosse la “prima volta”.

E lui, in quella sala, fosse l’unico reduce. Un ultimo, rimasto dentro una foresta a combattere una guerra che era finita vent’anni prima.

Gli interventi della sessione del mattino arrivavano a chiusura. Qualcuno dei suoi colleghi di lavoro lo aveva scorto.

Senza salutarlo. Naturalmente.

Si rivolse a Marcos e gli disse:

– Me ne vado. Torno nel pomeriggio. Tienimi il posto, che mi sono affezionato a te. –

– Ti perdi il buffet ?

– Ho sempre dei problemi, quando mi offrono qualcosa che penso di non meritare. Ci vediamo dopo, dai. –

Arrivò un po’ più tardi del dovuto, in realtà, nel pomeriggio. Quando già molti degli interventi previsti erano stati pronunciati.

Tuttavia, non fece fatica a ritrovare un posto in alto, per continuare a guardare. Ora la platea stava cambiando. Arrivavano, alla spicciolata, i rappresentanti delle Istituzioni. Circondati da efficienti staff. E giornalisti.

Come già era accaduto in quasi tutte le elaborazioni scritte, riguardanti il futuro della città, o in quasi tutti i convegni pubblici, continuava a mancare un attore fondamentale. Un attore che restava sempre in silenzio, e non confrontava con nessuno le proprie strategie.

E a cui nessuno, peraltro, sembrava far caso. Una cosa quest’ultima, che giudicava incredibile. Letteralmente incredibile.

Neanche al convegno del Gran Sasso Science Institute, era presente il sistema bancario. Nessuno se ne dava peso.

L’allocazione delle risorse finanziarie, decisa, o non decisa, dal sistema bancario, continuava ad essere una variabile inutile nella discussione sul futuro della città. Negli ultimi sei anni, a L’Aquila, e in Abruzzo, era scomparsa, o quasi, una dimensione locale delle banche, e presto, secondo le intenzioni del Governo, l’equilibrio trovato dal sistema bancario locale e abruzzese, avrebbe potuto nuovamente cambiare assetti proprietari e scelte. Ma tutto questo era ininfluente, in qualunque discussione avesse, fino a quel momento, letto o ascoltato sulla città de l’Aquila.

Prese la parola l’ex Ministro, col compito di tracciare una sintesi, di quanto sino a quel momento ascoltato, ed offrirla alla riflessione successiva dei livelli istituzionali, che avrebbero, di seguito, chiuso il Convegno.

L’ex Ministro iniziò, spiegando, esplicitamente, che non c’era un progetto complessivo e condiviso sul futuro della città.

Tutti i tentativi, sin lì compiuti, erano falliti.

– Ma che bello. E di chi è la responsabilità ? –

– Non fare domande difficili, Marcos. –

-Quindi, fin qui, abbiamo scherzato. Tonnellate di carta buttate.

E prese a riprendere, lodandoli, ciascuno degli interventi del mattino, e del pomeriggio.

Ottimista, sul futuro possibile. Un ottimismo che cercava di trasmettere alla platea. Una specializzazione intelligente della città, che avrebbe dovuto individuare cosa, possedesse di importante, e trasformarlo, attraverso innovazione e sostenibilità.

– Marcos, guardati intorno. Tu li vedi, i soggetti del cambiamento ? –

– Non ti capisco, che vuoi dire ? –

– Scusami, noi, a l’Aquila, che abbiamo ? –

– Università… INFN… GSSI… Conservatorio…. Accademia delle Belle Arti… Teatro Stabile… Imprenditori che vorrebbero costruire con il risparmio energetico…c’erano tutti qui, no ? –

– Hai ragione, ma a me non basta; perché noi a L’Aquila, non abbiamo invece le imprese. Non ci sono le imprese farmaceutiche. Non ci sono quelle Elettroniche e dello Spazio. Non ci sono i Call Center che occupano migliaia di persone…. –

– Va, bbhè scusa, ma che pretendi ? Che il Gran Sasso Science Institute, inviti qui tutta L’Aquila ?

– Certo che no. Non è un soggetto istituzionale. Non ha di questi doveri. E’ che però, mi sembra, che non ci si può, ogni volta, innamorare di tante cose belle e nuove, dimenticandosi, di quello che davvero muove l’economia in città. E da cui non si dovrebbe prescindere. Quanto fanno millecinquecento stipendi di lavoratori di call center a mille euro al mese ( tanto per fare cifra tonda ), che si riversano in città ? –

Comunicazione, informazione, trasparenza. Le tre parole scelte dall’ex Ministro. Offerte alla riflessione del Sottosegretario alle Finanze, del Presidente della Regione Abruzzo, del Sindaco de L’Aquila.

Nel frattempo, tutta la platea si muoveva. Un sindacalista, dei due sindacati presenti, si alzava deferente dalla prima fila, per far sedere il Presidente della Regione, venendo premiato con un baciamano, dal Vicepresidente della Giunta.

L’architetto movimentista e l’ingegnere dell’opposizione, continuavano a ciuciuettare.

– Vedi, Marcos. La Senatrice più importante non c’è. Escludiamo l’ipotesi che non ci sia perché impegnata altrove. Immaginiamo invece che non ci sia per una precisa scelta. Che scelta, secondo te ? –

– E che ne so ? Magari le sta antipatico il Sottosegretario. –

– Sbagli. Non c’è, perché così si riserva la possibilità di replica, alle parole e agli atti del Sottosegretario. Se non è qui, non è impegnata ad annuire o dissentire dalle parole del Governo. E’ libera, di rappresentare il territorio. O, al limite, è libera di rappresentare di rappresentarlo. E’ dialettica. –

– Che, in napoletano, si traduce con “ammuina”. –

– Smettila di fare il dissacrante, gratis. Guarda che invece è anche così, che si rappresenta davvero il territorio. Il problema vero, semmai, è perché debba essere anche questo il modo. Tutta tattica. E’ questo, in realtà, l’ “adesso”, di cui parlavi stamattina. E che io non reggo più. –

Ecco. Se non lo reggi, fai bene a stare nel tuo eremo. Nel tuo guscio di puro senza essere duro. –

Il Sottosegretario, iniziò esattamente così. Come l’ex ministro le aveva lasciato la parola. Era necessario comunicare i successi. L’uso positivo delle risorse pubbliche doveva essere comunicato. Nel mondo d’oggi, l’immagine di una città invasa da appalti mafiosizzati, da puntellamenti taroccati, da balconi cadenti, era perdente.

Il Sottosegretario comunicava che, nell’incontro di lavoro, del mattino, era stato risolto il problema del rispetto del patto di Stabilità da parte del Comune, e che la ricostruzione della città sarebbe stata oggetto di una legge nazionale.

– Vedi, il Sottosegretario, ha risposto alla lettera della Senatrice. –

– Vedremo. Speremo. –

Rispose, Marcos.

Il Sindaco annunciò che, entro tre anni, il centro storico delle frazioni della città, e de L’Aquila, sarebbe ripartito. E, che, sarebbe stato importante poter utilizzare la quota di fondi destinati al rilancio delle attività produttive anche per realizzare infrastrutture.

– Ascolta bene queste parole, Marcos. Una volta, quando c’era il finanziamento straordinario per il Mezzogiorno, c’era un dibattito. Se utilizzare i soldi a fondo perduto per fare le strade, o per aiutare le attività produttive. E così, c’è chi ha scelto la Salerno-Reggio Calabria, e chi invece aveva l’Italtel. –

– Bel dibattito. La Salerno-Reggio Calabria, ancora non è finita, e l’Italtel, da mò che è chiusa. –

– Guarda che le parole del Sindaco dovrebbero suscitare un dibattito serio.

– Ma tanto, è già così. Ti sei scordato che una parte di quei soldi sono serviti a ripianare, poco, i debiti del Centro Turistico del Gran Sasso ? –

– Lo so, Marcos. Non se ne esce. Qui l’emergenza è continua. La crisi fiscale, è questa. Il continuo taglio di trasferimenti finanziari dallo Stato alle autonomie locali, questo significa. Da vent’anni e più a questa parte, stanno seccando tutto. –

– Sì, e però non si è fatto davvero nulla, per razionalizzare, dare efficienza, rendere economicamente sostenibile. E’ così che l’intervento pubblico in economia è diventato una bestemmia. –

– Sì, Marcos. E’ così che poi l’Italtel l’abbiamo svenduta e chiusa. Privatizza, e privatizza. Regaliamo mercato, e chiudiamo tutto. E impoveriamo la città, e la funzione pubblica. –

– E’ vero quello che dici, ma, insisto. Per dare lezioni, dovresti essere il primo della classe. E qua dovremmo stare invece dietro la lavagna in ginocchio sui ceci. Altro che soldi alle infrastrutture e al Turismo ! –

Il nuovo Piano Regolatore avrebbe dovuto ricucire pezzi di città , e mettere a posto la mobilità urbana, chiudeva così, il Sindaco, il suo intervento.

– Il nuovo Piano Regolatore, dovrebbe contenere un’unica norma. “ E’ fatto divieto assoluto di operare, in qualsiasi modo e forma, in deroga al presente Piano Regolatore “. –

– Ecco che viene fuori la tua vera faccia di giacobino massimalista. –

– No, è solo che mi sono rotto il cazzo di guardare come hanno devastato la città. –

– Anima bella… –

Ed ecco il Presidente della Regione. Affilato.

L’Aquila, era stata industria innovativa, formazione e montagna. E avrebbe dovuto essere molta più formazione. E racchiudere, nel proprio spazio urbano l’infinitamente piccolo, studiato dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare; l’infinitamente grande, su cui lavorava la Thales Alenia; l’infinitamente bello del Gran Sasso. E rivolgersi agli abruzzesi nel mondo, perché fossero ambasciatori dell’infinitamente pacifico rappresentato da Celestino V. L’Aquila, era terra di fiumi, che univano l’Abruzzo, scorrendo dalla montagna al mare. E da qui, oltre che dalla prossimità con altri luoghi, che si sarebbe dovuto partire per delineare una vera strategia di sviluppo, in cui, certo, la Regione sarebbe stata accanto alla città de L’Aquila.

– E così, caro Marcos, capisci perché lui è il Presidente della Regione, e tu no. Ha una visione. –

– Io, invece, c’ho le visioni… –

– Scherza, scherza. Intanto, ha proposto delle suggestioni, e se vuoi rispondere davvero, devi metterti sullo stesso piano, scegliere se seguire quelle strade, o indicarne delle altre. Rispondere nel merito. –

-Io non posso mettermi sullo stesso piano.

L’unico piano che vedo, è quello di fuga. Tutti se ne stanno andando, non senza prima abbracciarsi e baciarsi. E dalla porta non esce più nessuno. Dovevamo chiedere a Renzo Piano, una Uscita di Sicurezza. –

-Quella, l’ha scritta Silone…. –

Si ritrovò in macchina, lungo via Castello. Nella sera. E venne colto da un pensiero. Inviò un sms al suo ufficio. E ne ricevette uno di risposta. Era successo esattamente quel che aveva pensato, e che non sarebbe potuto neanche accadere. In un mondo normale. .

Era stato visto in un luogo che non era il suo posto di lavoro. E, chi lo aveva visto, aveva voluto controllare che fosse lì, avendone diritto. Regolarmente.

Per essere lì, quel giorno, era in ferie. Non in malattia, o in incognito.

Ma qualcuno pensava che avesse imbrogliato.

Chi parla male, pensa male”, diceva Nanni Moretti. E si comporta peggio, pensò, sorridendo. 

Leggo le pagine della Sentenza d’Appello del processo alla Commissione Grandi Rischi.
Le pagine sin qui rese note per un normale cittadino come me.

Un Tribunale dello Stato, in una sua Sentenza, ha espresso una versione, e una valutazione, ufficiale, dei fatti. Una verità, eventualmente riformabile in sede di Cassazione, ma, per ora, con valore di Legge, potremmo dire.

Questa Sentenza, dichiara che, a fronte della richiesta ufficiale del Sindaco de L’Aquila, di una convocazione della Commissione Grandi Rischi, che valutasse la situazione a L’Aquila dopo mesi di scosse di terremoto, che si andavano via via intensificando, si è mosso un sistema.

Il massimo responsabile della Protezione Civile, ha chiamato al telefono l’Assessore regionale alla Protezione Civile, spiegandole che mandava qualcuno a L’Aquila, a “compiere una operazione mediatica”, preoccupato, non del sisma e di sue eventuali conseguenze, ma di fronteggiare un allarme diffuso tra la popolazione e imprudentemente, sin lì, affrontato dalla locale Protezione Civile.
Chi viene inviato, non può legittimamente configurarsi come “ Commissione Grandi Rischi “. Poiché, manca il numero legale. Oggetto della riunione, svoltasi a L’Aquila, è la “disamina degli aspetti scientifici e di protezione civile”, come recita la lettera di convocazione della riunione. E non già “il fornire ai cittadini abruzzesi tutte le informazioni disponibili alla comunità scientifica sull’attività sismica delle ultime settimane”, come invece diceva un Comunicato Stampa della Protezione Civile del giorno prima.

Il cittadino, deve distinguere, quando si informa, la differenza tra “richiesta del Sindaco”; lettera di convocazione ufficiale, e comunicato stampa. E, conoscere, il dispositivo di Legge che regola la legittimità e legalità di una riunione della Commissione Grandi Rischi.
E, i mezzi di informazione che non lo spiegano, commettono omissione.

E, neppure i partecipanti alla riunione della non-Commissione Grandi Rischi a L’Aquila, erano tenuti a conoscere il Comunicato Stampa della Protezione Civile che annunciava la riunione a l’Aquila, e, non erano tenuti a informare la popolazione dei loro pensieri, poiché era un compito che spetta solo al Dipartimento della Protezione Civile.
Peraltro, la Commissione stessa, che a L’Aquila è una non-Commissione, ha delle “regole di diligenza elastiche” per le sue valutazioni che quindi possono essere discusse solo nel “merito”, non nel “metodo” seguito nella loro discussione, e nemmeno su quanto approfondita sia stata questa discussione. Perciò, l’unica cosa valutabile, è in realtà, la “correttezza scientifica delle valutazioni espresse”.
E qui, il Tribunale della Corte d’Appello de L’Aquila, dice chiaramente quello che è il punto, a suo giudizio. Vale a dire cioè, che la non-Commissione aquilana, non poteva dichiarare che a L’Aquila vi sarebbe stato un terremoto devastante. Semplicemente. E non la si può biasimare, o chiamare in causa, per questo.

“ …e, in particolare, che fosse possibile – e quindi doveroso – formulare, per effetto dello sciame sismico in corso, un giudizio di aggravamento del rischio di forti eventi, sempre presenti nel territorio aquilano, da anni classificato come una delle zone a più alto rischio sismico in Italia “

Prima della riunione, il vice capo della Protezione Civile – prima della riunione ! – rilascia ai mezzi di informazione delle dichiarazioni “rassicuranti”, che il Tribunale giudica punibili.

Quindi.
Una popolazione ha paura. Il suo massimo responsabile amministrativo, chiede un parere dello Stato. Lo Stato gli risponde superficialmente e illegittimamente, rispetto alla richiesta. E lo Stato, successivamente, dichiara che in tutto questo non vi sono reati o responsabilità, o quasi.

Sono la persona meno adatta a scrivere dell’impatto di questa Sentenza sulle persone già colpite nei loro affetti più cari, o magari anche nei loro beni materiali.
Ma una cosa, mi sento di dirla.
Che due decenni e più di devastazione della morale pubblica, hanno prodotto una concezione proprietaria dello Stato. Chi amministra ai massimi livelli, troppo spesso, non esercita una responsabilità, ma un potere. Che utilizza sciattamente e per fini troppe volte di interesse personale, o di gruppo o di consorteria politica, o talora, direttamente criminale.
Chi amministra ai massimi livelli, piega la Legge a tutela non dell’interesse pubblico, ma della conservazione delle proprie immunità. Contando peraltro, su una Magistratura ondivaga, timida coi potenti, attentissima ai formalismi della Legge, quanto poco alla sostanza della Giustizia.

A L’Aquila, il meno che si possa dire, è che si svolse un balletto ad uso dei mezzi di informazione. Idoneo, più che ad assumersi responsabilità di rispondere alla paura di una città, a scaricare la responsabilità, qualunque responsabilità, attraverso dispositivi cartacei vaghi e procedure superficiali.

Ad uscirne a pezzi, è anche il sentimento civico.
L’appartenenza ad una Comunità dotata di regole degne del vivere civile.

E, davvero, personalmente, faccio una fatica terribile a capire, quanto tutto questo abbia precise responsabilità soggettive, con tanto di nomi e cognomi, e quanto invece non sia una scelta di sistema.
Un altro dei modi con i quali è codificata e formalizzata una impossibilità, per i cittadini, per il popolo, ad essere trattati da eguali.

La Delibera della Giunta Comunale sulle Convenzioni Urbanistiche

21 aprile 2015 alle ore 17:09

Il 3 aprile scorso, la Giunta Comunale, all’unanimità e senza nessuna assenza, ha approvato i nuovi indirizzi operativi per le Convenzioni Urbanistiche.

Le Convenzioni Urbanistiche, sono degli strumenti di collaborazione tra Pubblico e Privato, nell’attività di Pianificazione del territorio.

Il Privato propone un intervento edilizio, in cambio della realizzazione di altri interventi edilizi con finalità urbanistica pubblica, siano essi servizi o di infrastrutture, o altro.

La Delibera approvata affronta sia la situazione pregressa in tema di Convenzioni, che la regolamentazione del futuro. Ed è immediatamente esecutiva.

L’atto della Convenzione Urbanistica, sostituisce un provvedimento pubblico, di pianificazione del territorio. La parte pubblica, in questo caso, decide, secondo la Legge, prima di formare l’atto, eventualmente e discrezionalmente, un calendario di incontri, separati o congiunti, tra i portatori di interesse privato e eventuali terzi interessati.

Il tutto, nel perseguimento del pubblico interesse.

Allo stato attuale si registra un alto livello di inadempimento degli obblighi contratti attraverso  convenzioni urbanistiche”, recita la Delibera.

In questo caso, il Comune avrebbe la possibilità di realizzare in proprio, gli interventi edilizi oggetto di Convenzione che il privato ha disatteso, rivalendosi sulla polizza fidejussoria stipulata per lo specifico intervento. Ma, spesso l’assicurazione con cui venne stipulata la polizza, non esiste più. Oppure la polizza ha un valore troppo basso rispetto al valore delle opere da realizzare. E, comunque, in tale valore non è ricompreso il costo della progettazione esecutiva, che ricadrebbe per intero sul Bilancio Comunale. E, pertanto, quand’anche il Comune, abbia deciso , di realizzare in proprio le opere che, per accordo di Convenzione, avrebbe dovuto invece realizzare il privato, non avrebbe una copertura totale delle risorse finanziarie sufficienti; il tempo trascorso, ha prodotto inoltre un cambiamento, spesso, degli obbligati dalla Convenzione ( magari gli edifici nel frattempo hanno cambiato proprietà ), e quindi, se il Comune volesse rivalersi su di essi, si darebbe luogo, come effettivamente accade, a consistenti contenziosi giuridici, dai tempi e dagli esiti del tutto imprevedibili.

Queste considerazioni, contenute nella Delibera della Giunta Comunale autorizzano fortissimi dubbi sulla tutela dell’interesse pubblico, operata all’atto della stesura delle Convenzioni, a partire da un passato non si sa quanto lontano, e,  è da supporre, fino ad oggi.

La tutela dell’interesse pubblico, sia da un punto di vista della direzione politica del Comune, sia dal punto di vista della gestione amministrativa, avrebbe meritato una ben più profonda attenzione, capace di prevenire i fenomeni distorsivi che la delibera denuncia.

Non aver previsto queste situazioni, peraltro facilmente immaginabili, indica, come minimo, negligenza, e, forse, addirittura una aperta e lassista complicità.

La Delibera indica quindi una situazione, ad oggi, in cui gli atti di pianificazione urbanistica del territorio, sono stati caratterizzati da una diffusa evasione degli obblighi del privato contraente.

Credo, sarebbe opportuno, porre a conoscenza della cittadinanza, l’elenco completo delle inadempienze, e delle imprese inadempienti.

Le scelte in materia di governo del territorio, che il Comune effettua, vanno contemperate con quelle che effettua il Legislatore nazionale, il quale, al fine di favorire il settore edilizio, colpito dalla crisi, in più interventi legislativi, ha introdotto norme che ampliano i tempi di realizzazione di opere edilizie in carico al Privato, nell’ambito di Convenzioni stipulate col Pubblico.

Occorre, in questo ambito, tener anche conto del fatto che, in caso di interventi non attuati entro dieci anni, dalla Convenzione, le parti inattuate, della Convenzione stessa, si considerano decadute, eventualmente recuperabili, attraverso un nuovo piano attuativo del Comune.

La Giunta Comunale, in questo ambito, è definita, di per sé, garante della realizzazione del pubblico interesse, e, conseguentemente, è l’unico organo deputato a risolvere ogni problematica inerente le Convenzioni Urbanistiche; e adotta un certo tipo di comportamento a seconda delle specifiche situazioni che ha di fronte.

In caso di inadempimento degli obblighi previsti dalla Convenzione stipulata, accertata l’inadempienza, il Privato può così proporre soluzioni migliorative/alternative, e la Giunta Comunale, ne vaglierà le proposte, anche in relazione a una eventualmente mutata percezione dell’interesse pubblico. Predisponendo un nuovo atto di Convenzione, oppure, procederà autonomamente ad effettuare gli interventi edilizi che avrebbero dovuto essere obbligo del Privato, cercando poi di recuperare le somme, utilizzando la polizza fidejussoria, o rivalendosi sul garante di essa.

Una procedura, quest’ultima prevista in Delibera che, credo, rischia di ripercorrere le problematiche denunciate nella stessa Delibera ( esiguità delle fidejussioni, impossibilità concreta a recuperare il valore dovuto, per cambiamenti proprietari o degli assetti societari degli stipulanti, etc. ), e che, non affronta in alcun modo il tema della “recidiva”, di certi soggetti proponenti. Vale a dire cioè che non è prevista alcuna forma di tutela dell’interesse pubblico, e del Comune, che produca una cautela nei confronti di quei soggetti imprenditoriali che già siano stati, una o più volte inadempienti nei confronti degli obblighi assunti in sede di Convenzione.

 

Infine, la Delibera affronta il tema delle Convenzioni vigenti, proponendo una proroga per le sole opere relative agli edifici ancora non realizzati ( il che presupporrebbe che tutte le altre opere di interesse pubblico, siano già state realizzate, come mi auguro sia ).

Mentre, per le Convenzioni scadute, se siano dipendenti da un Piano Attuativo ancora efficace, la Convenzione potrà essere prorogata su istanza dell’attuatore, prima comunque del rilascio di titoli abilitativi ( agibilità ); nel caso invece di Convenzioni dipendenti da un Piano Attuativo non efficace, tanto il Piano, quanto la Convenzione, dovranno essere integralmente riformulati, e nessun titolo abilitativo rilasciato sulla base del Piano scaduto.

Su questo punto, però, nulla si dice in merito a titoli abilitativi già rilasciati, ( tanto in caso di Piano attuativo ancora efficace, quanto in caso si Piano Attuativo non più efficace ) che, dunque, resterebbero, pur in presenza di una grave inadempienza del Privato rispetto ai termini della Convenzione.

Sarebbe opportuno, inoltre, che ci fosse un quadro chiaro ed esaustivo delle situazioni in essere in questo senso, affinchè se ne possa seguire l’evoluzione nel nome della tutela del Pubblico interesse.

In tutti questi casi, per il passato e per il futuro, a mio parere, in assenza di adempimento da parte del Privato degli obblighi assunti, il Comune non dovrebbe rilasciare alcun titolo abilitativo ( agibilità ), neanche parziale. E ritirarlo, se in precedenza rilasciato. Semplicemente.

Altrimenti, il presupposto, è che l’interesse privato sia comunque prevalente su quello pubblico.

Su tutta la Delibera, grava però il peso di una forse eccessiva attribuzione di responsabilità alla sola Giunta Comunale. Che diventa così l’unico e insindacabile interlocutore dei soggetti imprenditoriali, con qualche rischio anche per una corretta e libera concorrenza tra imprese, e, contemporaneamente, titolare e garante del pubblico interesse, lasciando la funzione amministrativa ad un ruolo ancillare.

L’attribuzione di una fascia così ampia di discrezionalità, può produrre situazioni opache, e lascia margini a comportamenti non corretti, tenendo presente che una normativa di questa natura è di carattere generale, vale cioè per questa, come per altre Giunte Comunali.

Vero è che gli atti di Convenzione sono assoggettati, dal punto di vista del controllo, alle stesse procedure di un Atto Pubblico, ma tutto il formarsi dell’atto è caratterizzato da comportamenti discrezionali. Quelli che curano l’interesse privato, ma anche quelli che dovrebbero curare l’interesse pubblico.

E, per quanto caratterizzato magari da efficienza ed efficacia, il comportamento discrezionale, poco si addice alla tutela dell’interesse pubblico.

D’altra parte, si pone in capo alla Giunta Comunale un tale ampio margine di intervento, in assenza di atti pianificatori di carattere generale ( nuovo Piano Regolatore, che pure dopo il sisma, per obbligo di Legge, a partire dal giugno 2009, avrebbe dovuto essere redatto ), che, a questo punto, vi è una scarsissima relazione, sia con gli istituendi Consigli Territoriali, sia con il cosiddetto “Urban Center”; vale a dire cioè che, gli strumenti possibili di partecipazione democratica alle decisioni di pianificazione del territorio, rischiano di essere pesantemente svuotati, quanto a effettivo margine di intervento, dal forte accentramento di poteri discrezionali  che la Delibera realizza in capo alla Giunta Comunale.

Come semplice cittadino, spero che la Giunta ripensi a questa Delibera, ne interrompa la immediata esecutività, e risponda alle esigenze ad essa sottesa, con un più forte accento sulla tutela dell’interesse pubblico in tema di pianificazione territoriale.

Considerazioni a margine della stagione rugbistica

10 maggio 2015 alle ore 18:07

Le otto migliori squadre europee di rugby, quest’anno, arrivate ai Quarti di Finale della “Coppa Campioni del Rugby “, fanno riferimento a città di 25.000 abitanti; di 83.00 abitanti ; di 144.000 abitanti, o di 166.000 abitanti, o di 189.000 abitanti, o di 316.000 abitanti. Due squadre, fanno riferimento alle capitali Londra, e Dublino.

L’Aquila, ha una provincia di 306.000 abitanti; un territorio ( quello della vecchia ALS n. 6 ), di 106.000 abitanti, un’area comunale, di circa 70.000 abitanti.

Sono solo numeri. Naturalmente. Ogni realtà ha storie, economia, tradizioni sportive, peculiarità geografiche, collegamenti, contesti nazionali, diversissimi tra loro.

Ma i numeri, raccontano una piccola verità.

Da un punto di vista “dimensionale”, la realtà aquilana, non è distante dalle realtà territoriali che esprimono il meglio del rugby professionistico continentale.

Si è conclusa ieri una stagione, per L’Aquila Rugby, nel massimo campionato italiano, difficilissima. Su 18 partite giocate, 16 sconfitte, e 2 vittorie. Entrambe ottenute contro la squadra che ha chiuso il campionato con zero punti, ultimo posto in classifica, e retrocessione.

La squadra aquilana, veniva da un anno precedente, affrontato con un’altra compagine societaria, e con enormi problemi finanziari.

Grazie, alla nuova Società che gestisce L’Aquila Rugby; agli atleti, agli sponsor; grazie ai tecnici. A tutti quelli, che hanno reso comunque possibile partecipare al massimo campionato italiano e conquistare sul campo la possibilità di esserci ancora il prossimo anno. Non era scontato.

Sono un tifoso, della squadra di rugby de L’Aquila, pur non essendo aquilano di nascita. Posso dire che, da quando sono a L’Aquila, sia pure con discontinuità, ma dal 1987 ad oggi, e in particolare negli ultimi quindici anni, più o meno, ogni sabato, o domenica, sono andato allo stadio, a sostenere i colori neroverdi. Pagando sempre il biglietto, o l’abbonamento.

Anche nel 2009. Nella partita di Roseto, o in quelle giocate al Flaminio.

Non è un titolo di merito.

Però, mi voglio permettere qualche riflessione, su quello che, in questi anni ho visto. E, anche un po’ sul futuro. E chiedo scusa, in anticipo, se paleserò, qui, alcune mie deficienze “tecniche”, per così dire, o se pesterò qualche piede.

Mi piacerebbe che le mie parole possano essere utili a stimolare una riflessione, e un’azione. Tutto qui.

La squadra ha perso, nel tempo, il suo rapporto con la città.

Lo stadio non si riempie mai.

Io penso che ci si debba chiedere perché, questo accade, in un luogo che ha il rugby tra i suoi elementi identitari.

In un luogo dove sono nati alcuni tra i migliori giocatori che hanno militato e militano nella nazionale italiana di rugby; in un luogo che ha dato, e dà alla nazionale e al paese, alcuni tra i migliori tecnici, e dirigenti di questo sport, anche nell’attuale staff della nazionale italiana; in uno sport che, unico, ha portato la città più volte a fregiarsi del titolo di Campione d’Italia.

Lascio per il momento da parte, pure avendole ben presenti, questioni di contesto, per così dire. La crisi economica; l’incidenza del sisma su una situazione già molto compromessa; la capacità del rugby, molto in difficoltà, su un piano nazionale, a suscitare interesse e partecipazione.

E guardo a l’Aquila.

L’impresa aquilana, salvo qualche eccezione di carattere nazionale o multinazionale, è sotto capitalizzata. La difficoltà delle imprese edili del territorio aquilano, anche nelle ricostruzione post-sisma, è tutta qui. Nella loro fragilità finanziaria. Dipendente anche dal nanismo dimensionale, dalla forma proprietaria spesso solo familiare, e dallo scarsissimo investimento in ricerca e innovazione.

Alla scarsa forza finanziaria una volta sopperiva, in varie forme, qualcuna non del tutto legittima, il binomio politica-banca locale. Una leva quest’ultima, oggi non più utilizzabile.

Un territorio come quello aquilano, che ha pesantemente subito il ciclo di dismissioni, privatizzazioni, ristrutturazioni, dell’impresa, sia quella privata che quella, una volta, a partecipazione statale, senza che ad essa si sostituisse qualcosa di paragonabile per dimensioni, cultura industriale e capacità finanziaria, stenta, strutturalmente,  a trovare le risorse per investire anche in campo sportivo.

E’ questo, credo, il primo punto che, da tifoso, andrebbe affrontato, per non veder scomparire da L’Aquila il rugby.

Il fatto cioè, che sia necessaria una impresa, finanziariamente consistente, per affrontare il futuro.

A L’Aquila, e in tutta la provincia, militano diverse compagini di rugby. In quasi tutte le Serie nazionali. Comprendendo anche le diverse categorie di Rugby giovanile e femminile.

E’ del tutto privo di significato che ciascuna di queste compagini abbia assetti societari, gruppi dirigenti, sostegno popolare, gestione dei campi sportivi, ciascuno staccato dall’altro, talvolta contrapposto.

Sono consapevole, che ciascuna di queste Società, abbia una sua storia, un suo riferimento, una sua ragion d’essere ed un suo legame con il territorio.

Ma è una somma di debolezze.

Non mi permetterei mai di accusare di alcunché qualcuno, o qualcosa.

Mi permetto di dire, a tutti, che l’orizzonte è l’Europa.

E non Teramo, o Rieti, con tutto il rispetto.

Mi permetto di dire che è necessario, e non ulteriormente rinviabile, andare oltre ogni singolo interesse, che pure andrà tutelato, e oltre ogni singola riconoscibilità, che pure dovrà proseguire.

Ma occorre immaginare, perseguire, e costruire un disegno unitario e unico. Una unica grande compagine societaria, che persegua una politica sportiva, legata al territorio, alle realtà esistenti, che investa sui giovani, uomini e donne, che costruisca una relazione stabile con le scuole di ogni ordine e grado. Con un orizzonte nazionale, innanzi tutto, e poi europeo.

So di stare parlando di Società private. Cui nessuno può imporre nulla.

Ma, qui, può intervenire un ruolo della politica.

Lo stadio Tommaso Fattori è di proprietà comunale. E si trova in una zona strategica, della città, a ridosso di uno degli ingressi al suo Centro Storico. E’, collegato ad altri impianti sportivi, anch’essi di proprietà comunale.

Io penso che l’area dello Stadio possa essere interessata da un rilevante progetto di riqualificazione urbana. Anche in funzione di un possibile affidamento dei Giochi Olimpici a Roma nel 2024.

Lo stadio, in sé, costituisce, in una certa misura, una emergenza storico-architettonica di rilievo. Che, oltre a meritare una urgente manutenzione straordinaria, potrebbe essere inserito in un progetto più ampio, oggetto magari anche di specifici finanziamenti nazionali ed europei.

Che consentano di trasformarlo in una struttura sempre fruibile. Magari integralmente coperta. Magari dotata di aree di ritrovo che coinvolgano imprenditoria privata, a partire da quella che già si trova nelle aree limitrofe.  Magari dotata di parcheggi sotterranei, utili in sé per la città, purchè sicuri sul piano sismico e non impattanti su un piano ambientale; senza prevedere particolari ulteriori opere, come i tapis roulant del parcheggio di Collemaggio, inutili, data la vicinanza con il Centro città.

Il complesso delle attività che nello Stadio possono esercitarsi, attraverso una Convenzione, che preveda sì, lo sport professionistico, ma anche quello dilettantistico, popolare, dei disabili, e quello legato alle attività scolastiche, possono essere affidate in gestione, attraverso procedure trasparenti e rispettose della libera concorrenza sul mercato ( anche tenendo conto di rilevanti finalità sociali, come la stessa Unione Europea riconosce ), per un corretto numero di anni, ad una Società detentrice del titolo sportivo del Rugby al massimo livello.

E questo tipo di ragionamento, può riguardare tutti gli impianti in cui, nel Territorio, anche in comuni diversi da l’Aquila, anche in tutta la Provincia, si gioca il rugby, coinvolgendo anche il CUS e l’Università.

Una Convenzione di questo genere, diviene un titolo economico. Spendibile sul mercato del credito bancario. Capace di attrarre capitali imprenditoriali.

E’ questo lo spazio che l’Amministrazione Comunale, coinvolgendo anche Provincia e Regione se possibile, può esercitare.

Un’unica Società Sportiva, capace di attraversare ogni Campionato con sue compagini, anche dilettantistiche e di diversamente abili, che investa in particolare nei giovani e nelle donne, e dotata della possibilità di gestire, in modo polifunzionale tutti gli impianti sportivi che le vengano affidati, dopo essere stati oggetto di importanti interventi di riqualificazione urbana. Di modo che possa finanziarsi sul mercato, anche con l’apporto di capitali industriali, e, se possibile, di un forte azionariato popolare.

Una Comunità, fatta anche di ex atleti che collaborino sul piano tecnico, dell’immagine e sociale; una Comunità che metta insieme le rilevanti professionalità, che ci sono già oggi, sul piano della fotografia, del cinema e dell’audiovisivo, del giornalismo, capaci di avviare e consolidare strategie di comunicazione e di marketing con la città e con tutto il suo territorio, la Provincia e il Paese.

Anche attraverso l’uso di tecnologie innovative.

Una Società che sia in grado di costruire relazioni positive con la Federazione Nazionale, e con i migliori uomini aquilani che siedono ai vari livelli e giocano in squadre straniere.

Tutto questo, dovrebbe rappresentare una città e una Società sportiva aperta. Connessa con l’Europa. Dinamica. Non ripiegata sui suoi piccoli egoismi e interessucci. Ma anzi, solidale, coesa, consapevole della portata di un obiettivo ambizioso eppure possibile.

Un potente elemento di sviluppo economico anche.

Perché in Europa sono i luoghi che hanno le dimensioni di una città, e di un territorio come il nostro, che possono conoscere i più alti tassi di sviluppo. Purchè si comprenda che è un dovere, fare “massa critica”, e non disperdersi; avere una visione; coinvolgere i cittadini e renderli protagonisti.

Sono consapevole, che molto di quel che ho scritto è terribilmente difficile, da realizzare. Per tante ragioni, anche soggettive. E sono anche consapevole, che molto altro si può aggiungere, o modificare, a quel che ho scritto.

Vorrei però che tutti noi provassimo a comprendere una cosa.

Se una città come L’Aquila, non investe su sé stessa, sulle proprie peculiarità, sui propri saperi, costruiti negli anni, sulle proprie passioni, davvero, non c’è alcuna possibilità di affacciarsi all’Europa, ma neanche di restare in Italia.

Il rugby può essere una opportunità straordinaria.

Oggi, a L’Aquila, per me, il rugby, è una passione triste.

Vorrei non divenisse anche “Solitaria y Final”, come avrebbe detto il grande scrittore argentino Osvaldo Soriano.

Insomma, mi piacerebbe vincere, che la squadra vincesse, che la città vincesse.

10 novembre 2015

Signor Presidente della Repubblica,
Lei, lunedì prossimo, sarà a L’Aquila.
Parliamoci chiaro, Lei, dal punto di vista delle Sue attribuzioni istituzionali, può fare ben poco, direttamente, per la nostra Città.
Però, forse, una cosa importante, potrebbe farla.
Lei, potrebbe venire qui, una volta l’anno, ad esempio.
E chiedere “Perché “.
A Lei, se non altro per cortesia istituzionale, una risposta sarà dovuta. E noi semplici cittadini, potremo ascoltarla.
Mi permetto, scusi la presunzione, di farle un piccolo elenco, non esaustivo, di alcuni “perché”, ai quali io sarei interessato ad avere una risposta.

Perché a L’Aquila, non si fa il nuovo Piano Regolatore Generale ?
Perché a L’Aquila, le abitazioni provvisorie, edificate abusivamente, non si abbattono, ma sono dotate di tutte le opere di urbanizzazione necessaria, comprese acqua, luce e gas ?
Perché a L’Aquila, ancora non si interviene per la ricostruzione del Duomo, e, più in generale, la ricostruzione del patrimonio artistico, è in fortissima difficoltà ?
Perché a l’Aquila, la ricostruzione degli edifici che ospitavano funzioni, e istituzioni pubbliche, è in grave ritardo e difficoltà ?
Perché a L’Aquila, per esempio nella zona di Sant’Elia, o a Coppito, ci sono case provvisorie costruite nelle aree alluvionali dei fiumi ?
Perché, a L’Aquila, il Vivaio Regionale Mammarella, che potrebbe essere utilissimo, per le aree verdi della città, e per il rimboschimento, insieme ad altri Vivai del Corpo Forestale, è in completo e totale abbandono ?
Perché a L’Aquila, l’intera area di Collemaggio, di proprietà della ASL, non è interessata da un serio progetto di ricostruzione pubblica ad uso sociale ?
Perché a L’Aquila, gli alberi si abbattono, invece di curarli e piantarne di nuovi ?
Perché a L’Aquila, l’Università appare impoverita, e non in grado di essere uno dei volani di sviluppo del Territorio ?
Perché a L’Aquila, e nel circondario, importanti aree pubbliche, sono affidate, quasi senza oneri, a soggetti privati che perseguono solo il proprio interesse ? ( ad esempio, l’Aereoporto, l’area ex-Italtel ).
Perché, a L’Aquila, tutte le importanti Istituzioni culturali presenti, sono in serissima difficoltà economica e di futuro ?
Perché a L’Aquila, non si riesce, né a gestire direttamente, né ad affidare la gestione, con finalità di interesse pubblico, ma anche con risultati economici per il privato, del rilevante patrimonio esistente, e in costruzione, degli impianti sportivi ?
Perché a L’Aquila non c’è un ciclo integrale di gestione dei rifiuti, ma si vuole costruire un impianto a biomasse la cui alimentazione, in termini di massa vegetale vergine, è impossibile ?
Perché a L’Aquila si vogliono fare nuovi interventi infrastrutturali ed edilizi, nell’area del Parco del Gran Sasso, senza prima risanare e riutilizzare quello che esiste ( a partire dalla Fossa di Paganica ),e che, nelle condizioni in cui versa, deturpa l’ambiente, producendo solo perdite pubbliche e scarsissimi profitti privati ?
Perchè, a L’Aquila, è così difficile provvedere alla ricostruzione delle Scuole Pubbliche ?
Perchè, a L’Aquila, è così difficile provvedere alla ricostruzione delle Case Popolari ?

Quando un bambino chieda il “perché”, delle cose, rispondergli, significa aiutarlo nella crescita, illuminarne i passi futuri, correggerne gli errori.
Figuriamoci quanto bene potrebbero fare le risposte date al Presidente della Repubblica.

Con rispetto,
Luigi Fiammata

17 novembre 2015

Delirio aquilano, nazional europeo. Mondiale.

Guido la mia automobile per L’Aquila. Lungo la strada, vedo uno, due, tre, ragazzi in fila, che camminano. Sulla strada senza marciapiede. Rischiano ad ogni passo, d’essere investiti. Sono neri, di pelle.
Probabilmente, sono alcuni dei rifugiati che toccano alla nostra città, nella divisione dei pani e dei pesci, che si fa di tutti quelli che arrivano dal Mediterraneo.
Quelli sopravvissuti ovviamente. Quelli che non riusciamo a far partire subito per il resto dell’Europa.
Poi, arrivo al centro commerciale, e trovo il ragazzo, nero, che sta lì, fermo, a salutare tutti quelli che entrano ed escono, sperando che qualcuno gli allunghi una moneta. Elemosina, si chiama.

Dietro a quel centro commerciale, c’è un mare di cartoni per terra, e immondizie varie, e disordine, ed erbacce che spuntano dall’asfalto. E mi viene in mente che, io, nelle sue stesse condizioni, entrerei nel centro commerciale, cercherei un responsabile, e gli chiederei quanto è disposto a darmi, in moneta, se mi mettessi a pulire quel che sta là fuori.
Poi, però, penso.
Che se quel ragazzo si facesse male, mentre pulisce, qualcuno dovrebbe giustificare alle autorità quel che stava accadendo. E se arrivasse un Ispettore del Lavoro, qualcuno potrebbe trovarsi ad essere denunciato per sfruttamento di lavoro nero.

Il centro commerciale, in ogni caso, già risparmia un posto di lavoro, perché, al semplice prezzo di un euro, obbliga me a tenere in ordine i carrelli che posso utilizzare per far spesa lì dentro. Ad un supermercato della catena multinazionale, che sta là dentro.
E può restare del tutto disinteressato al decoro dell’area intorno.
Non c’è nessun incentivo per i titolari del centro commerciale, a tener pulito e in ordine; non c’è nessun incentivo per il ragazzo, a lavorare.
Ammettiamo che venga pagato in voucher, dieci euro lordi, sette euro e cinquanta netti l’ora. Quante monete prende, in un’ora, salutando chi entra e chi esce ? Il voucher dovrebbe pagare il lavoro accessorio, però; ma, tenere pulite le aree del centro commerciale, non dovrebbe essere un accidente accessorio; bensì un obbligo necessario.
E nessuno, della comunità, o delle istituzioni, si preoccupa di andare da quel ragazzo. Di chiedergli da dove viene, perché è qui, e come, in Italia. Come vive, cosa si aspetta dal vivere qui. E perché, aspetta una moneta.
Si potrebbe persino scoprire che, essendo in attesa di una definizione del suo status giuridico, non può, giuridicamente, lavorare. Perché, in Italia, per lavorare, devi aver il Permesso di Soggiorno, in corso di validità, ma, se non hai il Permesso di Soggiorno in corso di validità, non puoi lavorare. Che è un regalo della legge Bossi-Fini, sì, due che ci hanno persino governato, forse qualcuno se li ricorda, e che nessun Governo successivo, ha mai pensato di cambiare.
E, sia chiaro, che, all’ombra del permesso di Soggiorno, il Lavoratore straniero, subisce ricatti. Ogni giorno.

Vuoi rinnovare il Permesso di Soggiorno ? Paga, così ti assumo per tre mesi, me ne lavori sei, e senza fiatare con gli straordinari. Ti è scaduto il Permesso di Soggiorno, e ti serve un lavoro per rinnovarlo ? Lo compri, un lavoro, pagando; lavorando senza essere pagato. Ti sta per scadere il Permesso di Soggiorno, che devi rinnovare ? Se non vuoi essere licenziato, sai come devi comportarti. Tu firmi una busta-paga dove c’è scritto che io ti do 1200 euro al mese, ma te ne do, in realtà, 500. E stiamo pari.
Così impari come funziona il mercato. La competizione. Il massimo dei valori che l’Occidente cristiano ti offre, e cui devi adeguarti.
Funziona così. Esattamente, così. Anzi, può anche capitare che c’è qualche straniero che ha messo su un’impresa, che magari serve esattamente a questo, a far ottenere permessi di soggiorno. E l’unico fatturato che fa è la tangente che lo straniero paga per essere assunto. Per non far nulla, solo per ottenere il pezzo di plastica.
Qualche italiano, qui in Abruzzo, è stato perseguito, per questo.
Perché la fantasia degli avvoltoi è infinita.

Ad Avezzano, sul retro di un centro commerciale, c’era un cartone poggiato per terra, in strada, e una bottiglia d’acqua minerale mezzo piena.
Quella era una moschea.
Il fedele che arrivava, aveva l’acqua per le sue abluzioni rituali, e un tappetino di cartone per poggiare le ginocchia mentre pregava. Nello stesso posto dove parcheggiano le auto, e dove pisciano i cani.
E immagino, se dovessi dire ad un cristiano, un cristiano vero, qui, oggi, che se vuole pregare, deve farlo nel retro di un bar, poggiando le ginocchia su uno zerbino dove ci si puliscono i piedi.
Pregherebbe, il cristiano, comunque, ne sono certo. Come prega il musulmano. Che però lo deve fare cinque volte al giorno, e quindi, fannulloneggia, proprio come tanti italiani giovani che stanno bene sotto le gonne della mamma.

Io, invece, guardo i bidoni dell’immondizia, messi dall’altro lato della strada, di quella moschea improvvisata ad Avezzano. E ci vedo arrivare il vecchietto, italiano. Che apre il bidone, e ci infila il braccio dentro, per vedere se trova da mangiare. Come ho guardato la stessa scena sul retro dei supermercati aquilani. In qualche caso, arrivano famiglie intere, a cercare. Qualcuno pure in automobile.

Prima gli italiani.

Nell’assegnazione di case, del lavoro, dell’assistenza sanitaria, nella scuola: prima, e prima di tutti gli italiani. Che infatti prendono le pensioni prima dei lavoratori stranieri, che, in maggioranza, qui, non ne prenderanno mai, pur pagando, come tutti, i contributi.
Perché deve essere chiaro, che io non sono razzista, ma non è vero, che tutti gli uomini sono uguali. Figuriamoci le donne.
Bisogna avere il coraggio di guardare la realtà per come è. E confrontarsi con quello che davvero, è il pensiero di tanti e di tante.
Gli uomini non sono tutti uguali.
Siamo a prima dell’Illuminismo. A prima della Ragione.
Settanta fallimentari anni di Repubblica. Sempre lì, stiamo.
La Costituzione della Repubblica Italiana, è di una minoranza.
Gli uomini non sono tutti uguali. E le donne, non ne parliamo.
Altro che, Buona Scuola.

Prima gli italiani, che sono migliori. Distinguendo però gli italiani meridionali, che sono un po’ meno migliori degli altri.
Fin quando non incontri un tedesco qualsiasi, che dice che siamo mafiosi. Tutti, da qualsiasi parte proveniamo.

All’origine della civiltà occidentale c’è l’Odissea. Tra le altre narrazioni.
L’Odissea è il racconto, continuo, minuzioso, di come si accoglie lo straniero. Quello nudo, raccolto mezzo morto dopo un naufragio. Sporco, puzzolente, e con la faccia pericolosa.
Quello straniero lì, a te sconosciuto, lo porti nella tua reggia, lo lavi, gli dai le vesti migliori che hai, lo profumi con i tuoi oli, uccidi il miglior bestiame a tua disposizione per nutrirlo, e ascolti i suoi racconti. E quando se ne va da casa tua, lo riempi di regali preziosi.
Perché da straniero, è diventato tuo ospite.
E, un giorno, potresti essere tu, l’ospite. Prima, straniero.

Ma quando arrivano tremila profughi tutti insieme sui barconi a Lampedusa, che fai, dove li mandi ?
Confesso che sarebbe davvero una bella sfida, accoglierne uno per ogni casa. Chi può, naturalmente.

Io, per esempio, non posso.
Lavoro tutto il giorno. Ho un giardino piccolo piccolo. Come faccio, a tenerlo ? Certo, se fosse una donna, che mi fa le pulizie, potrei pensarci.
Io, preferisco aiutarli a casa loro.

Là dove gli posso vendere le armi fabbricate dalle mie aziende. Avere le concessioni per estrarre petrolio e gas naturali e intascare i profitti. Scavare i loro diamanti, e i loro metalli rari per i miei telefonini, mentre fomento i cristiani contro gli animisti, i musulmani contro tutti, le tribù contro le tribù in massacri da decine di migliaia di persone. Che però, sono neri, di notte non si vedono, al TG delle venti non ne parlano per non turbare la cena, della mia famiglia normale, che poi ci sono le famiglie anormali che non so cosa guardano in TV alle 20.

Io, li aiuto a casa loro.
Come la polvere che infilo sotto il tappeto.
Come i fondi per la cooperazione internazionale, che ogni anno taglio dalla Legge di Stabilità.

Io che non voglio conoscere, nessuna delle regole che governano il commercio mondiale, e che stabiliscono, ad esempio, che io chiudo gli zuccherifici in Italia, e acquisto così lo zucchero dai Paesi in via di Sviluppo, che, a loro volta, in cambio del mio aiuto, mi consentono di comprare la loro acqua, i loro ospedali, le loro università. O meglio, lo consentono alle mie imprese, che in Italia licenziano, però, perché non siamo competitivi e i nostri lavoratori costano troppo. E se poi qualcuno, non può curarsi, in quei Paesi, o non può, mangiare, e viene qui su un barcone, e ha la faccia simpatica, facciamo pure una colletta per far sì che possa operarsi al cuore, ma ci teniamo tutti ben lontani da lui. Un euro a testa.

Come al tizio che sta davanti al centro commerciale, a salutare, tutti. Nero, vestito, e forse col telefonino in tasca.

Lo straniero, è un affare per le Coop e per la Caritas.
E per la camorra no ? E per la mafia no ? E per i caporali dei campi no ? E per tutti quelli che li fanno lavorare in nero, colf e badanti comprese, no ?
E non è forse un affare per tutti i cercatori di capri espiatori ? Per tutti quelli che, da secoli, quando non sanno come si risolve un problema, inventano un colpevole e preparano il rogo ?
Perché, se è uno straniero, a rubare, o uccidere qualcuno da ubriaco con l’auto, e lo fanno, sono tutti, gli stranieri, ad essere ladri ed assassini.
Ma se lo fa un bianco italiano, sul giornale, ci mettiamo solo le iniziali del nome e cognome, e, al processo d’appello, gli scontiamo la pena. E solo le vittime, piangono. Da sole, sempre.

Ci fosse uno che perde tempo a spiegargli, a uno straniero che abita al progetto C.A.S.E. chi era Pio La Torre, visto che vive in via Pio La Torre, o Eugenio Montale, o Anna Magnani, O Fabrizio De Andrè. Poi però, parliamo di integrazione. Che vuol dire integrazione ? Se non c’è scambio di parole e di culture, ci sono solo ospiti indesiderati.

Per lavoro, tra le altre cose, compilo i moduli che i Lavoratori devono consegnare alle imprese per richiedere gli Assegni Familiari. Questi moduli prevedono che venga apposta la firma, sia del titolare degli assegni, che del coniuge. Quando è il marito a venire da me per farmi compilare questi moduli, italiano o straniero che sia, vuol mettere anche la firma al posto della moglie, quasi nella totalità dei casi, e io glielo impedisco.
La libertà delle donne, l’educazione delle donne, la loro responsabilità, è il problema di questo millennio.
Una donna libera, forse, non fa otto figli. Dobbiamo tifare per le donne libere, se vogliamo sopravvivere come specie, che ha già consumato quasi tutte le risorse del pianeta.
Siamo consapevoli, spero, che la libertà delle donne fa a cazzotti col cristianesimo, con l’islam, o con qualsiasi altra religione, sì ?

Ma proprio per questo, io sono per rimpatriare a casa loro, e mi dispiace se lì c’è la guerra, e la fame, e l’Apocalisse, tutti quelli che vengono qui in Italia, e fanno tenere il velo alle loro donne. O ne pretendono l’infibulazione, o ne decidono il matrimonio. Mi dispiace. Il velo,e il resto, sono segni di inferiorità della condizione femminile, anche quando la donna, decida autonomamente ( non so quanto ), di accettarli. Se li vuoi accettare, li accetti nel tuo Paese. Qui, sei obbligata a provare ad essere libera. E proprio per questo, che io penso che, a scuola, o in ospedale, o in qualsiasi ufficio pubblico, i crocifissi, dovrebbero essere soltanto in spazi precisi, dedicati al culto o al raccoglimento. Non ovunque.

A me non danno fastidio. Fanno parte della mia educazione e della mia storia. Anzi, io li rispetto profondamente.
Ma lo Stato è laico. Oppure non è. Semplicemente, non è.
E laico, significa rispettoso di tutti e di tutte. E essere laico è l’unico modo, di rispettare, perché altrimenti è lecito pensare d’essere migliori, di altri. E, Cristo, proprio Cristo, invece, ti chiede se vuoi essere tu, a scagliare la prima pietra, tu, che certamente, non sei peccatore.

A Otranto, dentro la chiesa di Otranto, nella cripta, ci sono le ossa di tutti quelli cui i pirati turchi tagliarono la testa nel 1480. Perché non vollero convertirsi. Ma almeno, loro, alle persone avevano lasciato una possibilità.
Il legato papale Arnaud Amaury, nel 1209, a Beziers, fece massacrare una intera città, di eretici catari, e di una maggioranza di cattolici. “ Tanto Dio, riconoscerà i suoi “.

Gli imperialismi, e la volontà di potenza. Sono tra gli uomini. Ne alimentano la rabbia, l’ingordigia, la follia. Qualunque colore abbia la propria pelle. O qualunque religione si insegua.

Alla fine, un euro, al ragazzo nero davanti al negozio glielo lascio. Magari gli serve per un caffè, per un panino, per le sigarette, o per la ricarica al cellulare.
Io sono fortunato, e mi posso permettere di lasciarglielo.
Anche se mi pesa, perché sono solo, di fronte ad un gesto del genere, che può perpetuare la passività, o aiutare chi ha vero bisogno.

Da bambino, alle scuole elementari, ci raccontavano la storia del “Nodo di Gordio”, come fosse una realtà vera. E io lo vedevo, Alessandro Magno, che, senza perdere tempo in tante chiacchiere inutili, tirava fuori la spada, e tagliando con un sol colpo, il nodo che Gordio gli proponeva di sciogliere, risolveva il problema. Con un guizzo d’ingegno, mentre altri prima di lui, senza risultato, avevano provato a districare quel nodo mettendoci le mani dentro.
Io, oggi, invece, se posso mantenere ammirazione per la soluzione di un problema, guardato con occhi diversi da tutti gli altri, vorrei invece che ci fossero dei soggetti collettivi, che, senza infingimenti, affrontassero gli infiniti nodi e contraddizioni che ho provato a rappresentare sommariamente.
Mettendoci le mani dentro.
Perché è dallo scioglimento dei nodi, che la corda dell’umanità è salvata.

La vendetta, genera solo altra vendetta.
L’indifferenza, genera solo cancrena.
La separazione, genera solo ignoranza.
La sopraffazione va eliminata.
La paura alimenta la paura

Di questi giorni, io non ho più voglia di far finta che piccole questioni quotidiane, non abbiano in realtà risvolti enormi, per i destini del pianeta.

27 novembre 2015

Grida manzoniana.

E’ proprio una idea sbagliata.
E’ l’idea che ammorba l’Italia. Quella delle Grandi Opere.

Si fa così. La polvere va sotto il tappeto, e, per il salotto buono, compro un altro soprammobile che raccoglie polvere, e leva luce dalle finestre.
La polvere s’ammucchia. E la respiriamo, senza neanche farci più caso.

Magari è un’idea che serve per passare alla storia, proprio come persona dico. Quello è il Ponte di Giovanni da Verrazzano.

E come si chiamava l’ingegnere che ha scempiato Pettino, e L’Aquila, con l’autostrada ? E il genio del ponte su Fontesecco, come si chiamava ? No, così, per ricordarli nelle preghiere della sera. Perchè, tanto, diversamente, non si poteva fare.
Gli austriaci, quelli che amano la Signorina Rottermayer, e che, notoriamente, hanno qualche pendio da affrontare, fanno strade che seguono il disegno delle montagne. Un po’ più lente di un Ponte sullo Stretto di Messina. Però, le fanno: ci si cammina ovunque, e sono pure belle da guidare.
Ma, gli austriaci, a noi italiani, cosa avrebbero da insegnare ? Nulla, proprio nulla. I cioccolatini di Mozart sono molto meno buoni dei Baci Perugina della Nestlè.

La domanda che ci si pone, non è se serva, o meno, se sia una priorità, o meno.
Bensì si parte dalla coda.
Diciamo che esistono dei soldi da spendere. Tanto questi soldi sono solo il preventivo, nella migliore delle ipotesi, perché, a consuntivo, i trucchi per raddoppiare i tempi e triplicare gli introiti privati e i costi pubblici, si trovano.
Poi si spara una notizia, e si vede l’effetto che fa. Quindi, si mette in moto una macchina. I soldi generano consenso, forse. E appiattiscono il senso critico. E, in tempi di crisi, basta agitare i soldi, per ottenere sogni di lavoro. E rendono proni tutti i livelli gerarchici. E qualche gruppo di imprese s’occupa di far pressioni. Il Governo va convinto. Ma se usiamo le parole giuste, si può convincere. Masterplan. Ratataplan.
Una strategicità, non si nega a nessuno.

Un finanziamento iniziale di 200.000 euro, per aprire la pratica con qualche studio di progettazione, per una fattibilità preventiva, che però incassa comunque, sia che si realizzi, sia che evapori, l’opera, è quello che si scrive in una Legge di Stabilità.
Perché così, per dieci anni, o trenta, siccome è scritto su qualche carta, esiste. Nella realtà virtuale delle programmazioni esiste. E, fa nulla, se, esistendo, e costando, blocchi qualunque altra cosa. O progetto pensabile. Voi avete il Ponte.

La burocrazia d’ogni ordine e grado s’occupa di rendere perpetuo l’impegno. E s’incista. Nelle coscienze che lo vedono già stagliato nel cielo, e s’arrabbiano, se non lo si realizzi, a sfregio del Capoluogo di Regione. Scippato.
Quante Delibere Regionali, si scrivono, o si pensano, negli uffici aquilani della Regione ?
C’è una statistica, per questo ? Così, per sapere.

Il Ponte corre sul fiume, sulla ferrovia, e risolve il traffico.
Quello stesso traffico che oggi deve passare per un’ansa, traversando il fiume su un ponticello, perché i negozianti che son lì, non possono essere disturbati da un vecchio progetto di strada, che risolverebbe ogni strettoia, con la chiesa puntellata di legno, ferma da sei anni e mezzo; esattamente a qualche metro in linea d’aria, da dove è crollata una casa, costruita sulla ferrovia, uccidendo, e da dove è stato costruito un palazzo, poggiato sul fondo scosceso della collina, che, se la disboschiamo un altro po’, la collina, precipita tutta a valle, con la prima pioggia seria, dentro il palazzo appena costruito, e non fa fino.
Che assenza d’eleganza.
Risolverebbe, il vecchio progetto.
Ma, non disturbare, è meglio. E’ meglio la grande opera.

L’italiano, è una lingua magnifica.
Con una parte di parole, predichi, da anni, la necessità di ricucire le periferie, di fare manutenzione del territorio, di prevenire il dissesto idrogeologico, il rischio sismico; di salvaguardare il paesaggio, le luci di notte, le lucciole, i terreni agricoli nelle aree urbane; immagini fantastici progetti di trasporto pubblico, per combattere l’inquinamento, il traffico, la solitudine.
Con le stesse parole, pronunciate un po’ più alla rinfusa, giustifichi ogni cialtronata possibile, perché è innovazione, sviluppo, modernità, futuribilità, zang zung tum tumb, a morte il chiaro di luna !

In termini di marketing politico, penso che il ponte sia una terrificante vaccata.
Guardate.
E immaginate quanti piccoli appalti, che, se li fate bene, li potete fare pure ad affidamento diretto, senza che l’Europa vi rompa le bocce nel paniere, privilegiando le imprese del territorio, con opere ad alta intensità di manodopera.
Per dieci anni di seguito, minimo. Immaginate un po’.

La posa dell’asfalto drenante su tutta la rete stradale cittadina, allargando un poco le sedi stradali esistenti, cominciando dalle frazioni; la realizzazione di marciapiedi camminabili da carrozzine e biciclette, da Paganica a l’Aquila, da Pagliare di Sassa a L’Aquila, da Arischia a l’Aquila, da ogni frazione fino a L’Aquila, e dentro l’Aquila. Marciapiedi, ovunque. E, ricordatevi, che, dove si cammina sorgono negozi. E pure sguardi d’amore.
La realizzazione di una rotonda all’ingresso di Coppito, e di una subito dopo, davanti alla strada che porta all’Ospedale. E tre rotonde, al posto dei semafori di Santa Barbara.
E un parcheggio sotto lo stadio Fattori, che non serve nemmeno il tapis roulant, per arrivare in Centro. E una rotonda davanti al Motel Agip, con una fermata degli autobus decente, ma senza altri palazzi.
La sistemazione dei marciapiedi di Viale della Croce Rossa, realizzando una seria passeggiata sotto le mura, senza il cafarnao di bidonville che sono lì.
E soprattutto attraversamenti stradali veloci che uniscano gli assi longitudinali della viabilità cittadina.
Piste per biciclette, cavalli e piedi, accanto al viale della Guardia di Finanza e fino a Pizzoli, passando per le bellezze archeologiche di Amiternum, e poi tutto lungo, fino a Navelli, perché lì, e ancora fino a Capestrano, ci sono castelli, chiese, grotte, aziende agricole, ristoranti; cose che possono essere utili per il turismo. Forse.

Mica come i magazzini di ferraglia edilizia, che stanno poggiati lungo tutte le strade del regno, recintati abusivi, con le baracche di legno e la televisione satellitare. Che sono un pianto, da vedere e sopportare, altro che L’Aquila bella me’.
La realizzazione di grandi magazzini, ad est e a ovest della città, in corrispondenza con le uscite autostradali, che gestiscano la logistica in ingresso verso L’Aquila, con mezzi piccoli, e magari ad orari definiti, creando persino dei posti di lavoro.

Ma, avete idea, di quanti piccoli espropri, solo di qualche metro, che possono dare soldi ai cittadini e qualche volta agli avvocati; di quanti dipendenti comunali e provinciali impegnati, da stabilizzare. Di quanti operai agricoli, per la forestazione e il verde pubblico; di quanti muratori, posatori di pietre, asfaltatori, ingegneri, geometri, accatastatori, potete impegnare con lavori come questi ?
Sono tutti voti, se fate le cose per bene.

E non parliamo di mettere in sicurezza, magari abbellendoli, e rendendoli passeggiabili, fiumi, torrenti e pozze, e canneti, e pioppeti e zanzare.
Mica come sta succedendo lungo via Giovanni Falcone ( che è un insulto al nome solo a pensarlo ), che ci stavano baracche di pietra sdirrupate, e ora si costruiscono ville. Sembra.

Dai.
Con una roba così, e tutto l’altro che si può fare e immaginare, ci campano di rendita tre generazioni di politici amministratori, e un paio di generazioni di aquilani ci arrivano alla pensione, persino. E magari servono persino meno soldi che per il Ponte dei Sospiri.
In quanti lavorano per un ponte ? Cinquanta, sessanta persone, più altrettanti di subappalto camorristico ?
Guardate che non conviene.

Pensateci, mentre, dal basso, guardate Collemaggio, che poi, tra una cosa e l’altra, rischiate di non vederlo più.
Pensateci, mentre immaginate la cementificazione dell’Aterno, perché i pilastri da qualche parte vanno poggiati.
Pensateci, mentre ancora dovreste discutere con i Consigli Territoriali di Partecipazione, o con l’Urban Center, o con tutti e due insieme, che, per favore, spiegatemi a che servono, quando basta inserire il Ponte della gomma del ponte in un elenco di desideri di Natale da spedire al Presidente del Consiglio delle Minestre, e lo skyline è fatto.
Pensateci, mentre restate incerti, su cosa accadrà della città doppia che abbiamo; quella che immaginiamo, che torna tutta dentro il Centro Storico, e quella di ora, che ha edificato ovunque, fuori dal Centro Storico.
Pensateci, mentre fate passare la nuova metropolitana di superficie, sotto gli archi del ponte, che si vedrà dalla Fontana delle Novantanove Cannelle, nascondendo tutte le montagnole che ingombrano l’orizzonte.

La città intelligente.
Apriamo un dibattito, capiamoci, su che significa intelligente.
Con moltissima umiltà, davvero, ma io penso che intelligente non ha niente a che fare, con furbo.

Nota a margine del Convegno GSSI

GIOVEDÌ 17 DICEMBRE 2015

Nel nostro Paese, la crisi che viviamo, è la crisi delle Città.

Da almeno trenta anni, la peculiare forma italiana della cosiddetta “finanziarizzazione dell’economia”, è l’aver puntato sulla rendita fondiaria.

Il disseccamento degli investimenti in Ricerca, in Produzione, in Servizi, in Innovazione, discende, in buona parte, dall’aver scelto, nelle città italiane, una scorciatoia per l’accumulazione.

La proprietà di un lotto di terra, piccolo o grande, dentro le mura della città, o immediatamente ai margini del confine urbano; la proprietà di un rudere ereditato in un Centro Storico, la svendita di immobili appartenenti ad Enti Pubblici, si è trasformata, negli anni, nella chiave di accesso ad una ricchezza certa, più o meno rilevante, per le Società, e per gli individui.

Il cambiamento di destinazione d’uso, attraverso la cosiddetta “edilizia contrattata”, da solo, senza alcun altro intervento che la mediazione politica e il sostegno, spesso interessato, o a sua volta mediato da altri e più cospicui interessi politici, di un sistema bancario pigro e parassitario, ha consentito a interi Gruppi Industriali, trasformatisi in Finanziari, o a singole famiglie, di moltiplicare il capitale di partenza, senza alcuno sforzo.

Producendo, troppo spesso, evasione ed elusione fiscale, città deturpate, paesaggi uccisi, capitali sottratti alla trasparenza dei loro impieghi, assenza del rischio, e quindi distorsione profonda e aggiramento di ogni regola di mercato. Corruzione e concussione sistemiche.

Il capitale si è trasformato in rendita. Vorace, e sterile. E si è concentrato in poche mani. Togliendo futuro all’Italia, con la complicità di una politica pavida, quando non corriva. Comunque, culturalmente subordinata.

Il punto vero, della nostra crisi, è la crisi della città.

La Città, il Comune, vanto della storia d’Italia, crocevia di commerci, di scambi culturali e di relazioni tra popoli, tra individui, luogo privilegiato dello studio universitario e del mecenatismo artistico; luogo di ricerca della Bellezza, per eccellenza, si è trasformato in un cimitero di loculi abitativi mononucleali, esteso per ogni campagna o pendio praticabile, e anche impraticabile, circondato da palizzate; privo di piazze e marciapiedi. Abitato da famiglie tra loro ostili spesso per motivi risibili. O concentrato, in bare verticali, anonime. Come formicai che stimolino, non cooperazione, ma indifferenza, o sopraffazione, o esclusione.

Senza identità alcuna, ma in compenso con migliaia, milioni di automobili, che lo percorrono continuamente, lo inquinano, ne rendono ancora più drammatica la trasformazione in puro scenario di cartapesta, spesso brutto e degradato, tra uno spostamento funzionale e l’altro.

Sia pure un po’ semplificata, ma non è anche la storia de l’Aquila, prima del sisma, questa ?

Ho ascoltato, con attenzione, il dibattito organizzato lunedì 14 dicembre dal Gran Sasso Science Institute. E vorrei poter aggiungere qualche mio pensiero, a quella discussione.

Il Sindaco de L’Aquila, nel suo intervento, affermava che, ora, la città è ad un bivio.

Dopo questi quasi sette anni, potremo andare verso una direzione che esalti il nostro futuro, o verso una drammatica decadenza.

Condivido, questa percezione, e proverò ad articolare, però, alcune mie riflessioni.

Il terremoto, ha rappresentato una cesura. Uno scarto improvviso, da un percorso di decadenza, avviato in città sin dalla prima metà degli anni ’90, in connessione con processi più ampi di carattere nazionale e internazionale. E ha convogliato su L’Aquila una quantità di risorse assolutamente imparagonabile a quella disponibile in altre zone d’Italia.

Queste risorse, saranno la leva attraverso la quale la nostra Comunità sarà in grado di costruire una forma di accumulazione primaria di tutti i fattori capaci di generare sviluppo ?

Questo mi è parso il tema di fondo che ha percorso tutta la ricerca e l’elaborazione che il Gran Sasso Science Institute, ha voluto proporre alla città.

Per poter rispondere a questa domanda, credo, si debba esser capaci di porre, nella gestione dell’ordinario, i semi delle scelte strategiche che vogliamo compiere.

Questi due piani, sono, ovviamente, tra loro intrecciati e comunicanti, e reciprocamente si influenzano; e, a distanza di sette anni dal sisma, certamente, molte scelte hanno già esercitato il loro peso e la loro influenza sul futuro.

La vita concreta si svolge nel fuoco di una crisi economica che prosegue, di cambiamenti mondiali, anche drammatici, che incidono su di noi; di una lotta politica incessante che restringe l’orizzonte temporale degli interessi reali delle classi dirigenti. Nel fuoco di una quotidianità difficile ed inedita, rispetto ad ogni altra esperienza del passato, e mentre, in ogni caso, i rapporti reali di forza, e di mercato, determinano comunque situazioni di fatto che, non è detto, possano essere modificati da una volontà politica che abbia comunque chiaro il percorso da compiere, e quali siano gli strumenti ad esso necessari.

A me pare, che il ruolo di una classe dirigente, intesa in senso largo, di carattere locale, possa e debba essere quello di costruire una “politica dei fattori”. In vista dell’obiettivo che si sceglie di avere. La capacità di una città, di essere, di per sé, fattore di progresso, dovrebbe costituire l’obiettivo da raggiungere.

Si sceglie di investire, una vita, o delle risorse finanziarie, o delle idee, in un luogo che sia bello, dolce, e sicuro da vivere. Che offra servizi materiali e immateriali al massimo livello. In cui, il costo delle transazioni non sia moltiplicato dalla burocrazia, dalla corruzione, dalla criminalità, dall’inquinamento, dagli spostamenti, dall’assenza di logistica e di modalità efficaci di trasporto; ma anzi, sia trasparente, anche nei processi; veloce, equo. Certo e negoziabile secondo procedure neutrali. Si preferisce un luogo che sia popolato di intelligenze, e non di tensioni sociali. In cui alla pari opportunità di formazione, anche di eccellenza, corrisponda il riguardo per il merito e non per le pratiche di cooptazione e raccomandazione. In cui l’articolazione dello Stato Sociale sia forte, e pervasiva, per tutto l’arco di vita delle persone.

L’Aquila, ha queste caratteristiche, oggi ?

Quel che si incontra, oggi, è l’affastellarsi della città provvisoria, dentro, e fuori, dalla città che, sino al 2009, consideravamo definitiva.

Allora, un primo tema, che si pone, alla Città della Conoscenza, che costituisce il traguardo, indicatoci dal Gran Sasso Science Institute, è la guida della Transizione, e, contemporaneamente, la prefigurazione dei contorni futuri.

Questo tema riguarda la de-localizzazione delle attività , ad esempio.

Se l’obiettivo che ci si ponga è il loro re-inurbamento, andrebbe costruita una politica che favorisca l’investimento in Centro.

Il tema degli affitti, e dell’auspicio a calmierarli, a me pare puro populismo.

I padroni degli immobili aquilani, pagheranno il prezzo che devono, alla giustizia e all’equità.

Al Comune, ad esempio, spetterebbe invece di costruire una politica delle tariffe e delle tasse locali, che privilegi, l’insediamento in Centro Storico, di attività Commerciali, o Direzionali, o di Servizio, anche differenziando per Settore, e non solo per metri quadri.

La TASI da pagare per una azienda di informatica, composta da giovani, potrebbe essere zero, in Centro, e quella per un pub, invece, dieci. Ad esempio.

Sarebbe un’azione dell’oggi, ma anche che prefiguri il domani, scegliere cosa favorire, e su cosa invece restare neutrali.

In questa ottica, sin da ora, andrebbe costruita una politica di ri-uso e di bonifica, degli spazi oggi acquisiti a tante attività che magari torneranno dentro le mura.

Se l’obiettivo che ci si ponga, invece, o insieme, al ritorno tra le mura del Centro, è un riequilibrio di funzioni, dentro una città diffusa, ma connessa, da trasporto pubblico d’eccellenza e corridoi fatti per uomini e donne, e non solo per automobili, e reti, materiali e immateriali, allora, andrebbero pensate polarità nuove, lungo il territorio comunale.

Ed è la ricostruzione pubblica della città, il perno di nuove possibilità. Mentre oggi è solo drammatico e ingiustificabile ritardo persino nell’avvio delle procedure.

Quella di Enti, Uffici, Istituzioni, Caserme. Quella delle Scuole, dell’Università. Che non deve essere, necessariamente “dov’era e com’era”, ma deve invece interloquire anche con i processi riorganizzativi dello Stato.

Ed è il tema del recupero di spazi edificati e abbandonati, o non gestiti, che sono tantissimi ed enormi, in città e nelle Frazioni, a concretizzare la ricucitura della città, che innalzi, anche per questa via, i valori immobiliari di tutto il territorio; e parte dalle funzioni, inedite, che possono essere assegnate ad aree che oggi sono marginali o degradate. Attraendo, anche per questa via, l’investimento privato, possibilmente di qualità..

Se non si agisce, lungo questa strada, deve essere chiaro che si sta, semplicemente, tutelando la rendita fondiaria dei soli proprietari del centro Storico. Ammesso ci si riesca. E ammesso abbia un senso, da qui ai prossimi dieci anni.

Che è una scelta legittima, ma che andrebbe esplicitata.

Così, come, ora e subito, va delineata una seria politica che abbatta tutto l’abusivismo edilizio, e risani il provvisorio. Ne costruisca le risorse finanziarie necessarie allo scopo, i processi e il consenso se possibile. Senza sconti per nessuno.

Questa è una azione per l’oggi, ma un segno vero di qualità del futuro.

Se l’Aquila sia di chi approfitta, o di chi rispetta le regole e il territorio.

Qualunque impresa seria, valuta, il grado di rispetto della legalità in un territorio, quando decida se insediarsi o meno; ed è questo un terreno dal quale nessuno degli attori politici e istituzionali può sottrarsi.

Quello che si vede, camminando lungo L’Aquila, è, semplicemente, vergognoso, oggi. Segnando una ferita profondissima al senso civico e alla stessa convivenza civile, persino prima di essere una pesantissima devastazione ambientale.

E basterebbe verificare i consumi, di acqua, luce e gas, per capire quanto sia radicato e diffuso l’abusivismo. E quanta evasione fiscale produce.

Il Territorio comunale non è un’isola circondata dall’Oceano.

E’ un luogo permeabile, e poroso, Che è innervato di relazioni e passaggi. Spontanei e informali, ma anche istituzionali.

L’Aquila non ha, ad oggi, una massa critica di persone, o di beni, o di servizi. O di imprese, in nessun Settore, tale da caratterizzarne l’identità, e renderne vitale per altri la funzione, in un quadro di riassetto istituzionale del paese, e in una Europa che, sempre più, su temi decisivi, non ha alcuna frontiera. E in un mondo che, costantemente, ridisegna il suo baricentro, e le sue traiettorie.

E’ decisivo per l’oggi, allora, e ancor più per il futuro, immaginare l’Aquila, dentro questo ridefinirsi delle gerarchie e dei processi.

Il territorio intorno a L’Aquila, quello della vecchia ASL n. 6, ma non solo, è fondamentale, e forse neanche sufficiente, per una serie di servizi e di relazioni da costruire/ricostruire.

Ciclo dei rifiuti, gestione dell’acqua, trasporti pubblici, sanità del territorio, assistenza, demografia delle aree interne, fenomeni migratori, turismo, residenzialità, emergenze storico-architettoniche. Tutto. Tutto andrebbe declinato, e governato, come minimo, su questa scala, a partire dalle necessarie intese istituzionali.

L’Aquila che non pratichi concretamente, e con generosità, questo ruolo, è destinata ad una sempre maggiore marginalizzazione.

L’Aquila che non discuta, e non costruisca relazioni, è destinata ad essere cancellata, quale Capoluogo di Regione. La Toscana prova a stringere alleanze con Marche ed Umbria. In molti guardano ad una unità dell’Abruzzo con il Molise.

Quali scelte, intende compiere L’Aquila, prima che altri decidano come e cosa unire ?

Oggi, già oggi, in Abruzzo, il baricentro delle determinazioni regionali, della loro elaborazione, non è a L’Aquila. C’è qualcuno che voglia togliere il velo a questa realtà, e affrontarla ?

Avrebbe senso, una traduzione istituzionale dell’Appennino Parco d’Europa ? Delineando, magari una idea di Regione dell’Appennino Centrale.

Esiste un tema, credo importante, che ha a che fare con l’attraversamento Tirreno-Adriatico. E con quale possa essere il centro, di questo attraversamento. Un attraversamento che, su rotaia, non esiste. E su strada non soddisfa le esigenze neppure lontanamente. Dovrebbe essere un grande tema questo, anche per l’Europa, a completamento di corridoi con i Balcani.

Una città, e il suo territorio, che traggono la propria ricchezza, essenzialmente, dalle pensioni, e dall’impiego pubblico, possono ambire ad un ruolo, ad una egemonia, dentro la costruzione degli equilibri del futuro ?

Le discussioni che attengono alle infrastrutture, materiali, e immateriali, hanno questa dimensione, dunque. E su questa dimensione, si può agire solo se, davvero, si è una Città della Conoscenza, meglio, delle Conoscenze.

Continuare ad arrabattarsi e a costruire il consenso sulla edificabilità di un terreno, con una apposita normativa in deroga, al solo scopo di trasformarlo in garanzia per una ipoteca bancaria produce una economia fatta di macerie. Peggio del terremoto.

Le stesse macerie che la ex banca locale, orfana della sua antica frequentazione con la politica, e interessata oggi a rispondere solo alla fame di profitto dei propri azionisti, lascia ammuffire nei suoi palazzi del Centro, ormai per lei privi di ogni significato.

Lo stesso dibattito sull’Università de L’Aquila, è viziato da questa fame immobiliare.

Cosa è, se non la brama di affitti in nero e di rendita finanziaria, tutta una parte di discussione sulla residenzialità, sugli studenti che vengono da fuori città, sul numero degli iscritti ai corsi dell’Università de l’Aquila ?

L’Università dovrebbe comprendere, credo, che una discussione sul suo futuro, non è proprietà privata del suo corpo docente, che peraltro in buona parte proviene e risiede fuori Regione. E se l’Università non lo comprende, le va fatto comprendere.

Perché un sistema della ricerca, che non abbia ricadute concrete e reali sul sistema produttivo del territorio, è privo di senso. E’, appunto, solo una macchina che alimenta stipendi dei propri dipendenti e birre al bar il giovedì sera, nella migliore delle ipotesi.

Nella ricerca, funzionano le reti, credo, e gli scambi, non la torre d’avorio.

Qual è il luogo, fisico, oltre che magari istituzionale, in cui i ricercatori delle fabbriche, quelli dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, quelli dell’Università, quelli del Gran Sasso Science Institute, e degli altri Enti di alta formazione della città dialogano, e si mischiano, e producono conoscenza e magari innovazione, e brevetti e impresa ?

La Legge 366/1990, prevedeva risorse per il trasferimento tecnologico, sulla piccola e media impresa del Territorio del Gran Sasso ( L’Aquila e Teramo ), delle ricerche operate dentro il Laboratorio di Fisica Nucleare.

Potrebbe essere ripresa, quella Legge, rifinanziata; si potrebbero coinvolgere CNR, INGV, ENEA…

C’è spazio, ad esempio, ancora, nell’ex Italtel, oppure anche quel luogo, pubblico, è destinato ad essere ceduto, per decenni al privato, per un tozzo di pane, senza che la città ne ricavi qualcosa di buono e utile ?

Ma ci sono anche gli spazi dell’ex Parco Scientifico e Tecnologico, nel quartiere di Santa Barbara, e gli spazi delle ex fabbriche del Gruppo Alenia, nei pressi della stazione ferroviaria. Tutti luoghi che possono essere ulteriori poli della Città della Conoscenza. Articolandone presenza e funzioni. Declinando la Cultura in ognuna delle sue molteplici forme, anche in forma di impresa, e di capacità di autonomo sostentamento economico, rompendo la frammentazione degli Enti Culturali, e delle spese folli per direzioni e presidenze di sottobosco politico. La collina di Collemaggio è lì, per essere e accogliere un grande Distretto delle Culture, in città.

Vi sarebbero le Conoscenze impegnate nella ricostruzione.

Ma, quali conoscenze, sono destinate a restare sul Territorio, quando le imprese che operano nei cantieri sono composte solo da manovali edili ?

Si guardi, alla composizione, per inquadramento contrattuale, dei Lavoratori assunti dalle imprese che operano a L’Aquila. Formalmente, è solo bassa manovalanza.

Questa condizione, non lascerà nulla, in termini di conoscenza, di saper fare trasmissibile, ed esportabile. Possiamo immaginare che questa condizione sia comune a gran parte degli studi tecnici che hanno progettato la ricostruzione ?

Le Leggi sulla ricostruzione non hanno mai considerato la sottocapitalizzazione dell’impresa aquilana, e anche dei suoi studi tecnici. Consegnando, nei fatti, al solo subappalto, o quasi, la nostra capacità produttiva e di progettazione.

C’è ancora spazio per intervenire su questo, per una ricostruzione, nelle frazioni, nei piccoli comuni del Cratere, nel centro della Città, che costruisca un modello di “saper fare” intervento e progettazione spendibile nelle zone a rischio sismico del Paese ?

L’Aquila ha una bassa densità abitativa, si dice quando furbescamente si voglia sottintendere che si può edificare ancora, ma questo è vero, perché nel territorio comunale, si trova quasi l’intero massiccio del Gran Sasso.

La conservazione della montagna, è l’unica strada attraverso la quale attrarre turismo. La fruibilità e l’infrastrutturazione della montagna, sono gli strumenti che consentono di avere una economia turistica.

A L’Aquila, abbiamo il mostro edilizio della Fossa di Paganica. Un terribile simbolo di come una iniziativa privata famelica e priva di programmazione, nel deserto delle scelte della Pubblica Amministrazione, produca solo un danno permanente al territorio e nessun beneficio per i cittadini.

Forse partire dalla sua demolizione, da un nuovo disegno condiviso, degli insediamenti umani dentro il parco del Gran Sasso è il primo passo, necessario, perché L’Aquila, nella sua montagna, riconosca un tratto centrale della propria identità.

Anche il Turismo è conoscenza.

Quanti sono i camerieri, o i cuochi, o gli addetti alle reception degli alberghi, che conoscano le lingue, o siano assunti con contratti regolari ?

Oppure per conoscenza si intende solo la conoscenza del prato accanto al cosiddetto Santuario della Jenca dove edificare un gazebo permanente che venda paccottiglia e un garage sotterraneo per i milioni di pellegrini, che certamente accorreranno da ogni parte del mondo ?

Se qualcuno entri in un albergo di Rimini, troverà nella reception, i pieghevoli pubblicitari, di decine e decine di locali di intrattenimento; di luoghi di ricreazione; di musei, castelli o parchi divertimento.

Se qualcuno dovesse chiedere al gerente il chiosco della porchetta, alla Villetta, dove si trovi la Grotta di Stiffe o la chiesa di Santa Maria Assunta di Bominaco, non è certo, che riceva una risposta apprezzabilmente utile.

L’Aquila, è la sua montagna, e la sua acqua, i suoi fiumi e torrenti.

E lo è dodici mesi l’anno.

Ma come trattiamo la montagna e i corsi d’acqua, come li facciamo essere risorsa preziosa, fattore di futuro, è un capitolo dell’oggi che prefigura una totale assenza di progresso domani. Se guardiamo a come siano ridotti i torrenti che passano dentro, la città, sepolti da strade, rotonde, cemento. Intubati. Impossibilitati ad essere percorsi, camminati, vissuti, in un qualche modo.

Non si può pensare che, anche in montagna, sia valida la politica del cambio di destinazione d’uso, che crei valore, solo attraverso l’edificato. Anche in montagna, produrrebbe solo macerie.

Certo, porre un Casinò in cima al Gran Sasso, sarebbe un’ottima possibilità di reimpiego del denaro, per chi abbia bisogno di occultarne la provenienza.

Mentre è necessaria invece la possibilità di fruire sempre, del territorio. Anche per gli sport invernali.

La impossibile privatizzazione del Centro Turistico del Gran Sasso, per assenza di interesse, e non per mancanza di volontà a regalare a poco prezzo un’altra concessione pubblica, dovrebbe far suonare potenti campanelli d’allarme in chi pensi che la nostra montagna possa essere destinataria di un modello di turismo e di fruizione sul tipo delle più rinomate stazioni sciistiche delle Alpi.

Occorrerebbe invece immaginare un nostro modello. Originale e autonomo. Sostenibile, sul piano dell’impatto ambientale, ma anche sul piano economico. Tanto per la Pubblica Amministrazione, quanto per i privati. E, urgente, in questo senso, è anche modificare la forma di governo del territorio, oggi ostaggio, non dei vincoli posti dall’essere Parco, bensì da una barocca costruzione di strumenti programmatori posti nelle mani di presidenze e direzioni confezionate ad uso esclusivo del sottobosco poltronistico della politica locale e nazionale. E non certo a servizio dei cittadini aquilani, tutti, che abitano la montagna.

In estrema sintesi, potrei dire che una Città delle Conoscenze, è il luogo nel quale vivere ed investire, perché sono le Conoscenze, a modellare nel tempo un bel vivere, a produrre progresso. Ad interpretare e dirigere il cambiamento, che è la cifra più vera, e nuova, dei tempi che viviamo.

E’ solo sulle Conoscenze, che L’Aquila potrebbe raggiungere la massa critica necessaria a farne un elemento indispensabile nella geografia delle priorità del futuro.

Ed è sulle Conoscenze, che occorrerebbe investire la quota di risorse che lo Stato mette a disposizione per lo Sviluppo della Città. E non, come è già avvenuto invece, per il sostegno alle gestioni ordinarie.

Infine, nel convegno del Gran Sasso Science Institute, si è voluto accennare, da parte dei tecnici comunali, al nuovo Piano Regolatore della Città.

Il Piano Regolatore non ha bisogno di aggettivazioni.

Deve regolare una idea di città. Dirigere il flusso delle idee e degli investimenti di cittadini ed imprese verso una idea di città.

Non può essere, come invece si delinea, uno strumento il cui unico ruolo è assecondare, attraverso la deregolamentazione, la libertà dei capitali di decidere panorami e funzioni urbane.

I Progetti strategici, fin qui delineati, altro non sono che il finanziamento pubblico, tramite le risorse della ricostruzione, di priorità solo private.

Così come le ricorrenti proposte di intervento in Project Financing, altro non sono che manifestazioni del principio secondo cui si interviene nel tessuto urbano non perché siano nate nuove e più raffinate esigenze di vivibilità, ma perché si cerca di attivare uno strumento che dreni risorse pubbliche purchessia.

Allora va ribaltata, l’ottica.

La capacità progettuale, soprattutto quella alta e di qualità, va posta al servizio di una idea della città, nelle sue relazioni con le Frazioni, con il territorio, con il resto del Paese. Nella sua idea di progresso e di benessere sostenibile.

Non va posta la città al servizio del denaro e di poteri più o meno trasparenti.

A L’Aquila, può darsi un grande esperimento progettuale, che costituisca un modello per l’intero Paese, e, in particolare, per tutte quelle aree dove la Storia e la bellezza che abbiamo ereditato, deve convivere con pesantissimi rischi sistemici di catastrofe naturale.

Questa, è una vera sfida per le Conoscenze.

E non, come facciamo a garantirci il prossimo strumento in deroga al piano, e la prossima mancata osservanza delle convenzioni urbanistiche da parte delle imprese.

L’altro ieri, ad ora di pranzo, con la mia auto, sono andato sul Gran Sasso.
E ho visto un magnifico camoscio.

Ho guidato, fin dove si poteva arrivare.
Fino alla sbarra che impedisce di salire a Campo Imperatore.
La strada piena di neve sarà lasciata lì. Come fosse un sentiero inesplorato del Circolo Polare Artico. Fino al disgelo.

Lungo la strada, d’improvviso, dagli alberi, è uscito un camoscio.
Si è fermato un istante nel bel mezzo dell’asfalto, ha guardato a destra, e poi a sinistra, e, subito, ha attraversato, perdendosi tra gli alberi alla mia destra.
E’ stata la prima volta, in vita mia, in cui io abbia potuto vedere un camoscio, dal vivo, non in televisione.
L’emozione che ho provato è stata molto forte.
Non c’è nessun prezzo, per un incontro così.
Io so, da umano, di aver invaso il suo cammino; non era lui a trovarsi, indesiderato, lungo il mio percorso; era quella strada asfaltata, ad essere un inciampo nel suo incedere tra i boschi.

Ho pensato che dovremmo provarci davvero a preservare un equilibrio.
Tra questa natura straordinaria che abbiamo trovato quando siamo nati, e il nostro modo di vivere e di essere.
A L’Aquila, questo equilibrio lo abbiamo drammaticamente compromesso.
Guardatevi intorno.
Noi uomini lasciamo tracce ovunque. E ovunque costruiamo cemento cadente. Tagliamo alberi. Svuotiamo fiumi. Asfaltiamo acqua e neve. Discutiamo dentro i nostri palazzi cercando di accumulare potere e denaro. E privilegi.
E, invece, siamo nati nudi, e nudi moriremo.

Ho letto, in questi mesi, di mirabolanti progetti per il Gran Sasso. Ho guardato allontanarsi, per scadenza dei termini, un meritorio giornalista, messo lì a fare il Presidente del Parco, perchè fedele alla linea del padrone di Arcore.
Vedo che ci si muove per effettuare un Referendum che dovrebbe, se non ho mal compreso, garantire l’uscita di alcuni territori dal perimetro del Parco. Sperando così, di rendere alcuni terreni edificabili, o permettendo, magari, di costruirci un Casinò, in cima al Gran Sasso.

Io penso che quello che ho visto ieri, un camoscio libero, non è uno spettacolo replicabile. Non ci si possono vendere i biglietti purtroppo. Non lo si può mettere su un sito internet, per invogliare le persone a prenotare un fine settimana in un albergo ad Assergi.
Quello che ho visto ieri, insieme allo splendido ambiente che lo custodiva come fosse il tesoro dentro uno scrigno, era frutto di un equilibrio difficile. Di un momento fortunato ed irripetibile.

Io ho rispetto, delle persone.
E credo che gli interessi delle persone siano importanti. Ma credo anche che debba essere trovato un equilibrio tra gli interessi di pochi, e il diritto di molti.
E il diritto della Natura di sopravvivere nonostante noi.
Quello che ho visto sino ad ora, su questi temi, nel nostro Territorio, mi fa pensare che persino l’incuria assurda di quella sbarra chiusa, che mi impedisce di camminare per Campo Imperatore, finisca con l’essere determinante per salvare un ambiente che abbiamo dimostrato troppo spesso di non saper apprezzare, comprendere, e difendere.

Le ragioni dell’economia, non sono quelle della speculazione.
Il Comune de L’Aquila, da anni, finanzia il Centro Turistico del Gran Sasso, sempre con l’idea di privatizzarlo. Come se, la privatizzazione, fosse garanzia di gestioni corrette, non speculative, capaci di rispettare l’idea di servizio pubblico.
Esattamente come avviene per chi gestisce, privatamente, le Autostrade abruzzesi.

Il Parco, o il Centro Turistico, sono stati, troppo spesso l’esempio di come utilizzare ingenti risorse pubbliche, non per fini istituzionali, o di sviluppo del territorio. Bensì di spartizione tra potenti. Di clientela.

Quel camoscio lungo la strada. O le aquile viste tante volte dentro un cielo azzurrissimo. Non sono economia. Non producono fatturato. Non consentono di pianificare investimenti. Non si traducono in posti di lavoro e in redditi.
Ma costituiscono qualcosa di molto più profondo.

Perché sono parte dell’identità di un territorio, e, paradossalmente, è l’identità complessiva di un territorio, quella che si vende sul Mercato Turistico.
La montagna, è anche altrove; le chiese medievali, sono anche altrove; le grotte, sono anche altrove; le necropoli italiche, sono anche altrove; i reperti romani, sono anche altrove; buona cucina, o buon vino, prodotti tipici, ce ne sono in tutta Italia.
Ma è la loro miscela, il grado di integrazione tra servizi di altissima qualità e ambiente incontaminato, a fare la differenza. E non certo i camerieri assunti con i voucher, o in nero nei ristoranti, e che magari non conoscono una parola di inglese.
E’ la capacità di offrire ambienti urbani vivibili e belli, e non preda di sfrenata ambizione edificatoria, oltre ogni reale esigenza demografica, insieme alla fantasia di esplorare nuove possibilità di fruizione sostenibile del territorio, a colpire l’immaginazione di chi non è aquilano.
E’ la bravura nel tenere insieme allevamento, pastorizia, agricoltura e presidio del territorio, con la fauna selvaggia, e con il possibile e intelligente, e pulito, divertimento umano a rendere unica una città e la sua montagna.
E’ la intelligenza nel tenere insieme gli operatori economici e le associazioni che difendono l’ambiente, con la partecipazione attiva dei cittadini e l’ascolto attento della politica, a costruire davvero quella identità profonda che sul mercato del turismo avrebbe pochi rivali.

Chi non comprenda che è proprio l’equilibrio, difficile, sempre mutevole, ma ancorato alla possibilità di vita libera, per la flora e la fauna del nostro territorio, per le sue acque e per il suo cielo, quello che va perseguito e realizzato, vuole solo fare speculazione economica e propaganda politica per le prossime elezioni comunali. Interessi banali, miopi, e senza futuro.

Io, sono nato in un piccolo paese, ho vissuto per i miei anni di crescita, in un luogo di mare.
Ho imparato ad amare questa terra guardandola con profondo rispetto, e umiltà. Respirandola nei suoi luoghi più difficili. E solitari. Cercando di conoscerne pietre e strade e storia.
E non perché ci ho trovato una discoteca di inarrivabile divertimento.
Ma io sono solo io e non sono tutti e tutte. E non pretendo d’avere verità in tasca.

Penso però, molto francamente, che quel che ho letto e visto in questi ultimi mesi, su questi temi, sia davvero preoccupante, per L’Aquila, e per i suoi cittadini e cittadine.

14 FEBBRAIO 2016

12 marzo 2016

La politica nazionale, di ogni colore e da almeno venticinque anni, in sede di determinazione del Bilancio dello Stato, taglia i trasferimenti di risorse agli Enti Locali.

Lo si vede anche dall’aumento esponenziale della tassazione locale, che, però, non compensa, quanto tagliato dallo Stato, e neppure riesce a riorganizzare la spesa degli Enti Locali, incapaci, a loro volta, di tagliare gli sprechi, e di combattere l’evasione fiscale che, in varie forme, impoverisce ulteriormente i loro bilanci.

I tagli nei trasferimenti agli Enti Locali, sono uno dei modi attraverso cui la politica italiana ha reso difficilissima la possibilità di intervento pubblico nella vita delle persone, privatizzando quasi ogni ambito sociale ed economico, non tanto, e non solo, nel senso di cedere beni e servizi pubblici ai privati, ma consegnando proprio nelle mani dei privati, degli interessi privati finanziariamente più forti, criminalità compresa, nei fatti, quasi integralmente, il governo della cosa pubblica, col pretesto di una maggiore efficienza ed efficacia nell’azione. Ma costruendo invece troppo spesso situazioni di monopolio parassitario ( basti pensare alla gestione delle autostrade abruzzesi ).

L’assenza di risorse

Dentro questo processo storico, è L’Aquila, che discute il suo nuovo Piano Regolatore Generale, gravata dagli effetti del sisma, e di una crisi economica gravissima – iniziata nel 2008 e ancora presente – .

Il Documento Preliminare al nuovo Piano Regolatore, redatto dal Comune de L’Aquila, ammette “ l’ endemica carenza di risorse per il fabbisogno dell’attività pubblica inerente la realizzazione di opere per l’urbanizzazione primaria e secondaria e per il miglioramento della funzionalità della città in termini infrastrutturali “, ma, invece di far discendere, da questa constatazione, una intera strategia pianificatoria, che parta dal reperimento delle risorse necessarie, la lascia sospesa, senza conseguenze esplicite.

E sviluppa invece, fino alle estreme conseguenze, una risposta totalmente subordinata alle scelte che i privati opereranno sul territorio.

In sostanza, il Comune de l’Aquila, nel suo Documento Preliminare al Nuovo Piano Regolatore Generale, constatata l’assenza di risorse, capaci di sostenere un disegno pubblico di città, costruisce un sistema normativo che, a partire dal reperimento di risorse straordinarie, non pubbliche, governi il territorio, in modo flessibile. Sempre rideterminabile.

Il Piano Regolatore, in questa ottica, si trasforma in un elenco di strumenti che governano il rapporto tra interesse privato, che ha il potere di proporre, e Pubblica Amministrazione che contratta, da una posizione di debolezza, perché senza risorse.

L’esito della contrattazione, l’accordo finale tra privato e pubblico, diviene il disegno della città, e incarnerebbe l’interesse generale.

Questo risultato, è ottenuto classificando il territorio, in parti “non negoziabili”, e in parti che, invece, richiedono un livello di duttilità continua. Finisce, la “zonizzazione” del territorio comunale. Ogni zona può, al suo interno, contenere tutto, e anche le aree non negoziabili, perché sede di permanenze naturali o paesaggistiche, o artistiche, in realtà, possono dar luogo a processi di negoziazione, spostando in altri ambiti del territorio i diritti di edificazione lì eventualmente presenti.

Emergono in loro vece le cosiddette unità urbane e territoriali, variamente articolate, e in cui dovrebbe prevalere l’integrazione delle funzioni insediative. Quello che conta, sono le concrete esigenze dello sviluppo economico. Cui vanno subordinate le scelte.

La cessione di sovranità

In sostanza, non è l’interesse pubblico – incarnato nel Consiglio Comunale che discute e delibera e cerca un equilibrio, tra interessi legittimi del privato, e interesse superiore della collettività – a governare il territorio;

bensì chi abbia la forza economica di proporre “ programmi integrati di intervento”; “programmi di recupero urbano”; “interventi diretti convenzionati”. In un dialogo continuo tra impresa e funzionari amministrativi dell’Istituzione Comune. Non è più necessaria la mediazione politica, tecnicamente superata attraverso la coincidenza, come sostiene il Documento Preliminare, nell’ambito del Nuovo Piano Regolatore Generale di un Piano Strutturale e del Piano Operativo.

Si gestisce così la flessibilità delle destinazioni, e solo in sede di contrattazione pubblico-privato, si scorge l’interesse pubblico, come mera risultante residuale delle scelte operate dal privato.

La città pubblica è del tutto subordinata alla città privata.

Il territorio, è definito come una “unità osmotica”, in cui ad esempio, la separazione tra destinazione rurale e destinazione urbana, genererebbe diseconomia.

Ecco, allora, gli istituti giuridici che sostanziano la nuova gestione del territorio. Non il “Piano”, che la Pubblica Amministrazione, cogliendo una idea di città e del suo sviluppo, cerca di sostanziare con azioni urbanistiche coerenti; ma, la “perequazione”; la “cessione perequativa-compensazione”; la “premialità”, e le “previsioni edificatorie” liberamente commerciabili, entro un ambito, e tra ambiti diversi.

Non è più, lo strumento dell’esproprio, per il quale non vi sono risorse, a determinare la destinazione di un luogo, per finalità di pubblico interesse; il pubblico interesse è la continua contrattazione tra privato proponente, e pubblico che ottiene opere, sulla carta, la cui realizzazione concreta non è nemmeno mai prevista come antecedente e necessaria al rilascio del titolo di abitabilità di quanto viene realizzato.

E’ una scelta precisa, quella che il Documento Preliminare al Nuovo Piano Regolatore Generale pone. E che rovescia totalmente l’ordine di priorità.

I rischi di opacità

E’ indubbio, che il concreto sviluppo di un territorio, i suoi accadimenti storico/sociali/economici, non possano totalmente ingabbiarsi dentro le previsioni di una pianificazione urbanistica. Come è indubbio che siano necessari degli strumenti di flessibilità, capaci di garantire efficacia ed equità nei trattamenti. Rispondenza anche al concreto divenire storico di una città.

E altrettanto importante, sarebbe la capacità di una Amministrazione Pubblica che interpreti, le direzioni che il mercato e il concreto sviluppo economico del territorio intendono percorrere, e le assecondino anche, nelle loro potenzialità capaci di generare benefici il più possibile collettivi.

Ma il punto politico, qui, è che l’Amministrazione Comunale rinuncia, ad indicare una idea di città.

Al di là, delle centinaia di pagine che il Documento Preliminare al Nuovo Piano Regolatore scrive per indicare moltissime suggestioni condivisibili, progetti utili e importanti per la città, se fossero realizzati.

Nulla, di tutto quanto elaborato, e di positivo potrebbe essere realizzato, diverrà realtà, senza le risorse che consentano di scegliere davvero le priorità di governo del territorio.

Il Documento Preliminare indica un’altra strada: la “collaborazione tra pubblico e privato, al fine di garantire la realizzazione di un insieme sistematico di opere pubbliche, di interesse pubblico o di interesse generale, e private, facendo anche ricorso agli strumenti di gestione del piano “.

Ed è certamente una strada importante, quella della collaborazione tra pubblico e privato. Quando sia chiaro però, che è il pubblico, portatore di interessi collettivi, a proporre e programmare. E che il privato non è rappresentato solo da imprese costruttrici, fondi immobiliari o banche, bensì anche dal piccolo e piccolissimo proprietario.

Quando la città è senza risorse economiche, e quando rinuncia a individuare le strade per reperire risorse pubbliche, non sono gli interessi comuni a prevalere. Ma l’interesse dei più forti.

Lo schema delle flessibilità previste, inoltre, è amplissimo. Tale da ingenerare il pericolo, fortissimo, di pesanti scelte arbitrarie. Sciolte da ogni controllo di legittimità e di coerenza. Quando non suscettibili di pesanti influenze e condizionamenti esterni.

Ad esempio, come si sceglie “ l’opportunità di preservare alcune aree naturalistiche dalla trasformazione, senza procedere però all’apposizione del vincolo ambientale….. riconoscendo al contrario una edificabilità a tali aree, ma condizionando il diritto edificatorio alla realizzazione di tali volumetrie in altre aree previste dalla manovra di piano “ ?

Chi controlla, che questo schema produca davvero tutela ambientale ?

Addirittura, si arriva a prefigurare la possibilità di una “perequazione a posteriori”, cioè la legittimazione di una cessione di opere dal privato al pubblico, a fronte di concessione di un diritto edificatorio, la cui misura non è stabilita preventivamente, ma “dopo”; la cui congruità con l’idea di città viene rinvenuta “dopo”. Una legittimazione a posteriori che lascia aperta la porta a tutto. Il meglio, forse, ma anche il peggio.

Oppure, quando, e in base a quali criteri, può essere rinvenuto utile, a fini di pubblica utilità, che “ aree di proprietà del Comune possano essere il punto di impiego di diritti edificatori, altrimenti destinati a non trovare effettivo utilizzo: i beni immobili del patrimonio pubblico possono costituire risorse per permute e scambi che consentono la trasformazione dei diritti in valore economico senza che per l’amministrazione vi sia esborso finanziario “ ?

Il rischio di comportamenti distorsivi è fortissimo.

L’importanza di risorse finanziarie pubbliche

Occorre quindi che vi siano risorse finanziarie pubbliche, per strutturare una idea di Città pubblica, e per dare gambe libere a molti dei pregevoli progetti che si trovano dentro il Documento Preliminare per il Nuovo Piano Regolatore Generale.

E occorrono risorse finanziarie pubbliche per difendere la politica e l’amministrazione locale dalle pressioni di interessi fortissimi che, in passato, hanno già provveduto ampiamente a devastare la città.

Le risorse potrebbero essere reperite in tre modi:

  • Azionando il binomio riorganizzazione spesa pubblica/ contrasto all’evasione fiscale su scala locale ;

  • Prevedendo specifiche poste di bilancio in sede di Legge di Stabilità nazionale, proponendo così la città come modello per una nuova e moderna pianificazione urbana per tutta Italia;

  • Utilizzando i fondi del cosiddetto 5% delle risorse impegnate per la ricostruzione, destinato alle attività produttive: è la città stessa, il “ capitale fisso” che va ricostituito e innovato, e che costituisce il sostrato essenziale per ogni nuova attività produttiva e di servizi che deve trovarsi in un ambiente fortemente competitivo, sostenibile e qualificato.

Città provvisoria/Città definitiva

Un tema da definire con più nettezza, nel Documento Preliminare per il Nuovo Piano Regolatore Generale, è il rapporto tra la “città provvisoria”, e la città del 2030.

Il vecchio Piano Regolatore, immaginava ancora ettari, ed ettari di terreno edificabile, in particolare nelle Frazioni, e una città con quasi il doppio degli abitanti attuali.

La transizione del post-sisma ha prodotto innumerevoli insediamenti provvisori ( Progetto C.A.S.E.; M.A.P. e M.U.S.P. ; abitazioni in legno “legittime”, e abusive; insediamenti produttivi provvisori, e di servizio ai cantieri, legittimi ed abusivi ).

Il nuovo Piano Regolatore non può cedere ad alcuna sanatoria di tutti gli abusivismi realizzati in questi anni.

Deve prevedere la rimozione di tutte le aree M.A.P. e M.U.S.P., quando non funzionali a reali reimpieghi di natura sociale ( ivi compresa l’individuazione di eventuali aree rifugio – da manutenere nel tempo – in connessione con i piani di Protezione Civile ).

Deve costruire nuove funzioni insediative di housing sociale nei Progetti C.A.S.E., anche diminuendone gli spazi abitativi, e sostituendoli con spazi di servizio o direzionali.

Il Nuovo Piano Regolatore deve immaginare già ora il riuso delle strutture periferiche, in cui si è riversata l’attività commerciale prima presente in centro Città, dialogando con i Nuclei Industriali di Sviluppo. Altrimenti, quando, auspicabilmente, inizierà un movimento di ritorno, significativo, nel centro Città, ci ritroveremo con centinaia di capannoni industriali vuoti a segnare una città “fantasma”.

Ridurre le aree edificabili

E, deve, semplicemente, ridurre le aree e le volumetrie edificabili, concentrando possibili futuri insediamenti, in progetti complessi di edilizia totalmente innovativa sul piano dei materiali, della sicurezza antisismica, del risparmio energetico, e della bellezza.

La riduzione delle aree edificabili ( non consumo zero di suolo, ma meno di zero ), produce un effetto importante, sul piano economico. Sposta le intenzioni di investimento, dal miraggio della rendita fondiaria, che fino ad oggi ha gravato pesantemente sulla città, verso l’impiego produttivo, orientando, anche per questa via, il comportamento delle banche, sperabilmente non più pigre verso gli imprenditori locali.

Il Piano Regolatore e le montagne aquilane

Il Piano Regolatore, dovrebbe prevedere la integrale bonifica delle aree del Gran Sasso, da costruzioni deturpanti o inutilizzate ( a partire dalla Fossa di Paganica ), ed impostare una nuova pianificazione territoriale, che, a partire dalla tutela rigorosa della Natura in ogni sua forma e bellezza, ne costruisca però la premessa per la fruizione umana.

E’ questa l’area dove si gioca buona parte della possibilità futura della città di entrare a pieno titolo dentro circuiti turistici internazionali. Ma questo può accadere solo se si abbandonano facili idee speculative, e si rimedia al totale abbandono di cui invece soffrono molte aree che invece potrebbero sostenere attività economiche compatibili con la tutela dello straordinario patrimonio rappresentato dal complesso delle montagne aquilane, che vanno messe in comunicazione tra loro, sia sul piano dell’offerta turistica, sia sul piano dei corridoi ecologici.

Dobbiamo comunque essere consapevoli, che, oltre una certa soglia, la pressione umana sulla montagna, e sulla natura, è devastante.

La montagna, è anche altrove; le chiese medievali, sono anche altrove; le grotte, sono anche altrove; le necropoli italiche, sono anche altrove; i reperti romani, sono anche altrove; buona cucina, o buon vino, prodotti tipici, ce ne sono in tutta Italia.

Ma è la loro miscela, il grado di integrazione tra servizi di altissima qualità e ambiente incontaminato, a fare la differenza.

E’ la capacità di offrire ambienti urbani vivibili e belli, e non preda di sfrenata ambizione edificatoria, oltre ogni reale esigenza demografica, insieme alla fantasia di esplorare nuove possibilità di fruizione sostenibile del territorio, a colpire l’immaginazione di chi non è aquilano.

E’ la bravura nel tenere insieme allevamento, pastorizia, agricoltura e presidio del territorio, con la fauna selvaggia, e con il possibile e intelligente, e pulito, divertimento umano a rendere unica una città e la sua montagna.

E’ la intelligenza nel tenere insieme gli operatori economici e le associazioni che difendono l’ambiente, con la partecipazione attiva dei cittadini e l’ascolto attento della politica, a costruire davvero quella identità profonda che sul mercato del turismo avrebbe pochi rivali.

Questo, potrebbe essere il ruolo svolto utilmente dal Nuovo Piano Regolatore.

Un Piano Regolatore oltre i confini comunali

Ed è in questo quadro, che la città dovrebbe porre il proprio Piano Regolatore, a servizio di un’area che comprenda tutto il territorio della vecchia ASL n. 6 ( da Capestrano a Montereale, per intenderci ), costruendo insieme a tutti gli altri Comuni, quegli ambiti in cui regolare questioni essenziali, per il Turismo, e per la vita quotidiana. Dal ciclo dei Rifiuti, alle reti e ai vettori di trasporto pubblico, all’acqua e alla depurazione, alle reti di telecomunicazioni, alla Sanità del territorio, fino alla costruzione di reti e percorsi per la fruizione delle emergenze storico-artistiche-ambientali.

La Partecipazione dei Cittadini

La Partecipazione dei cittadini alle scelte del Nuovo Piano Regolatore Generale è un terreno su cui meglio definire il Documento Preliminare al nuovo Piano Regolatore Generale

L’Aquila si è dotata di strumenti di Partecipazione.

L’Urban Center, i Consigli Territoriali di Partecipazione. Il Comune ha anche un Regolamento, di Partecipazione.

Bisognerebbe però che vi sia una capacità di gestione reale, di questi strumenti. Altrimenti, il modello che si afferma, nel concreto, è un altro.

E’ quello del cosiddetto Ponte sulla Mausonia.

Questa opera pubblica non è stata discussa in Consiglio Comunale; non è stata discussa nell’Urban Center; non è stata discussa nei Consigli Territoriali di Partecipazione. Eppure potrebbe essere realizzata.

Il modello partecipativo, presupporrebbe eguali capacità di informazione e di proposta per tutti gli attori in campo. In tempi certi.

Senza chiarezza, di percorsi, di soggetti, di ambiti di intervento, l’articolazione della Partecipazione, si traduce, semplicemente nel campo libero, per lobby di potere, e finanziarie. O nella minorità di fronte ad altri livelli istituzionali che dispongono poi liberamente del territorio aquilano.

Il Piano Regolatore Generale, può, tra i suoi strumenti di realizzazione, annoverare percorsi certi ed esigibili di Partecipazione, che, certo, non sono le forme di consultazione sin qui praticate, e nemmeno le scelte che si vorrebbero praticare, calandole dall’alto.

Sarebbe qui anche uno spazio codificato, per la voce delle Rappresentanze Sociali.

Che invece, incredibilmente, tacciono su questi temi.

Ricostruzione e Piano Regolatore

I processi di ricostruzione in corso, dovrebbero più profondamente dialogare con il nuovo Piano Regolatore Generale.

Come si ricostruiscono i Centri Storici nelle Frazioni, quando i livelli di copertura economica garantiti dallo Stato si confrontano con un costruito preesistente, disomogeneo, povero, dalle destinazioni d’uso, talvolta irriproducibili oggi, rischiando di generare risultati drammatici nel tessuto connettivo dei nostri centri minori ?

Come si armonizzano i premi di cubatura, molti già realizzati, previsti dalle legislazioni nazionali, con una città che, secondo il Documento Preliminare al Nuovo Piano Regolatore Generale, ha un terzo del proprio patrimonio abitativo, inutilizzato ?

Occorrerebbe cioè, la capacità di coniugare, contemporaneamente, il vissuto de L’Aquila prima del 6 aprile 2009, riconoscendone le storture, con l’idea di una città del 2030, attraverso il governo di una transizione lungimirante, e non appiattita sul soddisfacimento di interessi immediati che rischiano di produrre nuovi danni strutturali al nostro futuro.

Due nuovi Piani dentro il Piano Regolatore

Servirebbero infine, due nuovi Piani Regolatori, da introdurre nel nuovo Piano Regolatore Generale.

Il Piano Regolatore delle Piazze e dei Marciapiedi; il Piano Regolatore del Verde Urbano.

Specifici interventi, andrebbero previsti, su queste materie. Decisive per la “ricucitura” del tessuto urbano, per la connessione dei luoghi e delle persone.

Per la qualità della vita. Oltre che per esplorare, attraverso strategie di recupero delle essenze autoctone, possibilità di restauro di porzioni del territorio comunale, abbandonate o disboscate. Creando lavoro, anche per questa via.

Recuperare la centralità della Città Pubblica

Il Documento Preliminare al Nuovo Piano Regolatore Generale, è un atto assai complesso e articolato, che dovrà trovare la propria sintesi all’interno del Consiglio Comunale.

E occorre augurarsi sia possibile correggerne l’impostazione generale, in favore di una più marcata forza progettuale e pianificatoria della Città pubblica, che dialoghi, collabori e discuta con i legittimi interessi privati, ma da una posizione sovraordinata, come dovrebbe essere per tutelare e costruire il Bene Comune della città de L’Aquila.

11 agosto 2016

Quasi leccese, ma aquilano.

Mi fa sempre uno strano effetto, assistere, a L’Aquila, ad un concerto di Pizzica.

Nella seconda metà degli anni ’80, a Melpignano, un minuscolo paesino della campagna salentina, l’amministrazione comunista, inaugurò il Festival “le Idi di marzo”, a luglio però.
Ci suonavano, in uno stadio polveroso di serie zeta, gruppi italiani, come i CCCP, i Litfiba, i Sick Rose, e, per la prima volta, gruppi provenienti dall’Unione Sovietica.
Gorbaciov mandava in giro dei capelloni assurdi che facevano rock sinfonico.
Una roba da far cadere le stelle.

Nasce così, la riscoperta della Taranta.
Con un piccolo paese, guidato da amministratori giovani, curiosi, sfacciati, e capaci di azzardare, che, ad un certo punto, comprendono che la musica della loro terra, quella popolare, che nelle feste di paese qualche vecchio e sdentato mandolinista andava ancora raccontando, può essere un modo di ricucire una identità territoriale, spezzata dall’emigrazione, da una industrializzazione assurda e assistita degli anni ’70, da una cementificazione immonda, anche di molte coste. Mettendola a colloquio con le energie più giovani e radicali presenti anche sul piano nazionale.
Ernesto De Martino, il più importante antropologo italiano, negli anni ’50, scrisse un libro fondamentale, per raccontare quel Sud, e quella musica. “La terra del rimorso”. E realizzò poi dei documentari etnografici, con la RAI, che andrebbero proiettati nelle scuole. Perché sono un esempio mirabile, ancora oggi, di come si possa raccontare una terra, le sue contraddizioni, le sue oscurità, con un occhio rispettoso, ma limpido, nel comprendere quanto di retaggio primitivo, di fascinazione religiosa e oscurantista, ci fosse in una tradizione che cercava in sé stessa le ragioni per vincere una secolare oppressione, culturale, prima di tutto. Soprattutto nei confronti delle donne.

Gli anni ’90 sono gli anni in cui la musica del Salento riscopre le sue radici dialettali. I sound system reggae, l’incontro con il rap bolognese. Inizia una cultura dei club, in cui i protagonisti sono i DJ’s. A partire da DJ War.
La prima Guerra del Golfo, in Iraq, scatena l’Isola Posse, con “Stop al panico”. Si definiscono i Sud Sound System e le loro canzoni ragamuffin’ in leccese stretto.
Quella musica, diventa un fenomeno nazionale.

Si comincia a capire che la pentola bolle, di creatività ed energia.
Ed avviene un passaggio fondamentale, favorito dallo sguardo attento di tanti amministratori, anche di Destra. Quello dell’incontro tra i giovani, e i vecchi.
La musica delle piazze, quella dei matrimoni, o delle serenate, ritorna rielaborata, anche da una ricerca filologica, ma attenta ai suoni nuovi.
Capace di assorbire la musica africana delle prime ondate migratorie, dei Senegalesi, in primo luogo.

Ed è negli anni ’90, che le Amministrazioni Locali, a partire dalla Provincia di Lecce, amministrata dall’ Ulivo di Lorenzo Ria, compiono il salto di qualità e supportano convintamente quella musica, gli artisti, i percorsi creativi. Anche tra contraddizioni, scontri, dibattito culturale vivo, e fecondo.
E chi organizza quella musica, a Melpignano, alla fine degli anni ’90, capisce che bisogna fare un passo in più, e, ai gruppi salentini, ai cantori anziani del territorio, alle giovanissime ragazze che cantano e ballano, affiancano grandissimi nomi della musica nazionale e internazionale.
Daniele Sepe, Piero Milesi e Mauro Pagani, Joe Zawinul, Vittorio Cosma, Stewart Copeland, Ambrogio Sparagna, Ludovico Einaudi, Goran Bregovic, Giovanni Sollima, Phil Manzanera, e, quest’anno, Carmen Consoli.
L’incontro tra personalità così diverse, e creative, è stato sempre costruito e pensato con l’ottica di far crescere i musicisti del territorio. La loro capacità di sintesi, di ricerca.

E’ così, che nasce il concerto di ieri sera a L’Aquila.

Un percorso di trenta anni, che conduce un territorio incredibilmente periferico, mal collegato col resto d’Italia, dotato di infrastrutture povere, colmo di contraddizioni ed ingiustizie, ad esportare la sua cultura, la sua identità. Facendola diventare linguaggio universale.

Quando si parla della Pizzica, molti storcono il naso. Molto si è speculato, anche rozzamente, su un fenomeno che può persino essere “di moda”, e quindi transitorio, per eccellenza, effimero.

Eppure questa, è una “cosa”, che ha radici lontane, che è stata capace, di inventare passione, riconoscimento. E’ un fenomeno che muove persone, economia.

Allora, io, da quasi leccese, ma aquilano, mi diverto a vedere i miei concittadini che ballano, mentre il cantante racconta che “ come ti giri, ti giri, tanto sempre là dietro finisci col prenderlo”. Oppure che lui “vuol bene a chi ci vuol male, purchè quello stia coi piedi davanti all’altare maggiore”.
In fondo il “mai una gioia”, è internazionale, come anche il desiderio che la si smetta, di voler male alle persone, così, per pure ragioni di personale invidia, livore, inettitudine.

Però, penso.

Penso a quello che negli ultimi quasi trenta anni di vita, io ho vissuto qui a L’Aquila, andando in vacanza in Salento, a casa mia.

L’ARCI, a L’Aquila, trenta anni fa, organizzò un incredibile festival che si chiamava “Toc Toc”, al ridotto del Teatro Comunale. Dischi di vinile, cartoline di mail art, spettacoli musicali, il dissacrante teatro di Leo Bassi. Un mare di giovani che, allora, mi dava il segnale di una città viva.
Le giornate dell’Accademia dell’Immagine. Le fotografie di montagna di Ansel Adams. Marcello Mastroianni che mangiava la pizza alla pizzeria “La Ruota”, il Teatro Stabile, del leccese ( di Campi Salentina ) Carmelo Bene, e di Gigi Proietti.

Strade chiuse, sbarrate.

Le macerie, mica sono soltanto quelle fisiche.
Sono anche quelle di chi inventa una tradizione, quella della Perdonanza, perché abbiamo bisogno di un Medioevo.

Mi sono spesso chiesto, in questi anni quale fosse l’identità della città in cui vivo. Quali ne fossero i tratti caratteristici.
La prima volta che arrivai a L’Aquila, in treno, all’interno della Stazione, c’era la riproduzione, che ora non c’è più, sbiadita, di un quadro di Teofilo Patini. Rappresentava un grifone che attaccava un gregge di pecore, e la disperazione del pastore, che non poteva difendere i suoi agnelli, tra le montagne scoscese. Fu la prima cosa che vidi della città.
Ecco.
Una natura aspra che assalta l’uomo. Un ciclo vitale che è fatto di violenza e tentativi di ricostruzione.
Da sempre, a me parve quella l’identità aquilana. Montagne, e confronto tra uomo e natura, anche distruttrice.
Quanto si potrebbe costruire, e inventare, su questa dinamica eterna, dell’uomo. Anche sul piano del racconto. Un racconto che potrebbe parlare al mondo intero.

E invece, l’identità della città io non riesco a trovarla.
Uscito dalla stazione, ricordo le mura della città, e l’edificio assurdo del Consorzio Agrario, e l’enorme albergo costruito immediatamente a ridosso delle mura antiche.
Oggi, le mura antiche sono ancora puntellate; l’albergo è sempre lì, e, al posto del Consorzio Agrario c’è un terribile scheletro di ferro, costruito senza controllo, che invade persino la strada.
Lungo viale della Croce Rossa, è stato recentemente realizzato un camminamento lungo le mura. Basta non guardare sotto. Non vedere le sale giochi d’azzardo, e i cento prefabbricati che ospitano negozi e attività di ogni genere, con un’aria di provvisorietà stracciona che toglie il fiato ( massimo rispetto, da parte mia, per chi ha lì delle attività con cui vivere, ma che potrebbero tranquillamente essere realizzate altrove col supporto dell’Amministrazione ), invece di un parco urbano.

L’identità della città, mi si permetta di scriverlo, da aquilano, è stata ed è sistematicamente spappolata da una concezione privatistica della città e dei suoi spazi. Persino quelli culturali. Assecondata e favorita dalle amministrazioni che si sono succedute negli anni.

Io penso che, un turista, chi voglia conoscerci, voglia conoscere una identità. Una peculiarità, una storia. Un sapore unico.
Tutto questo, non è la somma degli eventi spettacolari che possono punteggiare l’estate, anche quando siano di eccelsa qualità.
Se non si feconda il territorio, non si investe sulle sue energie giovanili, con progetti di lungo respiro, che dovrebbero essere, innanzi tutto, culturali, ma anche urbanistici, il risultato sarà il solo Ponte della Mausonia, che sarà utilissimo per metterci i prosciutti appesi sotto le campate, a stagionare.

I soldi pubblici finiscono.
Finisce l’intervento straordinario su L’Aquila, legato al sisma.

Ho raccontato, per sommissimi capi, come nasce la musica che ha riempito il Parco del Castello ieri sera, non perché si debbano ripetere strade che altri hanno già fatto, ma solo perché mi piacerebbe si comprendesse che certi processi, che poi portano ricchezza in un territorio, nascono con il concorso di tantissime forze, anche in conflitto tra loro. Ma a partire da una identità riconoscibile, da esperienze sedimentate, da progetti lungimiranti, da sperimentazioni coraggiose.
Richiedono tempi di maturazione, cura. Scelta di priorità. Umiltà.

Dalle conferenze stampa di presentazione dei cartelloni, purtroppo, non nasce nulla.

Stamattina, intorno alla mia abitazione, gli uccelli non cantavano.

Il silenzio è incredibile. E’ denso. Sembra scolare dal cielo, fin sulla terra.
E incredulità, è stata la prima sensazione stanotte. Non sono stato io. E’ stato il mio corpo, da solo, a saltare via dal letto, ad urlare, a vestirsi, a raccattare le mie cose – sempre messe tutte insieme, vicino la porta di casa, da sette anni a questa parte – e ad uscire da casa.
Mentre ancora casa tremava. E non ci credevo. Non riuscivo a capire perché non si fermasse. Mi sembrava un’ingiustizia. Una cosa che non dovesse accadere ancora.

Fuori di casa, sono entrato in automobile. Rassegnato. Sapevo di dover avvertire altre scosse. E così è stato. Ed è ricominciato il giro dei messaggi, delle telefonate. La stanchezza. Il freddo.

E poi, stamattina.
Il tentativo di razionalizzare, di pensare, di registrare le cose, mentre giro con la mia auto per L’Aquila, alle sei del mattino.
I mezzi della Croce Rossa pronti a partire, le persone radunate sotto la sede, che parlano nei cellulari. Una sede in curva, che rende la visuale difficile, quando si debba uscire di lì in emergenza, senza nessuno spazio per parcheggiare un’automobile. Altri mezzi della Protezione Civile in giro per la città.
Quanti Vigili del Fuoco erano in servizio, stanotte, a L’Aquila ?

Le prime notizie, parlano di un terremoto vicino Perugia. Il sei aprile del 2009, parlavano di un terremoto vicino Forlì.
Il sito dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, per molto tempo, non è raggiungibile.
E poi s’iniziano a vedere le prime immagini, di persone che, sui social network, mettono le loro fotografie on-line.
I più grandi mezzi di informazione, dalle televisioni, ai giornali, chiedono ai cittadini di mandargli le loro fotografie, i loro video.
L’informazione non paga le immagini, non ha diritti d’autore da onorare. Non ha giornalisti o inviati da pagare e mandare nei luoghi dove accadono le cose. Preleva frammenti di realtà, socializzati da chi la vive, quella realtà, e li rilancia, in tutto il mondo, accumulando visualizzazioni che serviranno per contrattare nuovi spazi pubblicitari, domani. Forse già oggi.
E niente contratti di lavoro decenti per chi dovrebbe raccontarla, la realtà.

E poi guardo le immagini dell’ospedale evacuato. Inagibile.
E mi ricordo l’umiliazione, profondissima, terribile, impotente, della notte del sei aprile, a L’Aquila, quando, dalla radio, seppi che il nostro Ospedale era crollato.
Per fortuna non del tutto, ma questo, lo appresi poi.

In questo Paese i ladri veri indossano la cravatta, e sono capaci di far lievitare il costo di un appalto, da uno a trenta, servendosi di una normativa tecnica costruita appositamente, da super pagati funzionari e dirigenti ministeriali ( e votata da parlamenti complici, o disattenti ), per consentire ogni ruberia sulle spalle dei cittadini tassati.
Un Ospedale, in un territorio notoriamente sismico, dovrebbe essere un presidio di sicurezza e di intervento sul quale poter contare in situazioni di emergenza, e, invece, non è a prova di scosse.

E’ vomitevole.

Ed è così in tutta Italia.

E poi penso a casa mia. Qui a L’Aquila, dove su una collina, hanno appena finito di costruire otto palazzi, otto, che si affacciano tutti su una strada che consente ad una sola automobile per volta di transitare.
Io spero che, in caso di emergenza, ci si trovi a passare chi ha approvato quei progetti, senza nessun equilibrio col territorio. Chi ha concesso le licenze edilizie, senza nessuna considerazione per gli spazi pubblici. Chi ci ha costruito, cinicamente, sopra, aspettando di trasformare edifici assurdi in Case Popolari e salvare così l’unica cosa che conta, in Italia, la rendita immobiliare.
Che ci si trovino loro, ad aspettare un’ambulanza che si ritrovi davanti un altro mezzo e non possa transitare, arrivare lì, a salvare una vita, magari.
Ma la verità è che il terremoto colpisce gli innocenti, innanzi tutto, e forse qualche colpevole. Forse.

Tanto, è tutto, così. In Italia. Quasi ovunque.

Noi, ci abituiamo, e troviamo il nostro vantaggio. E dimentichiamo, rapidamente.

Perché, altrimenti non si spiegherebbe, perché, a L’Aquila, i ruderi di pietra, le case disabitate da anni, siano diventati cemento e mattoni nuovissimi. Posso fare l’elenco, di questi luoghi, ma tutti, tutti li conoscono. E li vedono, ogni giorno, nell’indifferenza generale.
O costruire, dopo il sisma, addossati alla parete della collina, senza alcuna precauzione per il rischio idrogeologico.
E, soprattutto, perché si continui a costruire fin quasi dentro le sedi stradali, senza che a nessuno venga in mente che sono previste, dalle Leggi, zone di rispetto, e di salvaguardia.
Se un mezzo pesante di soccorso, dovesse partire da L’Aquila, per andare ad Amatrice, all’altezza di Cagnano Amiterno, avrebbe bisogno di essere sollevato da un elicottero per passare lungo una strada, chiusa, tra due abitazioni, che riducono la sede stradale provinciale a neanche due metri di larghezza.

Da quanti anni, si parla del collegamento tra L’Aquila, Amatrice e Terni ?
I soldi buttati dal Ponte della Mausonia, grondano sangue.
Lo dovete sapere, voi che decidete.

Voi che non usate le risorse, scarse, di questo Paese per mettere in sicurezza case, strade, uffici, luoghi di lavoro, scuole, mirabili opere d’arte, ma per dare ottanta euro di mancia al mese a chi mette al mondo un figlio, dovete saperlo, che siete una classe dirigente diffusa che bada solo alla propria sopravvivenza elettorale.
Voi siete responsabili.
Perché non scegliete le priorità, il bene comune. Ma i nastri da tagliare, gli interessi inconfessabili da tutelare e ossequiare.
Voi non fate manutenzione.

Il problema, è che anche io, mi sento responsabile. Perché non faccio, e non ho fatto abbastanza.
Mentre voi giocate con la Costituzione, o con la vostra “ onestà” da cartolina, o con i vostri migranti da fucilare, o con le vostre cene eleganti da consumare, l’Italia continua ad essere massacrata.
Dall’assenza di prevenzione, di cultura del rischio, di investimenti; dal consumo folle del territorio.

Io spero che ve lo facciano fare, il vostro casinò, sul Gran Sasso, dal quale, mentre giocherete a poker potrete ammirare il deserto che farete intorno a voi. E le macerie, di quel deserto.
Forse dall’aeroporto di Preturo sarà partito, qualche elicottero per andare in soccorso delle popolazioni colpite. Di quelli che ho sentito ancora nei cieli della città stamattina.
O magari, ci partirà un aereo commerciale di linea.

Io sono stanco.

Stanco di piangere i morti. Di avere paura. Di guardare i luoghi dove vivo appestati da inutili capannoni che di industriale non hanno nulla. Di non avere, come Paese, una seria legislazione per la gestione delle emergenze, e stanco di aspettare l’alluvione delle nuove Ordinanze.

Stamattina a Piazza d’Armi, sul cemento dove si svolge il mercato, c’erano centinaia di automobili parcheggiate. E, in tutto quello spazio, che una volta era libero, rubato oggi, in parte, da una chiesa abusiva, e da una caserma della Guardia di Finanza, e destinato ad altri interventi edilizi, non c’è nemmeno lo spazio per piantare 309 alberi, e onorare una memoria, e avere luoghi dove ci sia conforto e organizzazione vera, nella paura e nel rischio.

E mentre scrivo, sento l’insufficienza profonda delle mie parole.
Perché tutto un sistema, economico, culturale, politico, finanziario, dovrebbe essere riconvertito alla cura, al restauro, al riuso, alla salvaguardia, alla sicurezza dei nostri Paesi, dei Borghi. Della meraviglia che la Storia ha consegnato ad un popolo che dovrebbe imparare a meritarsela.

Io mi scuso, per la mia rabbia. Per il dolore che ha colpito persone che conosco.

Ma non è colpa della Natura.
La Natura, come dice Leopardi, è indifferente.
Ma noi uomini, non dovremmo mai essere indifferenti alla sorte degli altri uomini.
Quelli di oggi, e i nostri figli di domani.

25 agosto 2016

LA NUOVA MAPPA DELLA CITTA’

L’Aquila, ha un nuovo Centro Città.

E’ la strada che, dalla Sanofi Aventis a Scoppito, arriva fino al bivio per San Demetrio.
Si tratta della Strada Statale 17 e della Strada Statale 17 bis. Che attraversa longitudinalmente tutta la città, divenendo, per un tratto, viale Corrado IV, e aprendosi poi, con le due braccia, di Viale della Croce Rossa, e di Via XX Settembre, a circondare il Centro Storico della Città, che si ricongiungono, oltre Collemaggio, e arrivano fin sulla strada che porta a Pescara, attraversando l’intero Nucleo Industriale di Bazzano.

E’ un Centro Città fortemente atipico.
E’ costituito infatti, da una lunga strada, trenta chilometri circa d’asfalto, quasi tutta a sole due corsie, una per ogni senso di marcia, e da quel che è costruito ai lati della strada.
Non ci sono persone che camminano nel Centro Città di L’Aquila, ma soltanto traffico veicolare. Per lo più, privato.
Nel Centro della Città di L’Aquila, non vi sono emergenze storico-ambientali; la strada sfiora le antiche mura cittadine, e la Basilica di Collemaggio, ma il patrimonio immobiliare ai suoi lati, è tutto moderno. E totalmente privo di una qualunque valenza artistica o architettonica di pregio.

Nessuno ha deciso che il Centro della Città fosse questo.
Ve ne erano le basi, perché lo fosse, prima del sisma del 2009, con la concessione di un sempre maggior numero di diritti insediativi per attività commerciali, e lo è diventato, con veemenza, dopo il terremoto, in forza dei rapporti sociali che si sono creati, delle scelte di localizzazione effettuate dai privati; della quiescenza della Pubblica Amministrazione, che anzi, con atti concreti, alcuni già compiuti, altri in procinto di compiersi, ha favorito questa conglomerazione.

Questo Asse Arrangiato del Consumo.

Lungo le statali 17 e 17 Bis, si aprono Centri Commerciali, insediamenti del Progetto C.A.S.E., centinaia di esercizi commerciali di ogni genere. Bar e ristoranti. Distributori di carburante. Edicole, officine meccaniche, decine e decine di capannoni industriali, adibiti agli usi più diversi, talvolta persino a fabbriche. Ci sono improbabili stazioni di trasporto pubblico, alberghi.
Trovano posto venditori ambulanti, e qualche casa d’abitazione, palestre e centri estetici.
Aree sportive e direzionali; uffici postali e banche.

E si continuerà, ad affollare questo luogo.
Dietro il Motel Amiternum, sta per sorgere una nuova superficie commerciale, se si porrà mano al cambio di destinazione d’uso dell’area; se funzionerà il patto pubblico/privato, l’area di fronte a questa, potrebbe diventare un nuovo terminal bus, più dignitoso finalmente dell’attuale, ma insieme a nuove superfici direzionali, commerciali e residenziali; nella ex-Italtel dovrebbe insediarsi una industria di riciclo dei rifiuti elettronici che comporterà, quanto meno, un incremento assoluto di traffico pesante lungo il Centro Città, e dall’altra parte, nel Nucleo Industriale di Bazzano, potrebbe sorgere una Centrale d’Energia a Biomasse; sul lato di Preturo, continuano a sorgere capannoni industriali, nuove strade.
C’è un nuovo Palazzetto dello Sport in costruzione, mentre quello vecchio giace inutilizzato da anni, ed in rovina.
Residue aree agricole e fluviali, potrebbero essere interessate da ulteriori interventi edilizi e di servizio ( intanto, si tagliano gli alberi ); l’intera vallata sotto Sant’Elia, è da tempo nei disegni delle imprese di costruzione per nuove edificazioni, pur se sotto il livello del fiume: l’ANAS interverrà lì, con un impatto assoluto, con la sua Variante Sud, e vi è la pesante ipoteca del cosiddetto Ponte sulla Mausonia.
Su tutto l’Asse, i prati usati come deposito di materiale edilizio, sono numerosissimi, magari avendo provveduto prima a predisporre la superficie per una possibile successiva edificazione.
E le abitazioni in legno, comprese quelle totalmente abusive, sono centinaia.

Insomma.
Il dopo terremoto, approfondendo una spinta preesistente, ha scelto di concentrare, se così potremmo dire di un’area lunga chilometri e chilometri, tutti i poli d’attrazione della città sui bordi senza marciapiede di un’unica strada.
Giusto qualche Ufficio Pubblico, resta fuori da questo Asse, pure se, molti, sono collocati nei suoi margini immediati.

Questa concentrazione produce un flusso ininterrotto di veicoli. Con punte di affollamento particolarmente intense, la mattina, in coincidenza con gli orari di apertura di scuole e uffici; ad ora di pranzo; intorno alle 17 e intorno alle 19, in coincidenza con le chiusure degli uffici, e, di seguito, dei negozi e dei supermercati nei Centri Commerciali.

Sono accademiche, le discussioni che, a cadenze più o meno regolari, si aprono, relativamente al destino del Centro Storico di L’Aquila.
Perché prescindono, quasi tutte, da un doppio dato di fatto: le acquisite polarità alternative della Città; i tempi di ricostruzione complessiva del Centro, non del solo cosiddetto Asse Centrale, che interesseranno, ad essere ottimisti, i prossimi venti anni.

La quotidianità aquilana, è fatta di percorsi automobilistici lungo la strada del Centro Città.
Di difficoltà serie nel raggiungere, camminando, un negozio, o un ufficio, spesso anche a pochissimi metri di distanza tra loro. Sperimentando, ogni volta, l’esiguità del numero di posti auto disponibili, in parcheggi più o meno di fortuna.
E’ un Centro Città dove non si può passeggiare, anche per gli elevati livelli di inquinamento dell’aria.
Questo Centro Città è totalmente precluso alle persone disabili, che, nelle ridottissime aree in cui insistono marciapiedi, trovano superfici minime di passaggio, disconnesse, ingombrate da auto o dai cassonetti dell’immondizia.
Impossibile da vivere per bambini ed anziani.

A parte l’area del Parco del Castello e le zone immediatamente vicine, interessate da una nuova vita e da una riconquista degli spazi da parte dei cittadini, il Centro Storico della Città, nel contempo, si sta progressivamente trasformando in uno scenario.

E questo, nonostante i tentativi di reinsediamento di qualche ufficio pubblico, di qualche attività commerciale, prevalentemente legata alla ristorazione e all’intrattenimento serale, e nonostante vi sia qualche abitante ritornato dentro le mura.

Questa trasformazione in un fondale di nostalgia, pur se, le nuovissime generazioni stanno costruendo i loro percorsi all’interno del Centro Storico della Città, discende essenzialmente dalla mancata ricostruzione delle funzioni pubbliche del Centro Storico della Città.
Regione, Provincia, Comune. Scuole. Ministeri ed Enti, Università.
Quasi nessuno, ha ripristinato le proprie sedi.
E, anzi, c’è chi, come l’Università, ha deciso di abbandonare, le proprie sedi storiche, a partire dal Rettorato di Palazzo Carli, in favore di altre scelte insediative.
La Chiesa, ha ricostruito solo due luoghi di culto.
Gli uffici della Curia, restano ben saldi nel Nucleo Industriale di Pile.

Non vi è stata alcuna pianificazione efficace della ricostruzione delle funzioni pubbliche del Centro Storico, che infatti non hanno alcuna priorità sulla ricostruzione privata, che, a sua volta, procede secondo una totale deregolazione pianificatoria, persino dal punto di vista logistico. I cantieri, si aprono secondo il completamento dell’iter burocratico per il finanziamento, o quando si raggiungano accordi all’interno dei Consorzi, e non certo secondo una programmazione razionale di trasporti, circolazione, ingombri, o infrastrutturazione.
Si producono, in questa assenza di programmazione e governo del territorio, pericolosi ingressi immobiliari, come, ad esempio, l’acquisizione dell’edificio delle Poste in piazza Duomo, da parte della Holding Colella, proprietaria attuale dell’Acqua Santa Croce.
Tutta l’area di Collemaggio è a rischio.

Non è soltanto, una questione di cantieri aperti, o di demolizioni ancora da effettuare, a rendere difficile l’insediamento in Centro Storico di attività produttive, di servizio e commerciali.
Ma di mercato, totalmente deregolato.
Nel quale è legittimo, per quanto censurabile, il comportamento di proprietari di edifici storici o di pregio che, magari in situazioni di degrado prima del sisma, e ora ristrutturati in forza di risorse pubbliche, propongono locali in affitto per studi professionali o locali commerciali, a prezzi di assoluto rilievo, lucrando indisturbati su un accresciuto, senza proprio merito, valore immobiliare.

Se vi fosse una razionalità economica, questi comportamenti, sconterebbero, da subito, e negli anni a venire, un clamoroso fallimento, poiché non fanno i conti con il cambiamento reale indotto dal terremoto. Non riconoscono l’esistenza del nuovo Centro Città; immaginano che, in forza di un desiderio collettivo di tornare al “dov’era, com’era “, si possa far premio sulla necessità per un operatore commerciale, o per un professionista, o per le imprese, di far quadrare i conti.
Il tentativo di immaginare e praticare benefici finanziari, a valere sulle risorse destinate sulla ripresa produttiva del Cratere, per chi si insedi nel Centro della Città, rischia in realtà di aiutare una rendita fondiaria parassitaria ( funzione svolta precedentemente – e forse ancora oggi – dalla Banca locale – ) , aiutando, solo di riflesso, imprenditori e imprese in forte difficoltà.
Queste scelte possono essere lette anche come il tentativo di mantenere inalterati gli equilibri di potere all’interno della città.
Ma è una politica destinata all’insuccesso.
Ne approfitteranno forse solo alcuni squali che non ne avrebbero in realtà bisogno.

Gli incentivi, sono sempre ben accolti dall’impresa, ma producono risultati se esista un mercato reale.
Oggi, e per ancora molti anni, il mercato reale sarà nel nuovo Centro Città.
Lungo la Strada Statale 17 e Strada Statale 17 bis.

Forse allora, mentre è necessario immaginare strategie articolate e generose per una rivitalizzazione su basi nuove del Centro Storico, dovrebbe essere compito prioritario dell’Amministrazione rendere vivibile il nuovo Centro Città.

Intervenire su di esso anche per dare un primo senso ad una politica di collegamento reale tra L’Aquila e i Comuni vicini; per una politica di unificazione del territorio e salvaguardia e valorizzazione del tessuto delle Frazioni.
Ed è urgente l’intervento pubblico sul nuovo Centro della Città, anche per ragionare seriamente di sicurezza del territorio, sia in senso antisismico, che di tutela dal rischio idrogeologico: è un’unica strada a due corsie,e se dovesse per una qualsiasi ragione bloccarsi, tutto il territorio sarebbe paralizzato ( qualche giorno fa, un signore circolava indisturbato, sulla sua carrozzella trainata da cavalli, da Scoppito verso L’Aquila, e, dietro di lui, la fila delle automobili, dei camion, dei bus, era lunga oltre cinque chilometri ) .
Può essere anche l’opportunità per intervenire con interventi di manutenzione profonda sulla rete idrica e fognaria.

L’Aquila, ha una nuova mappa. Nuove relazioni sociali. Nuove polarità d’attrazione. Nuove e inedite difficoltà del vivere.
E’ urgente prenderne atto, e provare a governarne l’evoluzione.

3 ottobre 2016

Inizio Stagione

E’ un po’ come tornare sui banchi di scuola.

Dopo essere stato bocciato, però. I tuoi vecchi compagni di classe sono andati avanti, e tu sei rimasto fermo. Anzi, sei andato indietro. Loro son cresciuti, e tu, con i nuovi compagni di classe, non sai se sei più grande, o solo più ciuccio. I tuoi vecchi amici, ti guardano da lontano, e ti salutano a mezza bocca. Come se temessero d’essere contagiati dalla tua ciucciaggine. I tuoi nuovi compagni di classe, ti squadrano. C’è chi prova a misurare la tua forza; c’è chi ti guarda con degnazione, come si guarderebbe un ricco signore diventato povero, e puzzolente.E tu, dentro, non sai come ti senti.
Inizia una nuova stagione. Le regole le conosci; la preparazione che dovresti avere la sai molto bene. Anche se non sai se riuscirai a raggiungerla. Sai che la partita da giocare, sarà lunga. Arriverà fino al prossimo anno. E, per te, sarà un esame tutti i giorni. Perché tu, che sei stato bocciato, sarai guardato, ovunque, con occhi speciali. Qualcuno anche malevolo.

Il primo giorno, della nuova stagione, allo stadio Tommaso Fattori di L’Aquila, è pieno di bambini in tribuna.
Sono i giovanissimi di tante squadre aquilane di rugby. Che portano sui gradoni di cemento consumato, e sulle sedioline di plastica scolorita, tutto il loro entusiasmo. Irriverente, distratto talvolta. Spavaldo. Sono gli unici a tifare per L’Aquila; gli unici a farsi sentire.Lo stadio raccoglie tre-quattrocento fedeli tifosi. Cui si aggiunge qualche ospite da Roma, al seguito della squadra avversaria. E qualche ragazzo, o ragazza, nuovi del luogo. Che siano nuovi, si capisce. Si capisce perché lui spiega le regole a lei.
“ Quando si segna una meta, si oltrepassa cioè la linea bianca in fondo al campo, schiacciando l’ovale a terra, si deve procedere poi alla cosiddetta – trasformazione – : l’ovale cioè è calciato, da una posizione perpendicolare al punto in cui è stata segnata la meta, e deve passare all’interno dell’area segnata dai pali, o, sempre all’interno di essi, ma in una linea immaginaria, più alta del termine dei pali stessi. Allora, si consegue un punteggio di 5 punti per la meta, e di 2 punti, per la trasformazione”.
La ragazza annuisce compunta, sorridendo, col suo rossetto più rosso del peccato rosso.
E poi ci sono i cani.
In particolare, uno, cucciolo, è al guinzaglio di una bimba bionda più piccola del cagnolino, che la trascina per gli spalti dello stadio, rischiando di farla volare ad ogni passo.
Il rugby, è uno sport per cuori forti.
Come seguire un bimbo che ha appena smesso di gattonare, e che corre forsennato dietro una palla, calciandola con violenza appena s’avvicina, e, tutti quelli che hanno giocato almeno un po’, a palla, sanno perfettamente, cosa accade se la suola del piede passasse con forza, ma indugiando più del dovuto, sul bordo superiore della palla. Per la legge di Salvadore, si produrrebbe una perdita d’equilibrio scomposta, con probabile salto mortale rovesciato, carpiato, all’indietro. Coefficiente di difficoltà 180-95: la misurazione della pressione di chi dovesse assistere ad un cruento spettacolo di questo tipo.
Come il cuore del padre che abbraccia la sua ragazza, per farla scendere dalla sedia a rotelle.

Sono meravigliosi, i raccattapalle dello Stadio Fattori. Il loro compito principale è quello di non far capire al pubblico, alla squadra avversaria, agli arbitri, al giudice federale, all’addetto al TMO ( la moviola in campo, che, a l’Aquila, si fa in realtà aumentata, dopo la Notte dei Ricercatori ), che ci sono solo due palloni con cui giocare. E, se per caso qualcuno li sbattesse fuori dallo stadio ( eventualità non improbabile ), toccherebbe arrivare fino a Decathlon, al Centro Commerciale a Pile, per comprarne uno nuovo, avendo, beninteso, fatto la colletta prima tra quelli del pubblico seduti sulle sedioline rosse in tribuna, i VIP insomma ( Very Indisponent Persons ). Per questo, ogni volta che la palla esce dal campo, corrono furibondi, in gara tra loro, per arrivare a prendere la palla, e placare la furia del Tallonatore che vorrebbe battere subito la touche.

Allo stadio Fattori, qualunque sia il vento che tira, ad un certo punto, t’arriverà l’odore di un sigaro. Ma non un sigaro normale. Uno di quelli accesi, e spenti, e accesi e rispenti, e riaccesi, almeno otto volte. Che si capisce che il tabacco è proprio umido, bruciato, e fetente.
Anche questo, è un segno che la nuova stagione è iniziata. La nebbia di sigaro, che oscura il Gran Sasso in lontananza.

Quest’anno, il Fattori, è solo dedicato al rugby. La squadra di calcio, ha il suo nuovo stadio. E si capisce subito che c’è qualcosa di assolutamente inatteso. Il manto erboso del Fattori, non più devastato dai calciatori, è lindo come il Centrale di Wimbledon alla prima partita del torneo. E’ talmente verde che un branco di camosci scende affamato dalla montagna, e vuole entrare allo stadio, senza pagare neppure il biglietto.I tifosi, si guardano tra loro, in silenzio, cercando di riconoscersi. Quelli che hanno deciso di tornare, quelli che non se ne sono mai andati. Quelli che vogliono vedere la prima partita e poi decidere. Quelli che vengono perché, nonostante la pioggia del mattino, è uscito un buon sole. Quelli che c’erano tempi migliori, e quelli che, siccome c’erano tempi migliori, adesso, non ci sono più loro.
Dall’altra parte dello stadio, tra i Distinti, si sta in maniche corte e gelato. Lì, ci batte l’estate fino a metà del secondo tempo, poi ci vuole il piumino.

Nei primi tre minuti, arriva la prima meta segnata da L’Aquila Rugby Club.
Scortesi.
Una parte del pubblico, era ancora a tavola con la genziana, in quel momento.
Persino lo speaker dello stadio, è sorpreso. Stava ancora cercando gli elenchi dei giocatori in campo, quando è arrivata la meta, rapinosa e veloce, zigzagante, birillesca. E fatica a trovare il nome dei primi cinque punti aquilani dell’anno.Saranno 36, i punti aquilani, alla fine. Prima partita, e prima vittoria.
Signora Federazione, interrompi qui il Campionato, e fai risalire la squadra in Eccellenza.
E invece ci vorrà un anno lungo, duro e incerto.
Sarà difficile, come accaduto ieri, decidere tante volte di mettere la palla in touche, invece di calciare in mezzo ai pali. Gli atteggiamenti guasconi, vanno sempre bene, purchè producano risultato.
Qualche crampo, in campo, il che non depone benissimo, sulla preparazione atletica. Una solenne vaccata difensiva costa una meta subita. La touche, impeccabile, la mischia meno.

Chi è assolto perché il fatto non sussiste, allo Stadio, non è venuto. Si è avvalso della facoltà di girare al largo da L’Aquila, per i prossimi 75 anni. Non perché a L’Aquila ci possa essere qualcuno facilmente emozionabile, come ebbe a dire il suo datore di lavoro tempo fa, bensì perché, sperabilmente, in qualche anfratto remoto del suo cervello, forse alberga un pezzetto di senso del limite, nonostante continui a blaterare ignobili tentativi giustificativi. Nel frattempo, il suo ricordo, cadrà mestamente in prescrizione.

Buon anno, l’Aquila Rugby Club.
Ti auguro di riconquistare la città, prima della vittoria in campionato.
Ti auguro di scrivere un po’ di Epica, di Etica, di Etnica, e di Pathos.
Ti auguro di pagare gli stipendi, e di avere i soldi per gli investimenti.
Ti auguro di trovare sponsor non episodici. E non legati ai prossimi appalti da vincere.
Ti auguro di essere sempre sportiva, e di trovare arbitri all’altezza.
Ti auguro di essere saccheggiata dalla Nazionale Italiana di rugby.
Ti auguro di ricordare sempre le tue belle persone, e di dimenticare gli approfittatori.

Ti auguro di ricostruire anche i sogni della città, quelli dei ragazzi, dei bambini, e delle persone più umili, quelle di fatica.

Io posso prevedere i terremoti.

Alcuni di quelli con cui sono in contatto, tramite Facebook, ieri, hanno voluto rilanciare, sulle loro pagine, le dichiarazioni di una persona che sosteneva di aver previsto il verificarsi di un terremoto assai pericoloso, nelle nostre zone, tra le ore 17,30 e le 19 del 27 ottobre 2016.
Tali dichiarazioni, sarebbero state suffragate da analoghi segnali di pericolo, in quegli orari, registrati da un’altra persona, che dice di studiare dei possibili precursori sismici.
L’allarme, si concludeva, dichiarando che “PROBABILMENTE”, la scossa sarebbe avvenuta.

Per fortuna, ieri, tra le 17,30 e le 19, non si è verificata alcuna violenta scossa di terremoto.
E questa, è una buona notizia, secondo me.

Mi interessa molto, provare a ragionare sulle motivazioni che spingono le persone a far attraversare la propria vita da elementi di fiducia in pratiche o in teorie che non siano scientificamente comprovate.

Grandi condottieri del passato, decidevano di dar battaglia, un giorno, piuttosto che un altro, secondo il risultato di oracoli, o le parole di astrologhi, o di indagini sulle viscere di animali sacrificati.
A scuola, da piccoli, ci raccontavano che Romolo avesse deciso di edificare Roma in un certo punto, interpretando il volo di uccelli. E se Romolo aveva costruito così, la Città Eterna, chi sono io per contestare che il risultato di una partita di calcio, dipenda dal colore delle mutande che indosso quel giorno ?
Così come, ci è stato spiegato, a scuola, che l’Imperatore Costantino, in sogno, vide la Croce di Cristo, e, per questo, dotò le sue Legioni Romane del simbolo cristiano, vincendo, perciò, una battaglia decisiva, e, per questo, si convertì, giustamente, al Cristianesimo, che divenne così, la religione ufficiale dell’Impero.

La fondazione di Roma, o il Cristianesimo.

L’interpretazione di segni e sogni, che diventa decisiva per il futuro stesso dell’umanità, e che, esattamente così, veniva spiegata, in classe, a intere generazioni di ragazzi.
Seriamente, qualcuno può pensare che ci si possa, tranquillamente sottrarre, dal punto di vista culturale, o persino inconscio, al potere e all’influenza di simili esempi, che sono archetipici ?
Fondativi, cioè di una mentalità, di un modo di pensare.

A questo, credo vada aggiunta la constatazione che da qualche decennio, per converso, è venuta meno la fiducia nella Scienza, e nella razionalità umana.
Su una qualunque materia, oggi, dai vaccini all’olio di palma; dall’abbronzatura ai danni alla salute provocati dagli zuccheri, o dagli acidi grassi insaturi; dalla medicina allopatica, a quella omeopatica, si può dire che non vi sia campo dello scibile umano in cui la scienza, quella che dovrebbe definire il “metodo esatto”; la “ Verità”, non vanti profondissime divisioni, dibattiti feroci. Studi che sostengono la bontà di una tesi, ed il suo esatto opposto. Talvolta, in modo molto conveniente per le aziende multinazionali del farmaco, o dell’alimentazione, o del tabacco, o del petrolio.
La “Verità”, oggi, è solo il marchio di un pensiero di maggioranza, forse.

Il Comune di L’Aquila patrocina, impunemente, un convegno sulla “ Vita oltre la Vita”.

Qualcuno può seriamente prendersela con chi spieghi di poter prevedere, PROBABILMENTE, violente scosse sismiche, studiando l’allineamento dei pianeti, o le emissioni di gas radon ?

Io sarei felice, se qualcuno prevedesse, con precisione cronometrica, i terremoti. Non avremmo bisogno di un mare di chiacchiere sulla prevenzione. Basterebbe, all’ora giusta, uscire di casa, o da scuola, e recarsi in una apposita aria d’attesa all’aperto, imbracciare i nostri telefonini, e filmare in tutta tranquillità i soggetti che abbiamo scelto per raccontare poi, con annesso video, su un social network, l’emozione della terra che balla. Si potrebbe tranquillamente continuare a cementificare qualsiasi superficie, ad ignorare la bellezza e la funzionalità delle piazze; si potrebbe continuare nel più tranquillo disinteresse verso la sicurezza di edifici pubblici e scuole.

Ciascuno di noi, nella propria vita quotidiana, sperimenta, costantemente, su di sé, l’efficacia delle profezie.
La mia ipocondria mi suggerisce, costantemente, che sta per farmi male la schiena; che mi sto per raffreddare; che sta per scoppiarmi un terribile mal di testa. Per non parlare di ictus e infarti, che, mi colpiranno certamente.
La mia ipocondria, alla fine, vincerà.
Perché, purtroppo non sono né invulnerabile, e nemmeno immortale.
Il che, a pensarci bene, è una autentica fregatura.

In verità, noi pensiamo che la Vita, e la Natura, siano totalmente controllabili. E ci rifiutiamo, religiosamente, di accettare che vi sia qualcosa che si ostini a sfuggire al nostro potere. Se possibile, lo annienteremmo, questo qualcosa.
E quando qualcosa ci sfugga, perché ad esempio siamo colpiti da una terribile malattia, non possiamo accontentarci dei tentativi della medicina, spesso impotenti. Cerchiamo le colpe in cospirazioni oscure. Ci rivolgiamo a cure improbabili o a sciamani che ci guariscano con l’imposizione delle mani.

Chi sono io, per criticare qualcuno che, dinanzi alla propria fine, scelga una qualche magia, per continuare a coltivare la speranza di un domani ? Io non sono nessuno, né per giudicare, né per indicare.

A scuola, ci fanno studiare bene la poesia, di Giacomo Leopardi ( a proposito, quanti di noi sapevano che i suoi manoscritti erano a Visso ? Lo sapevamo tutti, giusto ? E ogni domenica, ci andavamo in gita, con pranzo finale all’agriturismo gourmet lì vicino, giusto ? ) ; ma ci raccontano, solo sottovoce, la sua terribile forza. La sua capacità di guardare, nel profondo, una Natura totalmente indifferente al nostro destino. In fondo lui era così pessimista, solo perché era rachitico e gobbo, no ?

Noi, non siamo esercitati, a guardare in faccia la realtà. Che non è la stessa cosa dell’accettarla. Anzi, siamo coccolati quando la realtà ce la rappresentiamo a misura di illusione. E ci piace ascoltare solo quel che vorremmo sentirci dire.
L’illusione ci fa comprare, ci fa spendere, ci fa votare, ci fa sperare. Ci porta persino in guerra, se necessario.

Quindi, io non me la prendo, con chi scrive che, domani mattina, PROBABILMENTE, ci sarà un terremoto devastante.
La paura è un mercato enorme. E’ un mercato economico, ed è un mercato politico.

Io vorrei solo, umilmente, dire a voi tutti, che la Realtà, la Verità, sono sostanzialmente, un faticoso cammino di Ricerca, e di Dubbi, e di Errori.
Siamo umani, e, almeno per il momento, non possiamo prevedere il futuro. Non vinciamo tutti al Superenalotto. E, nonostante ogni promessa, dovremo morire.
Lasciate perdere gli spacciatori di certezze e di verità facili. Lasciate soli gli spargitori di odio e i collezionisti di ambiguissimi risultati non verificabili.

Il vento caldo, non annuncia terremoti.
A Lecce, tira sempre scirocco, ma è uno dei pochi posti d’Italia non sismici. E infatti le case costruite coi soli mattoni di tufo stanno in piedi.
Altrove, sarebbe bene comportarsi diversamente. Quando a me succederà qualcosa, ci saranno un paio di generazioni di amministratori comunali, compresi gli ultimi, che ne avranno responsabilità: perché, pur rispettando la Legge ( forse ), hanno permesso la costruzione di case e palazzi enormi, su strade ad un unico senso di marcia, e, quando l’ambulanza dovrà venire a prendermi, io devo sperare che nessun gatto nero le attraversi la strada, perché, se dovesse incontrare un’altra automobile nel suo percorso verso l’Ospedale, dovrà fermarsi e fare manovre folli, per disincastrarsi, spendendo così il mio ultimo tempo di vita, invece di salvarmi.

Al soldato che le chiedeva se sarebbe tornato salvo dalla guerra, la Sibilla Cumana rispose: “ IBI REDIBIS NON MORIERIS IN BELLO “.

Decidete voi, dove mettere la virgola.

19 novembre 2016

Una domanda.
Che faccio da tanto tempo, ma sempre senza risposta.

Quanto sono antisismiche le Scuole aquilane ?

La Circolare 5/8/2009, del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 13/8/2009 ( giusto in tempo per il pranzo di Ferragosto ), dal prode Ministro Altero Matteoli, precisa alcune questioni interessanti.

A giugno del 2009, venne approvata la Legge 77, quella che stabiliva i termini generali per la Ricostruzione della città di L’Aquila. In quella Legge, tra l’altro, si stabiliva l’entrata in vigore di una nuova normativa antisismica ( quella che, in realtà, era stata pensata dopo il terremoto di San Giuliano di Puglia del 2002, e sempre rinviata per la sua entrata in vigore ).
Si poneva un problema interpretativo, che riguardava tutti gli appalti posti in essere dalla Pubblica Amministrazione.

Appalti già assegnati, ma magari non ancora iniziati i lavori, avrebbero dovuto rispettare la normativa antisismica prevista al momento della emanazione dell’appalto, o avrebbero dovuto anch’essi adeguarsi alla nuova normativa antisismica ?

Il Ministero, risolve la questione così:
” Per i lavori pubblici, fermo restando quanto disposto dal comma 4 dell’art. 20 del citato decreto-legge n. 248/2007, il richiamato comma 3 del medesimo art. 20 esplicita chiaramente la volonta’ del legislatore di consentire l’applicazione della normativa tecnica utilizzata per la redazione dei progetti (e fino all’ultimazione dei lavori e all’eventuale collaudo), e quindi anche quella previgente al decreto ministeriale 14 gennaio 2008, sia alle opere gia’ affidate o iniziate alla data del 30 giugno 2009 sia a quelle per le quali siano stati avviati, prima di tale data, i progetti definitivi o esecutivi. “

Per dirla in parole più semplici, tutto quello che la Pubblica Amministrazione aveva dato in appalto, prima del 30 giugno 2009 ( data in cui viene emanata la legge per la Ricostruzione di L’Aquila ), e fino al suo avvenuto collaudo finale, può continuare a far riferimento alla normativa antisismica, precedente il terremoto di San Giuliano di Puglia.
Ma non solo.
A quella normativa antisismica, precedente, sottolineo, il terremoto di San Giuliano di Puglia del 2002 ( una normativa che aveva le sue basi fondanti in una Legge del 1974, più volte modificata, fino al 2001 ), devono far riferimento, anche quegli appalti pubblici, per i quali, al 30 giugno 2009, siano già stati rilasciati i progetti definitivi o esecutivi.

E, adesso, la domanda finale.

A L’Aquila, nell’estate del 2009, c’erano appalti pubblici per i quali fosse stata già avviata, almeno, la fase di progetto definito o esecutivo ?
Io, la risposta a questa domanda, non la conosco.

Però.

Nell’estate del 2009, a L’Aquila, c’era un grande dibattito, che riguardava la necessità, giusta, di avere scuole aperte, per il nuovo anno scolastico, altrimenti ci saremmo ritrovati con la città spopolata.
Io non so, ad esempio, se in quel periodo, la Protezione Civile, o altre autorità pubbliche, avessero avuto cura di intervenire con provvedimenti di ripristino per le scuole aquilane che erano rimaste in piedi.
Se lo avessero fatto, la Circolare del Ministero delle Infrastrutture, li autorizzava a far riferimento alla normativa antisismica precedente al terremoto di San Giuliano di Puglia del 2002.

Questo, il link alla Gazzetta Ufficiale:

https://www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2009-08-13&atto.codiceRedazionale=09A09857&elenco30giorni=false

Gli aquilani, e le aquilane, non parlano d’altro.

Di persona, per telefono. Lasciando parole sui social network.
Quasi ogni discorso, e ogni pensiero, riguarda il terremoto.

C’è chi ricorda che, già nel 2009, aveva spiegato, in gran segreto, il rischio che si può correre all’attivazione della faglia di Campotosto. Con la diga, che, se crollasse, l’acqua arriverebbe a Piazza Palazzo.
Ma allora, non si poteva dire, per non allarmare la popolazione. E oggi, invece, senza nominarla, ne parla la Commissione Grandi Rischi. Che stavolta si è riunita secondo legge, forse. E il cui comunicato finale lo hanno firmato tutti i componenti, forse. Senza bicchiere di Montepulciano, stavolta.
Senza responsabile della Protezione Civile che invitava a fare “operazioni mediatiche”.
E spiega che le dighe sono un rischio. E si parla del Vajont. Che il processo d’appello, si fece a L’Aquila. Tutti assolti. Perché la classe dirigente, non si processa.
Però a L’Aquila, non sarebbe come per il Vajont. Sarebbe diverso. L’Enel smentisce problemi. Poi però, dichiara che parte dell’acqua, verrà fatta defluire.
Servirà magari a risolvere qualche problema per chi l’acqua in Abruzzo, da giorni non ce l’ha. Mentre c’è, in Abruzzo, chi l’acqua non l’ha mai pagata, come tanti, nella Marsica.

Le persone dicono che la Commissione Grandi Rischi ha dichiarato che può fare un nuovo terremoto tra il sesto, e il settimo grado della Scala Richter, a L’Aquila.
Però la Commissione Grandi Rischi, non dice proprio così. Afferma invece che ci può essere un nuovo terremoto distruttivo, nelle aree vicine a quelle attivate dal terremoto di Amatrice del 24 agosto scorso, e che ancora non si sono mosse. E’ un accenno. Un’allusione cortese. Un vestito buono per tutte le stagioni.
Ma la faglia di Pettino il 6 aprile 2009, non si è mossa. Se esiste, la faglia di Pettino, quella del terremoto del 1703. Ma se esistesse, il quartiere di pettino non dovrebbe esistere. O, almeno, essere profondamente diverso.
Sì, va bene, ma adesso le case le hanno ristrutturate. E le hanno ristrutturate bene.

Certo, le case danneggiate, hanno avuto un contributo per la ricostruzione da parte dello Stato, che consentiva un adeguamento alle norme antisismiche, del nostro stesso Stato, in una percentuale compresa tra il 60 e l’80%, di quanto previsto dalla nuova normativa antisismica, costruita dopo il terremoto di San Giuliano di Puglia del 2002, ma entrata in vigore, a giugno del 2009, dopo il terremoto di l’Aquila.
Ma questo, significa quindi che, a L’Aquila, che, per compiacere i prodi edificatori aquilani è ancora in zona di “pericolosità 2”, non al massimo delle cautele e delle misure per i materiali usati cioè, il Governo del 2009, consentì che si abitasse in case solo parzialmente adeguate alla normativa antisismica vigente.
Perché, se non si fosse messo mano al proprio portafoglio, per un adeguamento al 100%, nessuno avrebbe detto, e nessuno, oggi, dice nulla. Può dire, nulla.
E’ tutto agibile, legalmente, ed abitabile.
Il che riguarda, ovviamente, anche gli edifici pubblici. Università e Scuole comprese.
Anzi, per Università e Scuole, la questione, è ancora più divertente. Perché una circolare dell’allora Ministro delle Opere Pubbliche, nell’agosto del 2009, spiegava che tutti gli edifici pubblici, per i quali in quel momento, fossero già stati affidati appalti per la ristrutturazione, o fossero già al momento della progettazione esecutiva degli interventi, potevano far riferimento, non alla normativa antisismica del 2009. Bensì a quella precedente, risalente al 1978, e poi varie volte rivista, fino alla prima metà degli anni ’90.
Quindi, se ad agosto del 2009, qualche scuola aquilana, o pezzi di Università, fossero stati oggetto di interventi, per consentire la fondamentale ripresa delle lezioni nel settembre-ottobre 2009, che doveva evitare lo spopolamento della città, questi interventi, legalmente, potevano far riferimento ad una normativa antisismica della prima metà degli anni ’90. Più o meno.

Le persone si chiedono se le Scuole siano sicure.
Alcuni se lo chiedono dal 2009. Altri, se lo chiedono da oggi. Parecchi Presidi, se lo chiedono dal primo giorno in cui si sono insediati. In qualche scuola ancora ci si ricorda, di quando a marzo del 2009, con le scosse in corso, le porte d’emergenza erano chiuse con catene e lucchetti, per non far andare i ragazzi al bar, fuori dalla scuola, durante la ricreazione. Visto che non c’erano abbastanza bidelli per sorvegliare tutti. Chi sa se da qualche parte, funziona così anche oggi. O se, come allora, durante le prove di evacuazione, alle scuole elementari, i bambini venivano fatti sostare sulle scale. Chi sa se ne fanno di prove di evacuazione.
Tante mamme, dicono che no, non se ne fanno.

Tanti dormono in camper, in questi giorni. Parecchi sono stati al mare, o a Roma, fino a domenica. Questo lunedì è ricominciato tutto. Ed è ricominciato con il comunicato della Commissione Grandi Rischi.
E i Sindaci, chiedono cosa dovrebbero fare.
E la Commissione risponde che devono applicare il Piano di Protezione Civile del Comune.
Dev’essere per questo che un fantasioso Sindaco di un comune vicino L’Aquila, ha scritto un’Ordinanza consigliando di andare a svernare per un po’ negli alberghi sulla costa abruzzese.
Dove non si sa se c’è la luce, se il fiume esonda; se i limiti di balneazione sono superati dai batteri colifecali, o se sono soltanto obsoleti.

Quindi, un Sindaco serio, dovrebbe sciogliere un piccolo dilemma.

Io ho una serie di edifici pubblici agibili a norma di Legge. Ma non a norma antisismica, secondo un’altra Legge. Ce la faccio entrare, la gente, o trasferisco tutto nelle pubbliche piazze, al freddo e al gelo, aspettando che arrivino il bue e l’asinello a riscaldarci ?
E, in presenza di una possibile scossa potenzialmente distruttiva di terremoto, che non si sa se arrivi o meno, ma, visto che siamo in un territorio ballerino, diciamo che è probabile che arrivi, anche se non sappiamo quando, facciamo evacuare la città ?
E, sia chiaro, che queste domande, valgono per l’oggi. Valgono tra una settimana. Probabilmente, saranno ancora valide tra un mese, o tra un anno.
Quindi, se non agisco oggi, tra un mese, se dovesse accadere qualcosa, sarei altrettanto responsabile. Ma, se agissi oggi, e qualcosa accadesse, fra due anni, diciamo, nel frattempo, come si vive ?

No, perché, in realtà, basterebbe un po’ di tempo, per riabituarsi all’idea che, tanto, non succede nulla. Che succederà, sì, ma non sappiamo quando.
E, nel frattempo autorizzare una serie di costruzioni interessanti.
Come quella che sta per sorgere sotto le mura della città, nella scarpata sotto il convento di San Basilio, in viale della Croce Rossa. Quanti piani ? Cinque ? Come il palazzo sorto al posto del distributore di benzina in viale Corrado IV ?

A L’Aquila si parla quasi solo di terremoto.

Mentre viene divelto ogni giorno, qualunque rispetto per la Scienza. Certe volte, a cura di studiosi e scienziati.
Mentre l’esercizio dell’assunzione di responsabilità, per alcuni è reso impossibile, e altri si danno da fare ogni istante per scansarlo da sé il più lontano possibile.
Si parla e si scrive sui giornali, con sprezzo del pericolo e della cognizione di causa. Sui social network, ognuno ha una verità da diffondere, compresa la mia.

L’importanza di far riprendere le lezioni all’Università, ignora gli appelli degli Studenti, e la voce di Docenti che chiedono cautela, trasparenza, e impegno ai massimi livelli per la sicurezza.
Il Turismo, o l’Economia, che avrebbero dovuto, da tempo, far diventare la sismicità del territorio la direzione di una occasione di sviluppo totalmente innovativa ed inesplorata nel nostro Paese, sono e saranno ancora di più in ginocchio, in attesa della preconizzata scossa di sesto-settimo grado della Scala Richter.

E le persone si confrontano con la propria angoscia. Con i propri ricordi. Con i lutti subiti. Con la tragedia devastante dell’Hotel Rigopiano. Con la propria impotenza. Con la propria paura, per sé, e per le persone che si amano.
E accade in solitudine. O dentro piccoli gruppi. Con una diffidenza enorme verso lo Stato, verso le sue Istituzioni. Alimentata da canagliesche forme di comunicazione, di speculazione politica. Ma anche da comportamenti censurabili di uomini e donne della politica, che, invece di interpretare la propria funzione come un servizio per la collettività, si mettono al servizio di interessi privatissimi, e della distruzione di una qualsivoglia fiducia nelle istituzioni della democrazia rappresentativa.
Il primo passo verso l’autoritarismo.

Si celebra l’irrazionalità, mentre si devasta ogni fiducia in chi dovrebbe assumersi la responsabilità delle scelte, ma, se si sceglie, si feriscono comunque interessi essenziali, e molte scelte di chi governi ai vari livelli, negli ultimi trenta anni circa, sono state scelte criminali, troppo spesso.

Fermatevi tutti.

Cercate di capire una cosa.

Tra poco, nel tumulto delle situazioni internazionali, nelle difficoltà di una crisi dello Stato, e dell’economia, trentennale, più o meno, non ci sarà più, l’Italia.
Non ci sarà più.

E’ adesso, il momento di spalare la neve. E ritrovare il sole.

24/01/2017

26 gennaio 2017

L’Aquila, si accorge del suo isolamento.

Era una sera d’estate. Lo scorso agosto. Il centro città, era pieno di persone, anche per gli eventi organizzati in occasione della Perdonanza Celestiniana.
E, la notte, quasi alle 3 e 32, la terra tremò. E uccise tantissime persone, e distrusse paesi. A partire da Amatrice. A pochi chilometri da noi. E anche L’Aquila, tremò violentemente.
E poi ancora, in fine di ottobre, di nuovo la terra ha tremato. Danni pesantissimi, nei paesi dell’Umbria e delle Marche. E anche in Abruzzo, la terra si è mossa, forte.
E, da ultimo, a gennaio, il terremoto, violento, è tornato nella provincia aquilana. Insieme al maltempo, che ha colpito tutta la Regione, causando morti, crisi pesantissima delle infrastrutture, e la tragedia dell’hotel Rigopiano. Cui si è sommato il terribile incidente che ha colpito l’equipaggio dell’elisoccorso del 118, partito da L’Aquila, per soccorrere uno sciatore, anch’egli perito.

D’improvviso, a partire da poco più di cinque mesi fa, il percorso, il tentativo di risalita della città, sembra interrompersi, oscurarsi, lasciando sgomenti gli aquilani.
A partire dagli operatori economici, che lamentano una pesantissima assenza di prospettiva. A partire dai tantissimi cittadini colpiti da disoccupazione e precariato dilagante.

C’è una fortissima componente emotiva, in quel che sta accadendo, anche in questi giorni, a L’Aquila. La paura si somma alla frustrazione, alle delusioni, alle illusioni infrante.
Quel “dov’era e com’era”, che diventa lontanissimo, forse irraggiungibile.
Come un sipario, che dopo quasi otto anni si apre, e svela un panorama, ancora fatto di macerie. Di abbandono. Che sommerge, i tentativi, importanti, di rialzare la testa, di cercare nuove strade.
E si rischia di restare senza forze.
Proprio alla vigilia dell’ elezione del nuovo Sindaco della città; alla vigilia di una stagione politica che affronterà nodi decisivi della ricostruzione della città. Che si confronterà con una delicatissima fase in cui le risorse economiche straordinarie dedicate alla ricostruzione, diminuiranno, rischiando di lasciare il posto ad un deserto, però nuovissimo.

Ieri, vi è stata una Manifestazione a Roma.
I cittadini delle aree del Centro Italia, colpite dal sisma in agosto, e in ottobre scorso, hanno ritenuto di dover segnalare, alla politica, al Governo e al Paese, il permanere di una condizione di difficoltà pesante. L’Aquila non c’era.
Eppure, nonostante le risorse assegnate, il quadro normativo, e finanziario, per il nostro territorio, resta aperto a preoccupanti vuoti e sottovalutazioni. A partire dall’equilibrio finanziario dell’Ente Comunale, legato a risorse straordinarie che, ogni anno, in sede di determinazione del Bilancio dello Stato, vanno riassegnate. Una condizione di drammatica minorità, per la nostra Amministrazione Comunale.
Ciò vale anche per quella percentuale di risorse dedicate alla ricostruzione ( il 4% ), che dovrebbe essere destinato alle attività produttive, ma che stenta drammaticamente ad essere utilizzato in impieghi fruttuosi e non velleitari.
Mai come ora, sarebbe invece necessario poter disporre di un quadro normativo e finanziario, che affronti in termini strutturali e certi, tutti i nodi, di modo che ogni soggetto del Territorio sappia su cosa possa realmente contare. Senza essere preda di propagande fuorvianti o deliranti.

Occorreva allora, cercare un contatto politico, con gli altri territori del Centro Italia colpiti dal sisma. Perché vi sono anche altre ragioni, importanti, che suggerirebbero azioni comuni. Perché comune è l’orografia, il tessuto abitativo, ed economico. L’Appennino Centrale, richiederebbe forme di governo unitarie, del Territorio, anche sul piano dello Stato Sociale. Per combattere lo spopolamento, servono strategie comuni e diverse dai tagli praticati sino ad ora, sulla Sanità, per le Scuole, per l’Università, per il Commercio, l’Agricoltura e l’Allevamento, l’Artigianato, i Servizi e le Infrastrutture, anche immateriali, che dovrebbero essere di altissimo livello.

Ma, ieri, è stato anche il giorno in cui la Corte Costituzionale è intervenuta sulla legittimità costituzionale della Legge Elettorale. E’ stata una sentenza, estremamente politica. Molto attenta agli equilibri di potere presenti in Parlamento, più che alla necessità del Paese di avere una Legge Elettorale, coerente con la forma statuale sancita dalla Costituzione della Repubblica Italiana.

Non sono questioni che non ci interessano, o che non siano collegate.

Gli interventi di questi ultimi anni, che hanno provato a rimodulare gli equilibri istituzionali, arrivando ad abolire, parzialmente, le Province, hanno prodotto contraccolpi pesanti, nella gestione dei territori. Rimasti nudi, davanti all’eccezionalità di precipitazioni nevose, unite al riproporsi, per nulla imprevedibile in verità, del terremoto. Basti pensare alle polemiche di questi giorni, sull’assenza di strumenti idonei a tenere le strade fruibili, anche in relazione al dramma dell’hotel Rigopiano.

E non sarà indifferente, per L’Aquila, se il Parlamento sarà capace di costruire un sistema elettorale nuovo, per entrambe i rami del Parlamento, o se le forze politiche , valutando una folle possibilità di incassare possibili vantaggi, intenderanno andare subito al voto, contribuendo così a guasti ancora più profondi dell’equilibrio istituzionale. In quest’ultimo caso, nulla di più probabile che L’Aquila elegga il proprio Sindaco, contestualmente alla tornata di elezioni politiche nazionali. E nulla di più probabile che, in questa evenienza, le specifiche nostre problematiche, diverranno un aspetto minore, di equilibri regionali e nazionali, che le forze politiche discuteranno, probabilmente nel chiuso di loro stanze nazionali inaccessibili.

E invece L’Aquila, avrebbe bisogno di una profondissima discussione, che la metta in relazione positiva, e con differenti specifiche, con il suo territorio di riferimento ( da Montereale a Capestrano ), con la sua Provincia e i poli di Avezzano, Sulmona e Castel di Sangro, con la realtà dell’Appennino Centrale, con la Regione, con l’intera Italia, e con l’Europa.

E’ urgente, questa discussione, prima che L’Aquila resti definitivamente schiacciata dentro la morsa di una crisi economica irrisolta, di possibili turbolenze pesanti del quadro internazionale, e di una non ancora definita transizione italiana, aperta da oltre venticinque anni.
Gli ultimi eventi, hanno ulteriormente peggiorato il quadro. Basti pensare all’immagine stravolta della nostra Regione, e del nostro Territorio che inciderà drammaticamente sui flussi turistici e sull’economia.
Un territorio pericolosamente sismico, dalle infrastrutture fragilissime, senza prevenzione o controllo vero dei pericoli. Edificato probabilmente senza rispetto dei rischi idrogeologici. Con le strade impraticabili o che franano, come da ultimo la strada che da L’Aquila, va a Montereale.

Si percepisce, lo smarrimento.
Di operatori economici, persone. D’ improvviso, la prospettiva, sembra venir meno. E cominciano subito a sorgere le grida irresponsabili di quelli che hanno bisogno di “piazzarsi”, in una competizione elettorale, piuttosto che affrontare seriamente i nodi dello sviluppo di un territorio difficile, e che non ammette scorciatoie.
Quelli che vogliono sanare gli abusi edilizi. Quelli che vogliono edificare fin sulla cima del Gran Sasso, o quelli che vogliono impossibili zone franche. Quelli che parleranno di “aquilanità”. Quelli che chiedono sempre l’intervento dello Stato, per risolvere i propri problemi individuali o di Categoria, ma non accettano nessuno degli obblighi imposti dalla convivenza civile: il rispetto delle leggi, il pagamento delle tasse, le regole nel mercato del lavoro.
Quelli che sanno solo chiedere, ma senza nulla dare di serio, come Confindustria, incapace di tutelare le proprie imprese che rispettano le regole e i contratti, a fronte della concorrenza sleale di quelli che da anni fanno i furbi. Basti pensare ai Call Center del territorio, e ai loro differenti comportamenti e responsabilità.

Tantissime cose, occorrerebbe fare.
Occorrerebbe, scrollarsi di dosso tante ruggini. Tante posizioni di privilegio consolidate, ma prive di reale forza propulsiva per la città. Tante rendite di posizione che bloccano il ricambio, anche generazionale, ad ogni livello della società. Tante incapacità e incompetenze.
Occorrerebbe dimenticare le consorterie cittadine, le oligarchie, le associazioni segrete dai vantaggi palesi.
E far emergere invece energie represse e competenze fortissime, che pure la nostra città, ed il territorio possiedono. Occorrerebbe operare, sia pure in una scala locale, e con gli strumenti realmente disponibili, fuori dalla demagogia, per una possibile redistribuzione delle ricchezze, che intervenga su fasce di popolazione, in Città e nelle Frazioni, sempre più marginalizzate.
Occorrerebbe compiere serie scelte di priorità per gli interventi e gli investimenti sulla cultura. Per il tessuto cittadino, sarebbe dannatamente più importante, ed educativo, anche per i tanti cittadini stranieri presenti nel nostro territorio, organizzare, d’estate, un ciclo di proiezioni cinematografiche all’aperto nei quartieri del Progetto C.A.S.E., della filmografia italiana più alta, piuttosto che festival cinematografici sempre più di nicchia.
Occorrerebbe mettere in campo una strategia lungimirante e completa per il Centro Storico, ma anche capace di inventare sin da ora il riutilizzo di tutte quelle aree cittadine, in particolare nei nuclei industriali di sviluppo, che ora accolgono operatori economici ed imprese che potrebbero tornare a popolare il Centro della Città.
Occorrerebbe collocare la nostra montagna in un quadro di relazioni nazionali e internazionali, di tutele vere, e di opportunità non demagogiche.

L’elenco è lunghissimo. E sarebbe anche necessario indicare gli strumenti concreti, le reali risorse finanziarie disponibili, per mettere in campo delle strategie.
Altrimenti, saremo inondati di propaganda dannosa.

L’Aquila ha davvero bisogno di scorgere un disegno del futuro. Qualcosa di vero su cui provare a camminare.
Qui, si misura la reale caratura di una classe dirigente, che non calibri il suo impegno politico solo in funzione delle prossime scadenze elettorali.

Avremo altri momenti difficili. Ma è adesso, che si costruisce la possibilità di essere, pienamente, un Capoluogo di Provincia e di Regione, una città generosa e propulsiva verso il suo territorio intorno; una città innovativa, capace di competere con città di analoghe dimensioni in Europa.

9 febbraio 2017

Come posso, attirare l’attenzione.

Devo mettermi su una cima di parole, indicare, col dito puntato, l’orizzonte, e affermare con forza che sto producendo un “fatto reale”. Possibilmente, dovrei farlo a favore di telecamera. O mentre mi metto in posa, di tre quarti, per un selfie, o per la foto del mio addetto alle pubbliche relazioni. In diretta sul social network.

Devo essere molto convincente, nella parte che mi sono scelto. Eroico, possibilmente. Il cuore, prima di tutto, e l’anima. E poi alzo l’asticella e invito tutti a seguire il mio esempio. L’esempio di quel che dico. Non di quel che faccio. E se faccio qualcosa di normale, deve sembrare speciale. Magari mi aiutano una serie di algoritmi umani, che non hanno bisogno d’esser pagati per essere servi sciocchi. E sottolineare che, ogni mattina, il sole sorge.

Nel clamore, neanche bene si distinguono le parole. E la memoria, dura due giorni, al massimo.

Ad esempio.
All’indomani del 6 aprile 2009, tutti, esattamente tutti, e nessuno escluso: Sindacati, Partiti, Enti Locali, Governo, Protezione Civile, Associazioni Imprenditoriali, Stampa, TV, tutti. Tutti parlavano di “Zona franca urbana”. Ne magnificavano le virtù salvifiche.

Quanti posti di lavoro ha prodotto ? Quante imprese ha aiutato ?

Oggi riciccia, come si proclama, in giro. D’altra parte siamo nei pressi del voto, si capisce.

Ad esempio.
Dal 2008, sento parlare, e leggo, di nuovo Piano Regolatore Generale. Poi c’è stato il sisma, e la Legge, che imponeva di “ripianificare la città”.
Oggi, ci accorgiamo che esiste un problema di “sicurezza”, pubblica. O che esiste un problema della ricostruzione di tutti gli Uffici Pubblici ( salvo limitate eccezioni ). E della loro ubicazione, in relazione ad una idea della città. E, possibilmente, non in relazione alle esigenze di questo, o quel costruttore edile.
E continuiamo a dimenticare , che nessuna chiesa, o quasi, è ancora ricostruita. E che le banche, quasi tutte, a partire dalla ex banca locale, si tengono lontane dalle loro sedi storiche nel Centro , e che le Poste, hanno venduto il loro edificio ad un imprenditore che ha una serie di carichi giudiziari pendenti, ed è in lite nei Tribunali con la Regione Abruzzo per la concessione dell’acqua minerale di Canistro.
Ma questi, sono soggetti privati, e non vanno disturbati.
Pure il Sindacato, si è delocalizzato.
E dimentichiamo che la ASL, da otto anni, non interviene sul complesso di Collemaggio, ma paga centinaia di migliaia di euro d’affitto che consentano ad alcune imprese di costruzione aquilane di campare di rendita, senza investire nulla.
Ma il complesso di Collemaggio fa parte degli interventi strategici sul territorio, da realizzarsi a cura di una società immobiliare, con solo denaro pubblico, però.
Gli interventi strategici, sono coerenti, o sono in deroga, al Piano Regolatore Generale vigente ?
O rispondono, semplicemente, alla logica, secondo cui tutto è possibile e contrattabile, e il solo fatto che si realizzi una costruzione, è interesse pubblico ?

Gli esempi, potrebbero essere tanti.

Ma, il punto, è attirare l’attenzione.
Andare da prora, a poppa, e da poppa, a prora, mostrando d’essere indaffarati.
Ma anche protestare, talvolta essendo parte in causa, rispetto a quello contro cui si protesta, aiuta, nel movimento inutile.

Eppure.
Le cose fatte, sono tante. In condizioni e tempi difficili. E tanti sono stati anche gli errori. Alcuni, gravissimi. Ma il discorso pubblico, appare torbido.
Come uno specchio d’acqua, nel quale si sia immersi, e, invece di nuotare, e mostrare davvero la direzione verso cui si va, ci si ingegna ad alzare sabbia dal fondo. Rendendo indistinguibili i movimenti e le motivazioni.
Sbracciandosi, per farsi vedere.

Quanto sarebbe importante, ripulire l’acqua.
Tenere insieme la cittadinanza nei suoi diritti ed interessi più profondi. Senza giocare con la pelle di nessuno. Senza nascondersi dietro le dita.

Ed invece, è tutta tattica. Tutta propaganda. Tutti discorsi a nuora perché suocera intenda. Tutti tentativi di far passare la nottata. Tutto un agitare di drappi che nascondano la realtà.

Vorrei tanto avere parole, capaci di non essere vuote.

6 aprile 2017

L’aria ha smesso di essere vento.
Via XX Settembre inizia a riempirsi. Non sento freddo, stanotte. Le persone si salutano. In silenzio. Sorrisi appena accennati. In tanti prendono le fiaccole, ed aspettano, ad accenderle.
Io sento sempre la gola che mi si chiude, quando vedo le fotografie dei ragazzi che sono rimasti indietro. Fermi a guardare un orizzonte lontano che non riuscirà ad abbracciarli.
A me manca il respiro. Sempre. E stringo i denti.
E mi sento in colpa d’essere vivo.
Ci deve essere una forza sovrumana, nelle braccia che issano quelle foto. La forza di un dolore che neanche il tempo, riesce a scalfire. Tutto, brucia.

Il Tribunale ha un piano in meno, per ragioni di sicurezza.
Molte case ricostruite, hanno un piano in più. E, le ragioni, non riesco a comprenderle.
Di fronte al Tribunale, le case ricostruite hanno i balconi pieni di persone in piedi, affacciate a guardar sotto. Noi che proviamo a riconoscerci.

C’è un momento, in cui, in silenzio, senza segnali apparenti, il corteo inizia a muoversi.
Le fiaccole sono tutte accese, e riempiono la notte di un odore primitivo, di fuoco che difende dalle belve. I passi, sull’asfalto, sono lenti. Come mani che bussino ad una porta, lievemente, per non arrecare disturbo.
Da un balcone, un uomo, lascia cadere lentamente, sul marciapiede, dei fiori, bianchi.
Una donna ne raccoglie uno, da terra.

Dove c’erano due palazzi, di vecchie case popolari, sbriciolati, ora c’è un parcheggio, a servizio del Tribunale. Forse domani anche delle Scuole, che sono lì sotto. Se verranno ricostruite. Ora sono vuote, e fredde, senza voci di bambini e di ragazzi. Scatole di mattoni marchiate dai lividi e abbandonate; hanno smesso di ospitare storie che nascono.
E, dall’altro lato del marciapiede, il cantiere di un palazzo con una nuova galleria commerciale.
Di fianco, il buco del palazzo dell’ANAS abbattuto. Chi sa cosa accadrà, di quello spazio. L’ANAS ha una nuova sede, e prestigiosa, in città. Se raddoppiasse la sua proprietà immobiliare, lo troverei immorale. E a fianco a quel buco, c’è la cicatrice aperta dell’altro palazzo crollato, che si è portato via vite.
Dentro il cratere sono cresciuti ovunque sterpi e arbusti, e piccoli alberi.
Forse, lì, ci starebbe bene un piccolo parco urbano, che accolga bambini e alberi, un po’ di ossigeno in una strada che, tra quindici anni, sarà una arteria essenziale della circolazione cittadina.
Perché dove ci sono vite strappate, ci dovrebbe essere il segno del ricordo e di un tempo capace di rinascere, di dare nuovo significato ai luoghi e far germogliare segni di rivolta alla sorte.

Dietro il cratere, ci sono i palazzi bombardati.
Le stesse foto che vedevo di Beirut, da ragazzo. Come se qualcuno avesse deciso di mitragliare ferocemente le finestre, le giunture, le tramezzature di un intonaco povero. Sono tre palazzi alti, e sembrano giunchi sotto lo scirocco.
Si parla a bassa voce, camminando, come se non si volesse disturbare la notte.
Qualche suoneria di cellulare che suona, sembra una profanazione. Una invasione inutile, in un luogo, ed in un tempo, in cui l’unica cosa davvero importante, sarebbe tenersi per mano.
La strada si alza. La salita diventa più pronunciata. In cielo, la luna è crescente. Da ponente, sospesa, come una lacrima che non scende.

La strada verso via Sallustio è spezzata dai pilastri del Ponte del Belvedere. Immagino un ponte leggero, ad una campata unica, solido e sicuro, senza pilastri che arrivino a trenta metri sotto. Come se fosse un arcobaleno sui palazzi. E che non ci sia più la disperazione che fa buttar giù.
La curva si stringe, e si vedono, da lontano, le fiaccole ancora all’altezza del Tribunale. Come lucciole dolci.
Le voci si fanno più basse.

C’era il Bingo, lì. Qualcuno pensava che, aprendo le sale Bingo, ci sarebbe stato un bell’incremento occupazionale in Italia. Oggi L’Aquila è piena di sale slot. Di posti dove si scommette. In tanti di questi posti, le aziende, gli stipendi non li pagano. Ci sono orari assurdi. Per prendere qualcosa, le ragazze devono dimettersi, e chiedere l’indennità di disoccupazione, se l’azienda non paga da almeno tre mesi.

A fianco alla Casa dello Studente, il palazzo che c’era, ricostruito ora, mi sembra sia più alto, che in passato.
La donna che aveva raccolto il fiore da terra, s’avvicina alla recinzione, e ci appoggia il fiore. Lasciandolo lì.
A guardare quelle braccia alzate al cielo; quello scavo dentro il cuore.
Di fronte, anche l’ala del palazzo venuto giù, ha ucciso.
Il ragazzo giocava a tennis.

Dopo i terremoti di agosto 2016 e gennaio 2017, il palazzo a sinistra, è stato transennato. Continua a piovere brandelli sul marciapiede. Come la statua del ladrone cattivo, che si sfaldi, d’anno in anno. Lungo le strade laterali, di fronte, le persone s’inerpicano dentro il buio, per andare ad ascoltare altri ricordi. Altri sorrisi rimasti negli occhi.
Le persone che camminano, si guardano tra loro.
Lungo la strada, su tutto quello che è stato ricostruito, c’è scritto che si vende, che si affitta. Che si cerca qualcuno o qualcosa che abiti. E renda vivo lo spazio.

La casa sull’angolo di via Campo di Fossa, è abitata. Ci sono dei ragazzi, sul balcone. Sotto, invece come sempre, un buio lancinante, da cui non esce nessuna musica.

Sulla ringhiera, che dà sul giardino, la bandiera greca. E la foto di uno studente. Io non riesco ad immaginare la mutilazione oscena di un dolore così atroce. Il tessuto della bandiera è nuovo. E’ stata cambiata, la bandiera annerita di traffico automobilistico, che è lì tutto l’anno.

Forse dovrebbe essere possibile, segnare, in città. I nomi, nei luoghi in cui le cose sono accadute. Perché ci si possa passa accanto immaginando di accarezzare quei volti.
Non serve a niente, Non toglie nessuna lacrima di dosso.
Ma forse è necessario.

E’ arrivato il silenzio della piazza.
E i nomi.
E il silenzio.
E ancora i nomi.

Se qualcuno cerchi, le ragioni per esserci, o per non esserci, ogni anno, ogni volta, cancellando tutti i pezzi di cinismo che possono affiorare, emozionandosi, per i volti di ciascuno, ogni anno con una ruga in più, con le spalle più curve, quelle ragioni stanno dentro il silenzio, e dentro i nomi.

E’ il silenzio del nostro respiro; sono i nostri nomi, che vengono pronunciati.

Sono candidato, come Consigliere Comunale, alle elezioni amministrative di L’Aquila, del prossimo 11 giugno.
Sarò in una Lista Civica, che si chiama “Territorio Collettivo”, che fa parte della coalizione di Centro Sinistra, e appoggia, come candidato Sindaco, Americo Di Benedetto.

E’ la prima volta, che sono candidato in una competizione elettorale. E sono emozionato, perché penso di partecipare a quel processo bellissimo, e difficile, che è la Democrazia.
Ho provato ad immaginare, cosa significhi rappresentare, all’interno del Consiglio Comunale, i cittadini aquilani. E mi sono venuti in mente tanti volti.
E ciascun volto, racconta una storia.

C’è la donna, vedova, madre di un ragazzo in difficoltà, e disoccupata. Che sorride, quando cammina, e mi piace, per la sua forza, anche quando il suo sorriso, ha una piega amara.
C’è il pensionato di una grande fabbrica aquilana. Che non può più trasmettere, su un territorio che ha visto ridursi drammaticamente il numero di imprese presenti, il suo sapere di lavoratore di altissima professionalità, ma s’impegna, in attività volontarie ed importanti, legate alla memoria del suo Municipio aquilano.
C’è il giovane uomo, partito giovanissimo, da L’Aquila, in Europa, a mettersi alla prova in un lavoro creativo e competitivo, e che torna a L’Aquila, ad aprire una sua attività, per scommettere su sé stesso, e sul futuro della nostra comunità.
C’è l’uomo della mia età, poco più di cinquanta anni, con moglie e due figli a carico, che ha perso il suo lavoro, e che, da tempo, alterna il lavoro temporaneo con agenzie interinali, con l’indennità di disoccupazione. E gli pesa, dover scegliere, forse, quale tra i due figli, far proseguire negli studi.
C’è la lavoratrice di un call center, che ha la madre invalida, da accudire ogni giorno, e che ogni giorno, si chiede se la sua azienda le abbia versato quanto è dovuto, per la sua contribuzione pensionistica.
C’è il muratore, che faceva l’operaio agricolo, al Vivaio che la regione Abruzzo lascia morire, e che si guarda le mani, bianche di calce, e, una volta, immerse nella terra a far crescere alberi per le nostre montagne.
C’è la donna appena licenziata, dalla professionalità altissima in campo informatico, da quello che era una volta un Laboratorio di Ricerca importante, per la città, e che da tempo annaspa, senza una vera missione produttiva.
C’è la signora che lavora nelle Pulizie, e che lotta contra un tumore. Sperando di mantenere il suo lavoro, nonostante le assenze per malattia.
C’è la giovane ingegnere, che inizia a muovere i suoi passi dentro uno studio, lavorando tantissimo.
E ci sono mille altri volti, e altrettante storie. Che conosco e incontro ogni giorno nel mio lavoro, e che ogni giorno, mi interrogano.

E ciascuno di loro, vive una città provata, come la nostra, dal terremoto.

Ciascuno di noi affronta il traffico al mattino. Tutti ci chiediamo quanto la scuola dei nostri figli sia sicura, in caso di sisma. C’è chi vive nel progetto C.A.S.E., e vorrebbe tornare nella propria casa ricostruita; reincontrare gli amici nella piazzetta vicina, respirare un po’ d’aria tra gli alberi alla pineta di Roio.
In molti prendono il bus del mattino, per andare a lavoro, ma arrivano spesso in ritardo, perché la nostra è diventata una città lunga quasi trenta chilometri.
Molti tra loro, hanno nostalgia di una passeggiata sotto i Portici lungo Corso Vittorio Emanuele, guardando le vetrine dei negozi.
Qualche giovane si chiede, perché, per correre, debba stare in mezzo alla strada, o debba pagare una quota associativa, che non può permettersi, per stare in una palestra, o in un campo d’atletica, libero dai tubi di scappamento delle automobili.
In troppi, sono arrabbiati, perché nelle loro case colpite dal terremoto, spesso, e impunemente, sono entrati i ladri a saccheggiare.
Tutti vorremmo una città per bambini, anziani, donne; accogliente, con chi abbia un handicap.

Ognuno di noi, si domanda, quale sarà il futuro della nostra città, quando finirà la spinta economica della Ricostruzione, che pure non è ancora sufficiente a redistribuire occupazione e opportunità, e dovremo affidarci ai nostri saperi: quelli artigianali, quelli dell’Università, alle nostre esperienze d’arte, quelle istituzionali, e quelle nate dall’iniziativa coraggiosa di aquilane ed aquilani; e dovremo affidarci alle straordinarie caratteristiche delle nostre montagne e della nostra capacità di intraprendere, e di essere un grande centro amministrativo dello Stato in ogni sua articolazione, impegnato a pensare e programmare davvero il progresso del Territorio.

Sono questi incroci, tra le persone, la città e il suo territorio, ed il tempo prossimo, che chiedono di essere rappresentati, e orientati.
Con una visione che combatta ingiusti privilegi e furberie e interpreti il bene comune, ed il desiderio di vivere bene, in un luogo sicuro, anche se difficile, capace di dare speranza di vita alle giovani generazioni, e bellezza a tutti i suoi abitanti e visitatori.

Io vorrei impegnarmi in questo.

Per ricostruire davvero L’Aquila, è necessario costruire relazioni: con i Municipi che ne sono parte, con i comuni vicini, con la dorsale appenninica, con la sua Provincia e i suoi poli più importanti; con la regione Abruzzo; con l’Italia; con l’Europa, e oltre i confini europei, e anche con le comunità nostre all’estero.
Senza relazioni oltre le nostre Mura, rischiano di esserci solo illusioni.
C’è una crisi economica globale, che non accenna ad allentare i suoi morsi crudeli, e contro la quale, l’amministrazione comunale deve fare il massimo sforzo possibile, per dare risposte sul terreno della necessità di lavoro, ma senza far propaganda o promesse irrealizzabili. Seriamente.

Vorrei impegnarmi a raccogliere la fantasia delle persone. Vorrei impegnarmi a tenere il dialogo, e l’ascolto, sempre aperto, soprattutto dopo, la data delle elezioni, se dovesse accadere che io possa essere nel Consiglio Comunale. Perché io credo che si debba rappresentare le persone, e scegliere chi, e cosa rappresentare.

Vorrei, insieme ai miei compagni di viaggio, e di elaborazione politica, della Lista “Territorio Collettivo”; insieme alle donne e agli uomini che ci daranno fiducia, prendere L’Aquila, tra le nostre mani.

Senza conoscere la realtà, non si governa

26 MAGGIO 2017

Il Centro per l’Impiego de L’Aquila, serve l’area che va, più o meno, da Montereale a Capestrano, il territorio della vecchia ASL n. 6, dove vivono circa 106.000 persone ( Censimento ISTAT 2011 ); gli Iscritti al Collocamento, sono circa il 29, 17% dei residenti; nel 2009 erano il 15% circa.

Nel 2009, gli Iscritti al Centro per l’Impiego erano 16330, di essi, 782 erano stranieri comunitari e 1264 erano stranieri extracomunitari: gli stranieri complessivamente, erano il 12,52% degli Iscritti totali . A dicembre del 2016, gli Iscritti al Centro per l’Impiego de L’Aquila, sono 30921, di essi, 2590, sono stranieri comunitari, e 4877 gli stranieri extracomunitari; complessivamente, gli stranieri Iscritti, sono divenuti il 24,14% degli Iscritti totali, con un incremento, in termini assoluti del 264%.

Tra il 2009 e il 2016, il numero complessivo degli iscritti al Centro per l’Impiego è cresciuto di 14591 unità, un aumento del 89% circa.

E’ interessante notare, come, tra il 2009 e il 2012, il numero degli Iscritti al Centro per l’Impiego, sia addirittura diminuito, rispetto al dato di partenza, per avere un improvviso picco ( + 4756 Iscritti ), tra il 2012, e il 2013, in corrispondenza degli stanziamenti finanziari sulla Ricostruzione, operati dal ministro Barca del governo Monti, e, ancora, un nuovo picco, tra il 2014 e il 2015 ( + 2708 Iscritti ), quando sono stati calendarizzati gli stanziamenti in Legge Finanziaria da parte del governo Renzi. Il numero degli Iscritti è tornato a scendere col 2016, in corrispondenza, probabilmente, con una serie di difficoltà tecniche, lamentate nel processo di Ricostruzione; dai problemi col Genio Civile, all’avvio del sistema delle cosiddette “Schede parametriche”.

Il 50% degli Iscritti al Centro per l’Impiego è donna; nel 2009, era il 55% degli Iscritti. Questo lieve miglioramento, nasconde però un dato, su cui riflettere: tra il 2009 e il 2016, il numero assoluto di uomini iscritti al Centro per l’Impiego, è aumentato del 104% ( da 7265 a 15154 ), ben oltre ogni possibile espansione dovuta alla demografia del nostro territorio; il numero delle donne iscritte, invece, è aumentato solo del 57% ( da 9064 a 15767 ), un dato certo rilevante, ma che tradisce una dinamica per le donne più simile agli andamenti demografici, piuttosto che alla attrattività del nostro territorio, rispetto alle occasioni di occupazione. Le Iscritte straniere, nel 2009 erano complessivamente 967, cioè il 47% del totale degli Iscritti stranieri, e sono divenute 3304, cioè il 44% della totale presenza straniera degli Iscritti, nel 2016, indicando che, probabilmente, il mercato del lavoro aquilano sia attrattivo per lavori a maggior caratterizzazione maschile, che non femminile, indicando inoltre che la percentuale di donne straniere che cercano lavoro, scende, vuoi probabilmente proprio per una più forte presenza maschile, vuoi perché magari meno donne straniere si iscrivono al Centro per l’Impiego.

Circa il 49% degli Iscritti al Centro per l’Impiego è diplomato o laureato, nel 2016; mentre la percentuale nel 2009, era del 52%; il che significa che il mercato del lavoro, a L’Aquila, in realtà richiede, di più rispetto al passato, un basso livello di istruzione e professionalità. In questo quadro, il dato delle donne laureate, che risultano iscritte al Centro per l’Impiego, ha un incremento tra il 2009 e il 2016, del 173% ( da 1001 a 2741 unità ), mentre quello degli uomini, del 123% ( da 547 a 1246 ), a riprova di una sostanziale difficoltà del nostro Territorio, a dare risposte alla offerta di lavoro qualificato. Nel 2009, degli Iscritti stranieri, 146, erano diplomati o laureati ( il 7% circa del totale degli Iscritti stranieri ); nel 2016, sono divenuti 893 ( il 11% del totale degli Iscritti stranieri ): appare evidente, come, nonostante le difficoltà, spesso, a rilevare i titoli di studio di cittadini stranieri, la percentuale di persone in possesso di titoli di studio qualificati, sia assolutamente risibile, contribuendo a connotare pesantemente il nostro mercato del lavoro, in termini di bassa domanda di professionalità e formazione.

Se depurassimo il dato degli Iscritti al Centro per l’Impiego, rispetto al titolo di studio, dalle incertezze relative al titolo di studio degli Iscritti stranieri, scopriremmo che a L’Aquila, esiste un enorme problema di assenza di risposte alla domanda di lavoro di persone con istruzione medio/alta. Probabilmente, scopriremmo anche che esiste una saturazione pressochè totale, del lavoro nel Settore Edile, per coloro i quali già da prima del sisma, esercitavano quel lavoro. Lo straordinario fabbisogno di lavoro, nei processi della Ricostruzione, non poteva che essere svolto, solo attraverso l’impiego di personale proveniente da fuori la nostra città, e già residente in Italia.

Il che pone molte domande sulla difficoltà della nostra situazione, riguardo il tessuto produttivo esistente, evidentemente maggiormente orientato ad un lavoro a bassa qualificazione, e fragile, quindi, perché compete essenzialmente su elementi di costo del lavoro.

Nel 2009 , risultano iscritti al Centro per l’Impiego, da più di 24 mesi, 2126 persone; il 13 % circa del totale degli Iscritti. Nel 2016, questo dato balza a 23236 persone, costituendo ben il 75% degli iscritti totali, con un incremento, in valori assoluti, del 992%, ad indicare una tendenza molto particolare, del nostro mercato del lavoro, che sembra isolare in modo sempre più stringente e drammatico una precisa fascia di persone, lasciandole senza alcuna risposta occupazionale nel tempo.

Occorre qui precisare, che, comunque, il Centro per l’Impiego considera Iscritto un Lavoratore che, in un anno, lavori per meno di sei mesi complessivamente. Il che significa che, tra gli Iscritti da oltre 24 mesi, si concentrano le persone che non hanno avuto esperienze lavorative recenti, o che abbiano dei percorsi di lavoro estremamente precari.

Nel 2009, le donne Iscritte al Centro per l’Impiego, da più di 24 mesi, erano 1205, costituendo il 56% degli Iscritti da oltre 24 mesi; nel 2016, il numero delle donne diventa di 12488, il 53% del totale, ma con un incremento assoluto, del 936%.

Nel 2009, gli Iscritti stranieri, da oltre 24 mesi al Centro per l’Impiego, erano 913, cioè il 44,6% del totale degli iscritti stranieri, mentre invece, nel 2016, sono divenuti 4703, quasi il 63% del totale degli Iscritti stranieri, e con un incremento del 415%.

Va sottolineato qui come siamo di fronte ad un fenomeno molto rilevante, di perdita delle fonti di sostentamento, di impoverimento, e potenzialmente preoccupante, per le sue conseguenze di marginalizzazione sociale, che interroga, in primo luogo la totale assenza di politiche attive del lavoro, compito che dovrebbe essere specifico della regione Abruzzo, e, la fragilità dei sistemi di formazione degli adulti e per il reinserimento lavorativo, spesso abbandonati, e richiederebbe inoltre una specifica riflessione ed intervento sui sistemi di sicurezza sociale e assistenza di ultima istanza.

Supponendo poi, che, nel caso degli stranieri, le reti di sostegno familiare, siano, presumibilmente, meno solide, e presenti, di quelle che soccorrono i cittadini italiani, in analoghe condizioni, il rischio di emarginazione sociale è ancora più grave.

Il complesso dei dati sugli Iscritti al Centro per l’Impiego, evidenzia una situazione che, indirettamente, è il riflesso di una economia incapace di dare risposte in termini di redistribuzione del lavoro. Che anzi, tende ad emarginare in maniera sempre più netta chi resti per un lungo periodo fuori dai circuiti del lavoro. Una economia che ricerca figure non particolarmente qualificate, uomini, preferibilmente nelle fasce giovani di età. In parte, si tratta certamente di un fenomeno fisiologico, legato alle specificità dei processi di ricostruzione, ma, nello stesso tempo, sottolinea come, sino ad ora, la ricostruzione sia stata un’occasione solo in parte colta, per allargare la base produttiva, per qualificarla, per renderla più stabile.

Il numero complessivo di avviamenti al lavoro, nel 2009, è stato di 17126 unità; nel 2016 di 13982 unità. Con un decremento del 18 % circa.

La dinamica nel corso degli anni, è stata davvero particolare, se si pensi che gli avviati del 2010, un anno dopo il sisma, erano stati solo 8738, divenendo stabilmente circa 10.000, per ciascuno degli anni dal 2011 al 2014, e divenendo ben 15.000 nel 2015, per poi avere un nuovo decremento.

Le donne avviate nel 2009, erano 4993, il 29% del totale; nel 2016, le donne avviate sono 5014, divenendo il quasi il 36% del totale, ma con un incremento, dopo 8 anni, solo dello 0,40%.

Il decremento, quindi, è quasi tutto a carico degli uomini.

Gli avviati stranieri, nel 2009, sono 4438, il 25% del totale circa; nel 2016, gli avviati stranieri, sono stati 2758, il 19%, del totale, con un decremento, pari al 37%.

Nel 2009, i rapporti di lavoro, a tempo indeterminato, avviati, sono stati 5022, pari al 29% del totale; nel 2016, i rapporti di lavoro a tempo indeterminato, sono stati 4370, pari al 31% del totale con un decremento, in valori assoluti, di quasi il 13%.

Le donne assunte a tempo indeterminato, sono state 1238, il 7% del totale degli avviati; mentre nel 2016, sono state 1506, il 10,7% del totale degli avviati, con un incremento del 21%.

I Lavoratori stranieri, assunti a tempo indeterminato, nel 2009, furono 1842, il 10.7% del totale; nel 2016, sono stati 1369, il 9,7% del totale, con un decremento del 25%.

Va qui precisato, che tra gli avviamenti al lavoro a tempo indeterminato, sono assai numerosi quelli del Settore Edile, che pure ha un andamento stagionale, che prevede, tipicamente, numerosi licenziamenti in inverno; e quelli relativi al lavoro domestico, quasi tutti appannaggio di cittadini stranieri.

Le cessazioni dei rapporti di lavoro nel 2009, sono state, complessivamente, 9775, mentre nel 2016, sono state 10824, con un incremento del 10% circa.

Le donne licenziate, nel 2009, furono 4403, il 45% del totale delle cessazioni; mentre nel 2016, sono state 4993, cioè il 46% del totale, con un incremento del 13%.

Gli stranieri licenziati, nel 2009, furono 1874, pari al 16% del totale; mentre nel 2016, sono stati 2413, pari al 22% del totale, con un incremento, del 28%.

Il saldo, tra avviamenti e cessazioni, nel 2009 è stato positivo, per 7351 unità; mentre nel 2016, il saldo è stato positivo per 3158 unità, con un decremento del 57%.

Anche qui, la dinamica, nel corso degli anni, ha avuto andamenti peculiari, riportando un sostanziale pareggio, tra avviati e cessati nel 2010, divenendo negativa, negli anni tra il 2011 e il 2013, in cui i cessati superavano di circa 1000 unità gli avviati, per ciascun anno, e per avere un picco di avviati maggiore rispetto ai cessati, di circa 4000 unità nel 2015, dopo che il 2014 aveva già segnato una piccola inversione di tendenza.

La dinamica del mercato del lavoro, presenta luci ed ombre. In un quadro di saldi attivi, tra avviati e cessati, sia pure in forte decremento, verifichiamo una sostanziale stasi occupazionale per le donne, che anzi sono maggiormente licenziate, che non avviate al lavoro, ed una situazione di forte decremento per i Lavoratori stranieri.

Il lavoro a tempo indeterminato, diminuisce, in termini assoluti, pur crescendo leggermente in termini percentuali, segnalando una marcata precarizzazione dei rapporti di lavoro, in un quadro di diminuzione dei rapporti di lavoro effettivamente avviati.

Dentro il lavoro a tempo indeterminato, vi è un marcato peggioramento della condizione dei lavoratori stranieri, il cui numero di avviamenti stabili ( pur con le precisazioni fatte sopra ), diminuisce, sia in termini percentuali, che assoluti, mentre cresce, leggermente, il numero delle donne assunte stabilmente.

In ogni caso, i dati di flusso, non intaccano significativamente i dati di stock, il che significa che L’Aquila è oggetto di un forte flusso di immigrazione interna, sia di Lavoratori italiani, che stranieri. Attratta dalle possibilità di lavoro aperte sul nostro territorio, ma destinata a restare in larga misura delusa.

I dati del Centro per l’Impiego, ci raccontano innanzi tutto, che L’Aquila sta cambiando.

Esattamente come accadde dopo i disastrosi terremoti del ‘300 e del ‘700, L’Aquila, sta diventando, in parte, una città di persone che sono venute qui per ricostruirla.

E questa è una sfida cui la politica ha il dovere di rispondere. I cambiamenti, vanno governati, e non subiti. Chi pensi di fermare i cambiamenti, è solo un illuso.

Le dinamiche occupazionali che la nostra città vive, sono, in parte, frutto di grandi flussi di cause nazionali ed internazionali. La nostra città, dovrebbe cimentarsi ad immaginare, seriamente, e non in termini di propaganda, come dotarsi di una politica, più forte che in passato, capace di favorire sviluppo e progresso, su molteplici terreni.

Siamo stati impegnati per anni su dibattiti ridicoli, relativi alla cosiddetta “zona franca urbana”, con i risultati che tutti abbiamo sotto gli occhi.

I responsabili di quelle discussioni, dovrebbero avere il buon gusto di tacere.

E’ innanzi tutto nella costruzione/ricostruzione di una città vivibile e fortemente innovativa, attenta alla sostenibilità ambientale, accogliente, efficace ed efficiente nelle risposte da dare alle imprese; dotata di infrastrutture all’altezza e capace di porre a frutto tutti i propri saperi, presenti nelle Scuole, nell’Università, nei centri di Ricerca, nelle Imprese e nell’artigianato, nell’arte e nella cultura e nella musica, il primo essenziale terreno su cui investire, per qualunque attività economica di una moderna città europea. L’Aquila, la sua bellezza, la sua capacità d’essere innovativa, dovrebbe essere considerato il “capitale fisso” di ogni investimento industriale e di servizi. Anche attraverso l’uso del 4% dei Fondi destinati alla Ricostruzione, oggi orientati solo al sostegno alle Attività Produttive.

Rifinanziando, e modificando leggermente, la L.366/1990, che è specifica, per L’Aquila, riguardando il Laboratorio Nazionale di Fisica Nucleare del Gran Sasso, sarebbe possibile prevedere specifici fondi nazionali per il nostro territorio, destinati al trasferimento tecnologico, dai centri di ricerca, al tessuto di piccole e medie imprese, e, se possibile, anche al rapporto tra università e imprese.

Piccole e medie imprese, andrebbero supportate in modo più forte, attraverso l’abbattimento di costi di sistema. Infrastrutturando convenientemente i nuclei industriali, collaborando positivamente sul tema del ciclo dei rifiuti, offrendo risposte amministrative all’altezza, ad esempio.

Infine, L’Aquila, dovrebbe dotarsi, ma anche rafforzare attività già in corso, in collaborazione con altri Enti, e con le Scuole superiori, in particolare di strumenti forti per l’educazione degli adulti, e di risposte alle progressive marginalizzazioni sociali; di politiche attive del lavoro, anche attraverso programmi di lavori di pubblica utilità.

Nota a margine

Chi è una persona “occupata” ?

A norma del Regolamento Europeo 577/98, base per le indagini ISTAT in Italia dal 2006, è “occupato” chi, nella fascia di età compresa tra i 15 e i 74 anni, nella settimana presa a riferimento dall’indagine statistica, abbia lavorato per almeno un’ora, con corrispettivo monetario.

Chi è una persona “disoccupata” ?

Sempre a norma del Regolamento Europeo 577/98, è “disoccupato” chi, sempre nella fascia di età tra i 15 e i 74 anni, nella settimana presa a riferimento dall’indagine statistica, non è “occupato”, sia disponibile a lavorare, e abbia compiuto almeno una azione di ricerca di lavoro.

Chi è una persona “inattiva” ?

Sempre nella fascia di età compresa tra i 15 e i 74 anni, e sempre secondo il medesimo Regolamento Europeo, e sempre nella settimana riferimento per l’indagine statistica, “inattivo” è chi non sia né “occupato”, né “disoccupato”.

7 giugno 2017

La Legge lo dice, la Legge.

Era la Legge per la Ricostruzione della nostra città, L’Aquila, la numero 77 del 2009. Settantasette, le gambe delle donne, tombola.
Dentro la Legge, con la scusa di trovare soldi utili per riparare i danni del Terremoto, il buon ministro Tremonti, del governo Berlusconi XVIII, ci ha inserito la totale liberalizzazione di ogni gioco e scommessa. Dalle macchinette mangiasoldi, al poker on-line, alla cuccagna gratta e perdi, fino all’ambarabà ciccì coccò d’azzardo. C’era un emendamento che proponeva scommesse sulla roulette russa, ma si sono fermati. All’epoca, Putin, ancora non andava così di moda.

Ci sono quei vecchi film americani, i western, o vecchi film in bianco e nero di gangster, in cui c’è sempre una sala giochi truccata, dal cattivo proprietario del saloon, o dalla mala newyorkese, certe volte mafiosetta. Si perde, nei casinò luccicanti e truccati.
Ci possono nascere storie parecchio cinematografiche.

In Italia invece no.
Con i giochi d’azzardo, la mala, non c’entra niente, e nessuna camorra, ci fa affari. Per questo, L’Aquila è piena di sale gioco, e di sale scommesse, e, quasi in ogni bar, ci sono le macchinette che fanno girare i simbolini, e parecchio i coglioni, perché non si vince quasi mai.

Ricordo luglio del 2009, a L’Aquila di ricostruito non c’era nulla. C’era il G8, invece, con Gheddafi e Obama.
E, a Pettino, nell’unico largo esistente tra i palazzi, un bar, innalzò una serie di gazebo. Dentro c’erano le slot-machines, e pure l’aria condizionata, come recitava un caritatevole cartello fuori dai manufatti provvisori. Un giusto conforto per i terremotati.
Fossero state casette di legno, sarebbero ancora lì, in mezzo alla piazza. Con le bandiere italiane piantate sopra.

Oggi, le sale gioco, e quelle per le scommesse, sono stese su tutta la città e dintorni. Da Est a Ovest, e da Sud a Nord. Sarebbe interessante contarle, tutte.
Certe volte sono enormi, organizzano spettacoli. E i bar hanno tutti le musichette ipnotiche in funzione, mentre le macchinette girano. In certi casi, un tizio, sta sempre in piedi all’ingresso, e controlla. Quando una macchinetta è tanto tempo che non tira giù le monete, avverte un suo simile: è ora di giocare, si può vincere, forse.
Gioca responsabilmente, dice la vocina, a basso volume, o la scritta veloce, per quelli che sanno leggere, dopo la pubblicità roboante sulle scommesse, piena di belle donne, e calciatori, o attori che ti invitano a giocarti un quarto dello stipendio, sull’esito di Castrovillari-Poggibonsi.
Soldi facili.
Giocano i poveri, più degli altri. L’Italia è il Paese delle scorciatoie, e, spesso, della disperazione.
La crisi economica, fa crescere il gioco, il numero dei giocatori, e i disastri.
I giovanissimi, imparano presto.
A L’Aquila, giocano tanto i muratori, di ogni nazionalità, nelle pause del panino. Qualcuno, s’è parecchio rovinato.

Lo Stato, che col terremoto de L’Aquila ha liberalizzato qualunque gioco possibile e pure quelli inimmaginabili, paga, poco, pochi operatori dei SE.R.T. delle ASL, per fronteggiare la Ludopatia. Siamo bravi a trovare nomi nuovi alle cose.
Non ci sono più tossici, a l’Aquila, quasi. Solo alcoolizzati e gente fottuta dal gioco.
E i cravattari, appostati all’angolo della cassa del bar, per prestarti i soldi, all’interesse del 123% mensile, quando finisci le monetine, quelle che sei riuscito a ramazzare da tutti i cassetti di casa, ridacchiano tranquilli.
Il cravattaro è la prima pietra del palazzo che ricicla il denaro sporco delle mafie. E che poi reinveste nell’economia legale.
L’economia legale… ma esiste, economia non inquinata dal denaro mafioso ?

A L’Aquila, nelle case gioco, ci lavorano tante ragazze.
Immagino facciano una qualche fatica, in un ambiente forse non proprio cristallino.
Di certo, non gli pagano i contributi previdenziali, in molti casi.
Note sale scommesse della città, visibilissime con le loro insegne luminose, non rispettano leggi e contratti di lavoro. Ma, forse, rispetteranno tutto quanto previsto dalla Legge 77/2009, che era quella del Terremoto. Della Ricostruzione.
Visto che in alcuni casi, i contributi non sono stati pagati per anni, da aziende che hanno sedi in varie regioni d’Italia, immagino che i controlli siano rari.
Come vedere un orso marsicano aggirarsi per Piazza San Biagio.

Ogni tanto, penso che la Legge, è una sola. Che se permetti gli strappi da una parte, in realtà, ogni strappo è possibile.
Vorrei dirlo, a tutti quelli che hanno responsabilità.
Perché ho tanta voglia di cambiare lo stato di cose presente.

La Ricostruzione della nostra città, è una sfida, in larga parte, ancora tutta da affrontare.

La prossima Amministrazione Comunale avrà davanti a sé, innanzitutto, l’impegno della ricostruzione degli edifici pubblici. Non da sola, ma anche in collaborazione con altri enti.
Sarà una responsabilità di assoluto rilievo, per la ingentissima quantità di risorse in gioco, per l’importanza che la ricostruzione pubblica ha per la nuova vita del Centro Storico.
Sarà necessaria una particolarissima cura.
Innanzitutto andrà messa in campo una capacità molto forte, nel costruire Appalti Pubblici, che, sin dalla fase di gara, prevengano infiltrazioni criminali, e possibili zone grigie nelle quali possono correre scambi di favori, o addirittura episodi di corruzione o concussione.
Occorre prevenire, sul piano tecnico, ogni errore di esecuzione, che, ad esempio, possa portare danno ad altri edifici, o a strutture pubbliche adiacenti. Ed occorre mettere in campo forti elementi di controllo, in corso d’opera, che prevedano, e contrastino, sin dall’inizio, eventuali comportamenti scorretti delle aziende appaltanti, sia in termini di tempi di esecuzione e consegna dei lavori, o in termini di difformità dai progetti presentati, che in caso di eventuali fallimenti delle società cui il lavoro sarà affidato.

Saranno decisivi, questi processi, per la credibilità di un vero percorso di rinascita.

L’Europa consente, che nei Bandi di gara, possano essere inseriti elementi che abbiano a che fare con clausole sociali, o di responsabilità sociale.

E’ qui, con attenzione, sensibilità e correttezza, che possono costruirsi scelte che favoriscano la presenza di imprese del territorio e di rispetto delle Leggi, dei Contratti e dei canoni di sicurezza sul lavoro, limitando il lavoro in subappalto.
E anche prevedere che chi abbia accesso ad una quantità di risorse così ingenti, ne riversi una parte sulla Comunità, innescando mecenatismo nei confronti della Cultura e dello Sport cittadino.

Ma andrà messa in campo anche una reale capacità pianificatoria.
Non solo, in senso logistico, per consentire accessi, mancati ingombri, vie di fuga, e vivibilità complessiva dei dintorni e delle attività intanto esistenti, durante i periodi di esecuzione dei cantieri.
Ma soprattutto, in termini di ridefinizione dell’armatura urbana cittadina, e anche delle Frazioni. Una idea di città, di territorio.

I processi di ricostruzione privata, fino ad oggi messi in atto, in conformità con le normative vigenti, presentano numerose questioni irrisolte, che possono costituire una vera e pesante ipoteca negativa sul futuro della città.

Vorrei fare una affermazione in premessa.
Non penso sia possibile, immaginare nuove e diverse normative per la ricostruzione, rispetto a quelle che sono, ad ora, vigenti. Intervenire in questo senso, su un piano nazionale, rischierebbe di posticipare di anni, i tempi della ricostruzione.
Io penso che però, sia necessario segnalare alcune criticità, ed immaginare come poter intervenire su di esse.
E, tra queste criticità, segnalo innanzitutto, l’anomalia di cantieri della ricostruzione, quasi tutti cantieri, in cui lavorano solo operai qualificati come “manovali edili”. Questo è un modo surrettizio, per le imprese, di accrescere i loro margini di profitto, al riparo dalla assenza di controlli stringenti.
Che qualità di ricostruzione vi può essere quando si bara sulle regole ?

La prima questione, riguarda la Sicurezza Sismica.
Come sappiamo, le risorse messe a disposizione per la ricostruzione della città, hanno previsto un “miglioramento” sismico, vale a dire un avvicinamento a quanto previsto dalla Legge, ma non un “adeguamento” rigoroso, a quanto la Legge prevede per fronteggiare i terremoti. Il che significa che ciascun cittadino, ciascun condomino o aggregato, ha fatto le sue scelte, in termini di prevenzione del rischio sismico, anche attraverso eventuali risorse proprie impiegate.
Ma, nessuna di queste scelte è la scelta, coordinata, di una città.
In Nuova Zelanda, dove devono fronteggiare rischi anche superiori a quelli che potenzialmente il nostro territorio può sprigionare, si sono trovati di fronte ad una scelta economica molto particolare. Se ricostruire Cristchurch ( che tra l’altro ha anch’essa una grande squadra di rugby, anche se un “tantino” più forte della nostra…), con una tecnica costruttiva che consenta alle persone di uscire comunque di casa, con una casa magari pesantemente danneggiata, ma in piedi, dopo un sisma, o se ricostruire con una tecnica che lasciasse le case totalmente in piedi, ma per un costo complessivo, pari al 25% dell’intero PIL della Nuova Zelanda.
Hanno operato la prima scelta, obbligando peraltro le persone, rese consapevoli di questo, a fare le assicurazioni private per il danno da sisma.
Da noi, una discussione così non si è fatta. E, ognuno, ha fatto le sue scelte.
Ma noi abbiamo un problema in più.
L’ultimo terremoto che ha colpito Norcia, ha buttato giù un’unica casa, che, però era stata classificata “A”, dopo gli eventi sismici precedenti. Il che significa che il sisma colpisce in modo imprevedibile. E che non si può considerare sicuro, necessariamente, qualcosa che ha già subito un pesante colpo dal terremoto.
E noi, a L’Aquila, e in tutto il territorio, abbiamo una grande quantità di abitazioni, a suo tempo classificate “A”, o “B”. E per le quali l’eventuale miglioramento, o adeguamento sismico, è stato lasciato totalmente alla volontà dei proprietari.

La seconda questione, riguarda la ricostruzione delle nostre Frazioni ( i nostri Municipi, sarebbe meglio dire ).
La quantità di risorse, a disposizione dei centri storici delle Frazioni, è più bassa che non per analoghe situazioni presenti nel centro storico della città ( salvo che per gli edifici storici o di pregio ), con l’aggravante, che le parti edificate in modo incongruo ( ad esempio case, che avevano al loro fianco stalle o pagliai ), hanno a disposizione per la loro ricostruzione cifre assolutamente basse, tali da sconsigliare ogni intervento, pregiudicando così la ricostruzione nel suo complesso, e bloccandola.
E anche qui, vi è una sostanziale assenza di strumenti urbanistici che preservino l’armatura urbana storica dei centri delle Frazioni, e magari li riqualifichino, anche nel senso della sicurezza antisismica.

La terza questione, ha a che fare con la ricostruzione ambientale, e del paesaggio.
Noi dobbiamo sapere che nel 2018, saranno passati dieci anni dall’incendio che ha devastato San Giuliano. E si potrà dunque procedere al rimboschimento.
Questa sarà una fase importantissima per la città, cui potrebbe agganciarsi anche un piano d’intervento complessivo sul verde pubblico della città e delle sue frazioni, e sul governo di grandi aree oggi nella disponibilità degli Usi Civici. Una occasione per lavorare insieme, coinvolgendo gli Enti Parco, la Regione. Rivitalizzando ad esempio il Vivaio Mammarella. Una occasione per sostanziare seriamente una politica che sostenga e promuova il Turismo nel nostro Territorio.
E’ una occasione da sottrarre agli appetiti delle cosiddette cooperative di rimboschimento, che in Abruzzo, hanno prodotto solo drammatici fallimenti dei piani di riforestazione, e lavoro nero e sfruttato, e grande spreco di risorse pubbliche.
Potrebbe essere questa invece una occasione di creazione di lavoro vero, anche di pubblica utilità, in convenzione ad esempio con le Unità di Tutela Forestale dei Carabinieri, che, nella loro precedente veste di Corpo Forestale dello Stato, hanno sviluppato importanti competenze in questo campo.

Le questioni aperte, in tema di Ricostruzione, richiederebbero, in realtà, una complessiva scelta politica della nuova Amministrazione. Da discutere e concordare col Governo nazionale.

L’Aquila, è al centro di un sistema, quello degli Appennini, che, da Nord a Sud del Paese, è percorso da analoghe problematiche socio-economiche e demografiche, oltre che dagli stessi rischi sismici ed idrogeologici.
L’Aquila, deve proporsi al Paese, come un nuovo modello di pianificazione urbana, che, in tempi rapidi, dia soluzione positiva, utilizzando risorse nazionali appositamente dedicate, ai temi che qui ho posto.
Immaginando scelte capaci di coniugare l’attenzione alla sicurezza e ai Beni Comuni, con la creazione di innovazioni tecnologiche, costruttive, infrastrutturali.
Immaginando la capacità di dare nuovo ruolo al patrimonio edilizio pubblico, quale motore del reinsediamento nel centro storico della città, e nei centri storici delle sue Frazioni, e anche una qualità tutta nuova nei processi di ricostruzione e di adeguamento antisismico, in particolare per gli edifici scolastici.

E’ una scelta , credo, necessaria, per una Ricostruzione della città, e delle sue frazioni, che sia all’altezza di un futuro degno dei nostri giovani, e di un Capoluogo di Regione.
Abbiamo bisogno di nuovi strumenti di pianificazione, e di una nuova pianificazione, complessiva della città e delle sue Frazioni.
Il futuro di L’Aquila, anche col coinvolgimento della sua Università, e dei suoi Centri di Ricerca e Alta formazione, passa da qui.

Nelle Elezioni Amministrative del 2007 votarono 48.897 cittadine e cittadini aquilani; nel 2012 hanno votato in 44.446; nel 2017, hanno votato in 40.006. In dieci anni, 8891 voti in meno.

Il candidato Sindaco Massimo Cialente ottenne allora 25.011 voti. Nel 2012, ne ottenne 17.598, al primo turno. Americo Di Benedetto, ha ottenuto, oggi, 18.275 voti.

Il Partito Democratico nel 2012 ha ottenuto 6.689 voti, nel 2007 Democratici di Sinistra e Margherita ottennero insieme 11.059 voti. Il Partito Democratico, oggi, ha ottenuto 6470 voti.
Nel 2012, il Popolo delle Libertà ha ottenuto 3.447 voti, mentre nel 2007 Forza Italia e Alleanza Nazionale insieme, ottennero 9.027 voti. Forza Italia, oggi, ha ottenuto 3899 voti.

L’UDC nel 2007 ottenne 3.105 voti; nel 2012, ne ha ottenuti 3.337. Oggi, di voti, ne ha ottenuti 778.

L’Italia dei Valori, nel 2007 ottenne 1.752 voti; nel 2012 ne ottenne 1.384. La Lista “Cambiare insieme“, capeggiata dal segretario dell’Italia de Valori, ha ottenuto 1498 voti.
Rifondazione Comunista ottenne nel 2007 1.139 voti, nel 2012, insieme ai Comunisti Italiani, ne ottiene 1.221; alcuni esponenti di Rifondazione Comunista, oggi, erano candidati con la Lista “L’Aquila Bene Comune”, che ha riportato 830 voti.

Se possiamo permetterci il confronto, nel 2007 i Socialisti Democratici Italiani ottennero 2.372 voti, e nel 2012 i Socialisti Riformisti, hanno ottenuto 1.701 voti. Nel 2017, due Liste, che hanno, nel nome, un riferimento al Partito Socialista, hanno ottenuto, complessivamente, 2540 voti.

Infine, in modo certamente arbitrario, e irrispettoso delle diverse ispirazioni politiche, proviamo a confrontare il peso di diverse Liste Civiche, che nel 2007 ottennero 7.579 voti; nel 2012 hanno ottenuto 9.387 voti e nel 2017, le Liste Civiche, hanno ottenuto, complessivamente, 14.244 voti.
All’interno di questo dato, nel 2012, le Liste Civiche Appello per L’Aquila e l’Aquila che Vogliamo, ottennero complessivamente 3314 voti. Nel 2017, i voti ottenuti dal raggruppamento formato dalle stesse Liste, con l’aggiunta di Rifondazione Comunista, ha ottenuto 2183 voti.

Il Movimento Cinque Stelle, nel 2012, ottenne 510 voti; nel 2017, ne ha ottenuti 1476.

Voglio qui ricordare, come nel 2012, al Ballottaggio, il Sindaco Cialente, venne rieletto con 20.495 voti.

In un quadro di persistente, e preoccupante, tendenza alla diminuzione della partecipazione al voto, L’Aquila vede, in queste Elezioni Amministrative, una scomposizione della rappresentanza molto accentuata, rispetto al passato, con un ricorso alle Liste Civiche, sia a supporto delle coalizioni, che autonome, decisamente molto marcato, delineando, in una certa misura, la peculiare interpretazione aquilana di un sistema elettorale che induce, chi voglia puntare al successo, a moltiplicare Liste e candidati. Una sorta di appello alla mobilitazione civica, che supplisca la perdita di credibilità dei Partiti in quanto tali, o che intervenga nei processi in atto di ridefinizione delle aggregazioni politiche, anche in vista della nuova Legge Elettorale per il Parlamento.

La Coalizione di Centro Destra, appare recuperare voti, rispetto al passato; in quella di Centro Sinistra, è interessante notare che, se sommassimo il voto dato al PD nel 2012, con il voto, allora assegnato a Sinistra Ecologia e Libertà, avremmo un dato di 7710 voti; nel 2017, se sommassimo il voto ottenuto dal PD, con quello ottenuto dai Democratici e Progressisti ( coloro che sono usciti dal PD, insieme a Sinistra Ecologia e Libertà ), si ottiene un dato di 8223 voti, e, considerando che la sola SEL, nel 2012 ottenne 1117 voti e che i Democratici e Progressisti nel 2017 hanno ottenuto 1753 voti, potremmo dire che, in realtà, il dato dei Democratici e Progressisti recupera il lieve calo del PD, e allarga la precedente rappresentanza di SEL. Probabilmente, sono molto più diverse tra loro, le persone che abbiano votato il PD nel 2012, rispetto a quelle che lo abbiano votato nel 2017. Segnando un cambiamento di segno politico.

Ho trovato, in questi giorni, davvero irricevibile la cattiva considerazione di molti, talvolta in termini di scherno, rivolta ai candidati, e alle candidate. Accusati di essere “troppi”.
E’ una considerazione vagamente razzistica, classista e antidemocratica.
E’ il sistema elettorale, e la perdita totale di capacità di selezione politica, dei Partiti, a produrre questo effetto. Paradossalmente, la richiesta di impegno personale, a tante cittadine e a tanti cittadini, è indice di una crisi della Democrazia, proprio mentre, chi invece si sia speso in questa esperienza, abbia provato su di sé, tutto il peso di una scelta che espone in prima persona e che è fatta invece, proprio in nome della vita democratica.
Il diritto di elettorato, attivo o passivo, esteso a uomini e donne maggiorenni, è esattamente quello che caratterizza la Democrazia, rispetto ad altri regimi di governo.
Chi se ne faccia beffe, ha una scarsa considerazione della Democrazia, e delle persone, in realtà.

Diverso, sarebbe stato intervenire sulle storture, che un sistema elettorale, a suo tempo pensato, essenzialmente per evitare infiltrazioni criminali, e corruzione nelle istituzioni, oggi invece produce.
E diverso sarebbe stato il richiedere alle forze politiche, la capacità di una migliore sintesi, nella proposta elettorale, e nella selezione del personale politico, piuttosto che il semplice ricorso ad un sistema che, di fatto sostituisce, con i candidati, gli attivisti di un partito o di un movimento.
Si ha bisogno di molti candidati, anche perché ci sarebbe il forte rischio, che siano davvero pochi quelli che facciano una campagna elettorale.

Il numero di candidati, diviene quindi la forza di una sorta di “Ufficio Marketing”, di questa o di quella forza politica, proprio mentre la maggioranza delle persone candidate, genuinamente, invece, si propone, e cerca di dar voce alle proprie istanze e a quelle di chi ritiene di rappresentare.

Questo schema, non può reggere ancora a lungo.

In Italia, i sistemi elettorali, scelti per le diverse occasioni elettorali, ed in funzione delle diverse Istituzioni rappresentative, sono il punto di crisi più acuto ed evidente della nostra Democrazia.
Ogni forza politica, invece di pensare alla necessità di dare piena rappresentanza alle diversità presenti nella società, e, insieme, in un equilibrio rispettoso ed efficiente, alla necessità di dotare ogni Istituzione di un governo credibile, autorevole, trasparente, ed equilibrato con gli altri poteri del Paese, compresi quelli associativi, ritiene di giocare sui sistemi elettorali una partita solo in funzione dei propri interessi.
Per questa via, la Democrazia italiana si sta svuotando di partecipazione e di prestigio, rinsecchendosi.
Rischiando di diventare preda di tentazioni autoritarie.

Ci saranno anche stati, nelle tante Liste aquilane, persone che si siano candidate per accedere ai loro cinque minuti di notorietà, o per una svagata forma di narcisismo.
Ma il problema vero, è la debolezza dei partiti.

Ho accettato anche io, di candidarmi, per la prima volta nella mia vita, in questa tornata elettorale.
Il risultato della mia candidatura, è stato mediocre.
E di questo, mi scuso, esattamente con le stesse persone che sono riuscito a convincere di un progetto, di una possibilità. E che ringrazio, contemporaneamente, di avermi dato fiducia.
Ho incontrato molte belle persone in questo percorso. Qualcuna così generosa da mettersi al servizio di un lavoro che avevo voglia di costruire, dentro il Consiglio Comunale.
Non mi ero candidato per far numero, ma per essere eletto, se ne fossi stato capace. E ho scelto di provare a convincere persone magari vicine, ad un sistema di valori che sento mio, ma non facenti parte di schieramenti precostituiti. Non ho cercato contatto con chi, immaginavo, avrebbe potuto magari astrattamente essere d’accordo con me, “contendendolo” ad una offerta politica simile alla mia. Ho provato ad esplorare situazioni nuove, in larga parte. E a chiedere, a ciascuno, un impegno anche per il dopo. Se fossi riuscito ad entrare in Consiglio Comunale.
E, devo dire, che ho voluto trattare, esattamente allo stesso modo, persino con amici e parenti. Subissando tutti, di programmi, documenti, studi, piattaforme ( devo essere stato un po’ invadente, forse, in questo senso ).
Perché pensavo, però, e penso, che la consapevolezza delle persone, sia quanto di più prezioso abbiamo, e la vera base su cui fondare civismo ed impegno politico.

Se si vuole che le Istituzioni siano serie, corrette, capaci di ascolto e di rappresentanza; se si vuole che si battano per ridurre le diseguaglianze e promuovere una vita migliore per le persone, si devono compiere scelte di mobilitazione e di relazione con gli altri a questa altezza.
Evidentemente, però, non può bastare il tempo di una campagna elettorale, a compiere questo percorso. Sarebbe stato necessario ben altro, e, altrettanto evidentemente, io non sono stato all’altezza dell’ambizione che volevo provare a rappresentare.

Io non avevo, e non ho, dietro di me, partiti o sindacati. Anzi, il Sindacato per il quale lavoro, è stato del tutto indifferente, quando non ostile, alla mia candidatura.
Anche per questo, considero preziosissimo e pieno di significato, per me, il voto che le persone mi hanno voluto dare, e mi spiace davvero, non essere stato all’altezza della loro fiducia in me.

Mi sono candidato in una Lista Civica. Territorio Collettivo.
Il giorno dopo le elezioni, su Facebook, l’Onorevole Gianni Melilla, senza che nessuno lo abbia smentito, a mia conoscenza fino ad ora, intesta al Movimento Democratici e Progressisti Articolo 1, il risultato elettorale della Lista Territorio Collettivo.

Io guardo con profondo rispetto, al tentativo, a Sinistra, di trovare forme organizzate, capaci di rappresentare una parte della società italiana, che oggi non si riconosce nelle forme che, sin qui, questa scomposizione/ricomposizione ha prodotto.
Ma non sono interessato al Movimento Democratici e Progressisti. Soprattutto, non a L’Aquila.
D’altra parte, la politica è fatta anche di rapporti di forza, e, visto che io non conto nulla, si può fare a meno di me, tranquillamente.

Durante la campagna elettorale, tra le varie forze politiche, ci sono state anche asperità di linguaggio e forzature polemiche. Sono legittime, e le comprendo. Ma ci sono stati anche molti atteggiamenti arroganti, e sprezzanti.
Esattamente quegli atteggiamenti che impediscono, da anni, che vi sia una qualche possibilità di dialogo leale, di confronto anche duro, ma propositivo, tra gli uomini e le donne, che a L’Aquila, come altrove in Italia, desiderano un luogo senza furbizie per costruire insieme una forza politica. Un luogo che permetta, sul merito delle questioni e delle pratiche, e non sulle cordate di gruppi dirigenti, di crescere insieme e provare a cambiare lo stato di cose presente.

Io non ho più voglia di prendere parte a discussioni e pratiche politiche, delle quali non sia capace di innamorarmi. Nel mio piccolissimo, naturalmente.
Per questo, avrei voglia di aprirmi ancora di più; di impegnarmi ancora di più. Di studiare. Di non aver paura. Di non sentirmi di troppo.

Queste elezioni, su un piano personale, a L’Aquila, per quel che può interessare, semplicemente, mi hanno reso più esigente, nei confronti di me stesso e degli altri.
Ho voglia di continuare ad essere fesso, con qualche limite, però.

Il processo elettorale a L’Aquila, non è concluso.

Cinque anni fa, e, come ora, lo scrissi pubblicamente, io non votai il Sindaco Massimo Cialente al primo turno. Votai per il candidato Ettore Di Cesare. Al secondo turno, andai a votare per Massimo Cialente.
Questa volta, al primo turno, ho votato per il candidato sindaco Americo Di Benedetto, e lo farò, convintamente, anche al ballottaggio.
E invito, chi ha fatto un altro percorso in queste elezioni comunali, ad andare a votare al secondo turno per Americo di Benedetto.
Le opzioni, non sono tutte uguali.
Chi sostenga una tesi del genere commette un errore grave. In politica, è necessario essere capaci di discernere e graduare, anche il dissenso. Le possibilità di ascolto, tra una coalizione e l’altra, non sono le stesse. Per quanto possano essere percepite in entrambe i casi, come difficili.
E chi, in nome di purezze ideologiche o pratiche sociali immacolate, sostenga il contrario, è solo lo specchio, che riflette la medesima immagine distorta, di quanti, da una presunta sinistra, siano più liberisti e fascisti degli originali, solo perché così si autodistinguano e qualifichino come presunta elìte intellettuale.
Borghese e trasformista nel proprio intimo.

E insomma, dai.
Destra e Sinistra, non sono distinguibili. A L’Aquila, poi, sono quasi sovrapposte.
E non si sa, per chi votare, domenica.

Certo .
Potrebbe accadere che, anche a L’Aquila, si applichi la filosofia della tassazione tipica di una Destra liberale, ad esempio. Quindi, poche tasse ai ricchi, perché così investono in economia. E per gli altri, le tasse le manteniamo più o meno così come sono. Se poi le tasse producono meno gettito, ci saranno meno servizi.
Si fa così ovunque, no ?

Potrebbe accadere quindi, che, non potendo più offrire un servizio, questo lo si privatizzi. D’altra parte, una qualsiasi Destra liberale, confida certamente di più, nelle virtù del libero mercato.
Proprio come succede con le autostrade abruzzesi, no ? Che sono state privatizzate; ora sono monopolio privato, e sono strade sicure, antisismiche, per le quali si paga sempre meno, in termini di pedaggio, o no ? Il vantaggio per i cittadini, è evidente.

Certo, per una Destra liberale seria, non si dovrebbe capire poi bene bene, come si fa a mettere un sacco di soldi in un investimento pubblico, come ad esempio il rifacimento delle funivie del Gran Sasso. Gli investimenti pubblici, sono una politica economica keynesiana. Non va bene.
Se io fossi di Destra, non lo farei questo investimento, da Sinistra assistenziale. Visto che il ritorno economico delle cifre spese, sarebbe davvero aleatorio. O no ?

Una Destra liberale seria, e un po’ rigorosa, non potrebbe mai accettare, ad esempio, che all’interno degli appartamenti del Progetto C.A.S.E., ci siano persone che non pagano le tariffe dovute. O che le spese siano rateizzate. Quel che si consuma, si paga. E basta. O no ?
Specie se sono stranieri.
Una Destra liberale, certo, gli stranieri, li accetta. Anche perché contribuiscono a mantenere una bella competizione sul mercato del lavoro. E quando c’è competizione sul mercato del lavoro, gli stipendi s’abbassano: le persone, pur di lavorare, accettano meno soldi. E per una Destra liberale, sono più importanti le imprese, che non i Lavoratori. O, no ?

Una Destra liberale rigorosa, avrebbe qualche difficoltà, ad accettare l’idea che tutti i manufatti di legno aquilani, compresi quelli abusivi, siano sanati. Diventando case, anche da affittare, come già avviene, e in nero. Certo, a L’Aquila, le condizioni ambientali, suggerirebbero di abbattere tutto, compreso quello costruito dentro le aree alluvionali di fiumi e fossi, ma una destra liberale, in fondo, è anche flessibile. E poi magari una bella sanatoria, in barba alle Leggi dello Stato, rafforzerebbe l’idea base, di una Destra liberale.
Che lo Stato è nemico, dei cittadini, e va combattuto. Va ridotta, la sua presenza.

E poi, a L’Aquila, città capoluogo di Regione, piena di sedi istituzionali, di ministeri, ci sono un po’ troppi dipendenti pubblici.
Per una Destra liberale vera, il dipendente pubblico, per antonomasia, è un fannullone. Un mangiapane a tradimento. E, giustamente, il ministro Brunetta, all’epoca, ha inasprito le condizioni dei dipendenti pubblici. Oggi, se un dipendente pubblico si ammalasse, per i primi tre giorni, non lo paga nessuno, e che cavolo.

Meno dipendenti pubblici, meno servizi pubblici, più efficienza, più efficacia.

E, sia detto per inciso, una Destra liberale seria, tollera un po’ meno, le alzate d’ingegno dei giovanotti e delle giovanotte in vita notturna. Un po’ più d’ordine sarebbe gradito. E se non è gradito ci sta bene anche un pizzico di sana repressione. Due schiaffi dati al momento giusto, educano sempre.

Non c’è differenza, tra uomini e donne, per una Destra liberale seria. Tutti i cittadini devono essere semplicemente soli, davanti al mercato. Come è giusto che sia.
Specie se decidano di occupare spazi che sono dello Stato. Come Collemaggio, ad esempio. O l’Asilo di viale Duca degli Abruzzi. Posti che vanno liberati rapidamente da occupazioni abusive e riportati nella legittima potestà dello Stato. Che però, non deve essere invadente.
Quindi, se c’è un bel progetto d’investimento di privati, su Collemaggio, la strada deve essere sgombra, e aperta. Sgombrata, appunto.

Una seria Destra liberale, non è tanto d’accordo, con i finanziamenti alla cultura. Un po’, perché come dice Tremonti, la cultura non si mangia. E un po’ perché bisogna ridurre lo spreco che si fa per certi carrozzoni pubblici. Quindi, sarebbe ora di dire basta a certe garanzie eccessive date al Teatro Stabile, o all’Orchestra Sinfonica, o alla Barattelli, o ai Solisti Aquilani. Chi ha gambe per camminare, cammina. Chi non stacca sufficienti biglietti per pagare gli stipendi, è giusto che chiuda. O suoni all’angolo delle strade. O, no ?

E perché, poi, il Comune, dovrebbe sostenere il calcio, o il rugby cittadino ? Anzi, sono quasi certo che gli impianti comunali, meriterebbero che si pagasse un serio affitto. Non è che paga sempre Pantalone, e poi i cocci sono di tutti… o no ?

Pure ‘sto Parco… mica tutti i Presidenti, possono essere giornalisti opinionisti liberi, di Destra. Facciamo uscire L’Aquila, dal Parco. Facciamo uscire il Parco dalla finestra. E caccia libera, finalmente.

Alla fine, poi, a guardar bene, tutta questa differenza, tra Destra e Sinistra, non c’è. A L’Aquila, poi.
E poi, se qualcuno proclama che prima ci devono essere gli aquilani, è giusto, che sia così. Anche se per, una Destra liberale seria, il principio cardine dovrebbe essere che, se non c’è rappresentanza, non ci dovrebbe essere tassazione.
E siccome a L’Aquila, gli stranieri non siedono in consiglio comunale, le tasse comunali, perché dovrebbero pagarle ? Perché sono stranieri, e tanto basta.

Domenica, nel segreto dell’urna, non ti guarda nessuno. Anzi, nessuno ti guarda soprattutto, se a votare non ci vai. Tanto, è tutto un magna magna.
Sfogati. E fregatene.
Eia eia, alalà.

26 giugno 2017

Oggi, si ricorda San Josèmaria Escrivà. Fondatore dell’Opus Dei.

E’ la vita ordinaria il vero “luogo” della vostra esistenza cristiana.
È consentito, pertanto, parlare di un “materialismo cristiano”, che si oppone audacemente ai materialismi chiusi allo spirito.”
Diceva l’uomo, proclamato Santo, da Papa Giovanni Paolo II.

E’ il mondo, così come è, il luogo nel quale, ciascuno, dovrebbe essere chiamato a vivere secondo le proprie convinzioni spirituali.
Io mi chiedo sempre, con molta più laica umiltà, quale sia la distanza, tra ciò che proclamiamo, come convinzioni, e i nostri concreti comportamenti.
E mi chiedo anche, cosa dica l’Opus Dei aquilano, del risultato elettorale.

Padre Escrivà, diceva le cose che ho riportato, in una omelia, in Spagna, nel 1967.
Quelle cose, estrapolate dal loro contesto, dal loro tempo, sono un’astrazione dai molteplici possibili significati.
Lette nel loro ambito storico, accompagnate come furono, dalla richiesta allo stato spagnolo di finanziare l’Università, all’interno della quale l’omelia venne pronunciata, acquistano un loro senso più preciso.
E’ possibile chiedere di vivere cristianamente, nella vita ordinaria, dentro la vita sotto una dittatura. A prescindere dalla dittatura. Senza porre in questione, la dittatura. Una dittatura cui, comunque, si possono chiedere le risorse economiche necessarie, per mandare avanti una propria scuola, di cui in ogni caso, s’intenda mantenere il controllo.
Ciascuno, e in particolare i cristiani, potrà misurare, se esista una distanza, tra Cristo e quelle concrete contingenze storiche. O, oggi, tra Cristo e gli aquilani, cui, prima degli altri, vanno indirizzati gli effetti benefici dell’azione di governo futura.

Si può chiedere, con insistenza, di avere accesso a risorse, pubbliche, necessarie, per mantenere una attività economica, la presidenza della squadra di rugby, l’occupazione di un suolo pubblico, il ruolo di dirigente di una istituzione culturale, una abitazione a canone quasi gratuito nel Progetto C.A.S.E., o in un M.A.P., a quelle stesse forze politiche, cui poi è possibile opporre la propria purezza adamantina, il proprio sovrano disprezzo.
Perché l’unica misura, è l’interesse, o il risentimento, personali.
Non costituisce sorpresa, se il Partito più importante della compagine di Centro Sinistra, il Partito Democratico, che è, da almeno venticinque anni, impegnato coerentemente nel costruire un sistema politico-elettorale nemico della partecipazione democratica dei cittadini, venga poi colpito da un astensionismo, pari ormai a quasi il 50% del corpo elettorale, quando l’astensionismo lo ha persino sollecitato, come forma di scelta “democratica”, ad esempio nel referendum sulle trivelle.
Una peculiarità tutta aquilana, di questo voto, è costituita da una larga fascia di borghesia, con qualche “giovane” e triste proletario epigono, spesso fatta di alti impieghi pubblici, o professioni intellettuali, che ha teorizzato l’eguaglianza tra Destra e Sinistra cittadina, una “falsa sinistra”, ovviamente, e ha trovato la sua via di fuga, o in un astensionismo militante, saccente, disprezzante, o in un appoggio esplicito al candidato di Centro Destra, fondato su nostalgie comunitariste da cittadella di provincia, in cui il solo dichiarato amore per una tradizione retorica, e intellettualmente assai povera, sia la strada maestra, per rinverdire passati e inesistenti fasti.

Quattromilacentoquarantasei persone, tra il primo e il secondo turno, non hanno più votato per il candidato sindaco del Centro Sinistra, e nessuno è stato in grado di consentire che arrivassero voti in più, rispetto al primo turno, il fenomeno, è troppo ampio, per essere liquidato con commenti razzistici.
I razzisti del Primo Turno, quelli che spiegavano che s’erano candidati cani e porci, ora spiegano che quegli stessi candidati, non hanno tenuto fede al loro vincolo clientelare, nei confronti del Candidato Sindaco di Centro Sinistra.

Questa caduta verticale del consenso, racconta innanzi tutto la profonda crisi del Partito Democratico aquilano, che ha cercato, fino all’ultimo istante possibile, insieme ad altre forze che si dicono di Sinistra, una candidatura di continuità, rispetto al passato, anche perché, troppo spesso da quelle parti, si è lavorato per emarginare, sistematicamente, chi non facesse parte di acquiescenti maggioranze.
L’impossibilità, solo per indisponibilità individuale, a percorrere quella strada, ha aperto il campo alle scelte individuali, in assenza di una qualsiasi capacità di sintesi.

Durante la campagna elettorale, la Lista per la quale mi sono candidato, Territorio Collettivo, ha tenuto una conferenza stampa, raccontando i numeri, degli ultimi otto anni, da dopo il sisma ad oggi, del mercato del lavoro aquilano. Una conferenza stampa andata quasi deserta. Il maggior giornale cittadino, non ha ritenuto di dedicare neanche una riga a quei numeri.
Quei numeri, in parte, erano e sono L’Aquila, e raccontano una condizione sociale difficile. E avrebbero richiesto, forse, una strategia convincente capace di rispondere, almeno in parte, ad un disagio diffuso.
Le cui cause sono essenzialmente internazionali e nazionali.
Ma, quella condizione sociale, in parte, è il frutto di scelte compiute dai governi nazionali di Centro Sinistra.

Però, qui a L’Aquila, c’è chi pensa di coniugare, senza sensi di colpa, la difesa del Jobs Act, con la tutela integrale dei posti di lavoro nei call center cittadini.
In quegli stessi call center, dove, candidati nelle Liste della coalizione di Centro Sinistra, hanno ritenuto di spiegare agli elettori, che solo la propria elezione individuale, avrebbe tutelato il lavoro e l’occupazione. Senza alcuna discussione decente sulle prospettive di un settore devastato da anni di concorrenza, fatta solo sul costo del lavoro; ed è paradossale, che chi abbia fatto campagna elettorale in quel modo, possa vantare di aver creato occupazione a L’Aquila, esattamente eludendo il costo del lavoro previsto dai contratti nazionali di Settore.
Senza che la coalizione di Centro Sinistra, abbia sentito il bisogno di dire una sola parola seria su queste contraddizioni; sul più importante Settore occupazionale privato della città, in termini numerici. Ma anzi vantando l’apertura di ulteriori siti il cui lavoro sarà strutturalmente precario, ricattabile.
A parte inseguire, magari persino generosamente, le emergenze.

Io avrei dovuto far parte di una Commissione incaricata di redigere il Programma della Coalizione di Centro Sinistra. Ho ricevuto, una volta, un sms alle ore 14, che convocava una riunione per le ore 16. A quell’ora io lavoro, e chiesi che la riunione fosse rinviata.
Da allora, non ho mai più ricevuto alcuna convocazione.
Suppongo che il Programma della Coalizione di Centro Sinistra, qualcuno lo abbia scritto.
Ma ho qualche dubbio, che questo sia accaduto davvero, visto che il Segretario del Partito Democratico, ad ogni sua iniziativa elettorale, spiegava che avrebbe illustrato le sue proprie idee sulla città.
Le sue proprie idee, non quelle della Coalizione o della Lista del Partito di cui faceva parte.
D’altronde, lui è stato eletto, e io no. E in questo, ci sarà anche un significato.

Il Centro Sinistra paga la sua estrema difficoltà ad ascoltare, umilmente, la difficoltà concreta di chi dice di voler rappresentare. E paga la sua terribile difficoltà ad offrire una visione della città capace di mobilitare le coscienze. E paga le pratiche contraddittorie con le sue dichiarazioni di principio, a partire, ad esempio dalle dichiarazioni relative al consumo di suolo, e alla cura dell’ambiente. E paga il balbettio di otto anni sulla sicurezza nelle Scuole o all’Università, e la paralizzante difficoltà a comprendere che una città brutta, non aiuta il Turismo.

L’Aquila ha enormi problemi; e tantissimi di questi problemi, non sono il frutto di politiche del Centro Sinistra, o dell’ultima amministrazione comunale. In qualche caso, non sono nemmeno conseguenza del terremoto. Sono anzi il frutto di scellerati governi di Destra, e delle decine di anni di amministrazione democristiana, che poteva distribuire ricchezze e privilegi, e devastazioni culturali, con la forza di chi non doveva curarsi di alcun debito pubblico.
Ma questa somma di problemi, si è scaricata tutta, e tutta insieme su una classe dirigente, che, a più riprese, non ha mantenuto un suo profilo di autonomia rispetto ai Governi nazionali, e ha compiuto scelte, o assunto impegni che non è stata capace di mantenere.
A partire dalla ricostruzione del cosiddetto Asse Centrale. Una scelta suggestiva, ma sbagliata.

Credo che L’Aquila, e il Paese, abbiano davanti a sé un futuro molto difficile.
Perché questo Centro Sinistra, non ha speranza, contro le tranquille rassicurazioni di una Destra che, con successo, e non da sola, negli ultimi venticinque anni, ha devastato ogni corpo intermedio della società. Ha reso le persone più sole e più deboli, senza tutele di fronte ad un mercato globale indifferente e feroce. Ha ridotto l’orizzonte delle cose al soddisfacimento di piccoli interessi immediati e frammentati, privi di qualunque coerenza organica. Ha costruito città, recintate, disgregate, senza canali di comunicazione che non fossero legati al consumo, ostili e brutte. Ha spappolato la funzione formativa e di libertà delle scuole e dell’Università. Ha reso il lavoro insicuro e precario, sottomesso ad ogni ricatto.

Da molto tempo, il Centro Sinistra, e anche le formazioni sociali che si richiamino a valori legati alla Costituzione della Repubblica Italiana, avrebbero dovuto compiere un’opera di ripensamento teorico, e pratiche trasparenti di costruzione dei gruppi dirigenti. Da molto tempo, sarebbe dovuto accadere che avrebbero potuto formarsi due aggregazioni politiche. Raccogliendo le esperienze concrete che si costruiscono ogni giorno nei territori.
Una d’ispirazione più moderata, ed una d’ispirazione di Sinistra. Liberate da gruppi dirigenti che discutono solo del proprio destino individuale. Generose, nell’accogliere e nel discutere, anche dialetticamente, tra loro e al loro interno. Oltre i confini di pensiero del Secolo Breve. Bensì pienamente a confronto con le laceranti contraddizioni della modernità.

Negli ultimi dieci-quindici anni, se escludo le persone che dovevano essere alla cerimonia del 25 aprile in Piazzetta Nove Martiri, per doveri istituzionali e di rappresentanza, io, di cittadini presenti, ne ho contati sempre al massimo dieci, quindici , forse venti qualche rara volta.
Il 25 aprile del 2018, io, se dovessi essere ancora vivo, a quella cerimonia, non metterò piede.

Perché ho deciso che è importante la reciprocità.
Per me è importante quel che viene detto, o fatto, e, certe volte, è persino più importante, quel che non viene detto e quel che non viene fatto.
E’ solo una misura di difesa personale. Della mia ingenuità. Ma è una misura da cui non intendo transigere più.
Per quel che vale, naturalmente; io so bene, che la mia opinione, non conta nulla.

Sono stanchino.

E, adesso, qualche storia, la racconto anche io.
La notte tra il 5 e il 6 aprile del 2016, uno dei candidati sindaco partecipanti alle primarie del Centrosinistra cittadino, era alla fiaccolata in ricordo delle vittime del sisma.
E c’era un tizio che lo fotografava in continuazione. Magari, poi, avrebbe scelto le foto giuste da pubblicare, con adeguata didascalia, sul social network.

Il problema vero, non è perché al ballottaggio, delle ultime elezioni amministrative, il Centrosinistra abbia perduto, con oltre quattromila persone che, rispetto al primo turno, non lo abbiano più votato.
Ma come sia stato possibile, invece, per il Centrosinistra, raggiungere l’importante risultato del Primo Turno, nonostante tutto.

Se si abbia voglia di discutere davvero, perché il Centrosinistra abbia subito una pesante sconfitta, non si può continuare a sfuggire al bilancio dell’azione di governo, dal 6 aprile 2009, fino al 25 giugno 2017.

Forse non vi siete accorti, di quando il candidato sindaco del Centrodestra ha cominciato a vincere le elezioni. E’ stato quando, tra il Primo e il Secondo Turno, ha messo in rete il video di una sua visita al Cimitero della nostra città. In quel video non è stato ripreso mentre passava davanti al Sacrario dei Nove Martiri Aquilani ( la zona del Cimitero ripresa dalle telecamere, è quella ): io sarei stato curioso, di vedere se si sia fermato, anche un solo attimo, a pensare, a vergognarsi un po’.
Mentre invece è stato ripreso, e bene, quando mostrava i danni del terremoto, le lapidi spezzate a terra, l’abbandono.
Dopo otto anni. Non può esserci una scusa burocratica decente, perché il Cimitero sia ancora in quelle condizioni. E’ il ricordo, e il rispetto dei nostri morti, che consente di vivere, di avere una civiltà da custodire. Ce lo ha insegnato Foscolo al Liceo.

Allora, tra gli aquilani, è cominciato a crescere un senso di rifiuto.

La ragione, una tranquilla ragione, potrebbe raccontare che nessuna classe dirigente avrebbe potuto essere preparata a quel che è accaduto il 6 aprile 2009. E che poi, si sono scaricate, su chi governava, tutte le contraddizioni dei governi regionali e nazionali; e gli effetti di una durissima crisi economica globale; e che cercare di risolvere tutte in una volta, le mille contraddizioni di una città mal governata dal secondo dopoguerra in poi, sarebbe stato impossibile per chiunque.
Sì, mal governata. Non si adontino i cultori di un inesistente magnifico passato.
Le speculazioni edilizie degli anni ’50 e 60, sono quelle che sono crollate, ed hanno ucciso. La sciatteria costruttiva degli anni ’70 e ’80, ha trasformato il nostro ospedale in un relitto inagibile, mentre c’erano le scosse e serviva il Pronto Soccorso, ed in un cantiere ancora oggi aperto.
La cultura del costruire in deroga, degli anni ’90 e primi 2000, ha reso la città un disarmonico e diffuso dormitorio, senza piazze, marciapiedi o spazi pubblici, ma con una metropolitana di superficie, monumento alla megalomania sprecona e dannosa del berlusconismo tempestoso.

Ma, il Centrosinistra che si è trovato a confrontarsi col dopo sisma, non è stato sufficientemente autonomo, dai governi. Imbarazzante, il signor Bertolaso, con una riproduzione del Guerriero di Capestrano, tra le mani, premiato non si capisce bene per cosa. Ammesso che abbia fatto qualcosa di decente, ha compiuto il suo dovere. Semplicemente.
Sono stati premiati, per aver compiuto il loro dovere, i medici e gli infermieri aquilani, che la notte del 6 aprile 2009 hanno soccorso le persone ferite dal sisma nel piazzale dell’Ospedale ? O sono state premiate le migliaia di dipendenti pubblici aquilani che, per mesi, hanno fatto centinaia di chilometri al giorno per tenere in piedi le macchine amministrative cittadine, lavorando in luoghi disagiati, e di fortuna, certe volte senza nemmeno un vero ufficio ?

E non è stato, il Centrosinistra capace di amministrare l’ordinarietà.
La città è sporca. Ha mezzi pubblici fatiscenti. La macchina amministrativa del Comune arranca.

Non ci si può ricordare otto anni dopo che esiste un problema nelle Scuole ( in questi anni, la Provincia, è stata governata dal Centrosinistra, con una parentesi di Centrodestra ).
Non è stato possibile assistere serenamente al disastro rappresentato dal Progetto C.A.S.E. In termini urbanistici, sociali, economici, di ipoteca sul futuro della Città. Con tutta la difficoltà, anche strumentale e strumentalizzata, a far quadrare i conti delle bollette, dei canoni d’affitto, delle assegnazioni.
Il Piano Regolatore, non è stato realizzato, e la città è piena di manufatti provvisori, in larga parte abusivi, sui quali il Centrodestra ha costruito parte delle sue fortune elettorali.
Un alto papavero di Confindustria, oggi, si lamenta che i fondi per la Ricostruzione siano in ritardo; ma a quell’alto papavero, i dipendenti del suo teatro privato, tenuti in Cassa Integrazione in deroga per anni, oltre ogni limite di decenza, sono stati poi assunti dentro il Teatro Stabile d’Abruzzo. A significare una regola aurea, che il Centrosinistra non ha saputo cambiare: che i Santi giusti, portano sempre in Paradiso.

Potrei continuare, con gli spazi pubblici senza gestione, ma con altri Auditorium in costruzione; con Collemaggio abbandonata a sé stessa, e gli affitti milionari pagati ai costruttori aquilani, non solo quando c’era l’altro manager della ASL, ma anche con quello di adesso. Con le scelte, opinabili, come minimo, sull’Aeroporto. Con lo psicodramma del Gran Sasso, che finalmente ora potrà essere lottizzato e cementificato.

E allora, in città, è cresciuta, da molto tempo; non dal breve volgere di una campagna elettorale, una voglia irrefrenabile di far piazza pulita. Un astio sconfinato, e in larga parte fomentato e inqualificabile, nei confronti di chi si è assunto l’onere di tentare di dare un futuro alla città, in una condizione assolutamente inedita e drammatica. In un tratto di tempo, in cui la crisi dello Stato italiano, prima che dei governi, o delle leggi elettorali, è sotto gli occhi impauriti di chi abbia a cuore il bene comune, e ha penalizzato pesantemente tutto il processo di Ricostruzione.

Sembra Caporetto, di cui ricorrono i cento anni.
Quando i soldati in fuga, prima di tutto, si scrollarono di dosso le armi, e si sentirono liberi. Dagli ordini, dall’incompetenza dei loro generali. Dalle decimazioni assurde e crudeli.

Se si voglia seriamente discutere le ragioni della sconfitta, si tracci un bilancio serio di una azione di governo. Di quanto ha salvato L’Aquila, e di quanto non l’ha fatta crescere.
Si discuta se la politica possa essere fatta senza il coraggio di cercare il consenso, e di confrontarsi costantemente con chi si dice di voler rappresentare. E nei luoghi fisici dove si vive. Se la politica possa essere fatta solo di comitati elettorali individuali, e di volontari che, ad un certo punto, capiscono d’essere solo usati.
Si discuta se sia stato giusto, senza porre una attività seria di contrasto, far svolgere a L’Aquila, una manifestazione nazionale di fascisti.
Si discuta, se la Cultura, a L’Aquila, sia sant’Agnese o la Perdonanza. O improbabili stagioni comico-televisive del Teatro Stabile.
Si abbia il coraggio di scrollarsi di dosso la rendita fondiaria parassitaria, che soffoca da decenni lo sviluppo cittadino.

E si taglino i ponti, con la Sinistra comoda.
Quella che dà lezioni. Mentre i suoi comportamenti concreti sono quelli di chi pensa che tutto quel che fa sia giusto, a prescindere, perché crede di essere dalla parte giusta. Raccomandazioni comprese.
Senza umiltà, ma solo sviluppando ottime doti da camaleonte, buone per mimetizzarsi ovunque.
E si taglino i ponti con la Sinistra furba.
Quella che è sempre d’accordo col capo; quella che pensa sempre alla prossima elezione, e a come posizionarsi. Quella che va bene anche il Ponte sulla Mausonia, se lo dicono a Pescara.
Quella che poi va a destra, perché non la si è soddisfatta abbastanza nelle sue personalissime ambizioni.

Lo riconosco.
Ho esagerato. Ma sono un po’ stanchino.

Una volta, la Sinistra, a fare il Sindaco di Roma, ci mandava Giulio Carlo Argan, un grandissimo critico d’arte, e docente. Io avevo sperato, che, dopo la fatica degli anni del post sisma, il Centrosinistra, avrebbe voluto porre a tutta Italia, la sfida di una Ricostruzione giusta, sicura, bella, per L’Aquila e l’Appennino. Candidando un nome di altissimo rilievo nazionale e magari europeo.
Ce ne sarebbero stati.

E se qualcuno ha voglia di chiedermi, ancora, perché io mi sia candidato, con questo Centrosinistra, vuol solo dire che ha letto in modo molto disattento le cose che ho scritto in questi mesi, e da anni a questa parte. E che non ha capito nulla, di quanto io avrei voluto mettermi al servizio della città. Perché lo consideravo, e lo considero necessario per il futuro, per i giovani.
Ma, naturalmente, è un bene che io non sia stato votato. Perché le mie idee sono sbagliate.
Scrivo queste righe, perché sto leggendo l’inizio delle prossime sconfitte. E mi dispiace.
Anzi no, sono solo stanchino.

Solitudini.

Nel Nucleo Industriale di Pile, al fianco di Centri Commerciali, e altre scatole di cemento, stanno costruendo, con enormi pannelli di pietrame precompresso, la nuova sede parallelepipeda di un fast food.
Ognuno dei luoghi che è lì, è delimitato da cancelli, inferriate, mura di recinzione.
Non ve ne sarebbe ragione alcuna. Se non quella di delimitare una proprietà, e separarla dalle altre.
Un avventore del prossimo velocibo, per potersi recare da un luogo all’altro, distante poche decine di metri, dovrà sempre prendere l’automobile, uscire da un parcheggio, ed entrare in un altro. Non potrà camminare a piedi, perchè non ci sono marciapiedi.
Ed è così a Scoppito, e a Bazzano, a San Gregorio.

Quasi 33 milioni di italiane e italiani, arrivano, come titolo di studio, alla scuola dell’obbligo ( quasi dieci milioni, hanno appena un titolo di scuola elementare ); in diciassette milioni e mezzo, sono diplomati, e in cinque milioni e mezzo, sono laureati.

In questi ultimi trenta anni, le periferie urbane si sono dilatate, di piccole case, o sontuose ville, o di capannoni industriali e commerciali, recintati. Si sono svuotati i paesi montani. Sull’Appennino, e anche lungo l’arco alpino.
Dalla Legge sui Contratti di Formazione e Lavoro, del 1984, il Mercato del Lavoro, è stato totalmente destrutturato. Il Collocamento Pubblico, reso inutile. Solo l’un per cento delle assunzioni, nel nostro Paese, avviene per il tramite del lavoro di un Centro per l’Impiego.
La legislazione a tutela della stabilità del lavoro, è stata sostanzialmente cancellata. La libertà di licenziamento, nel nostro Paese, è quasi totale, nelle imprese di ogni dimensione.

Ma l’occupazione non cresce.
Le povertà aumentano.
L’immigrazione sembra essere il perfetto capro espiatorio su cui scaricare ogni frustrazione per le esclusioni sempre più profonde che viviamo.
Almeno da un paio di generazioni, per la prima volta, dal Secondo Dopoguerra ad oggi, le prospettive dei giovani, sono di gran lunga peggiori di quelle dei loro padri, e addirittura, dei loro nonni.
La parola “Riforma”, dal 1980 ad oggi, non identifica più un miglioramento di condizioni, o l’acquisizione di nuovi diritti. Bensì, significa restringimento dello Stato Sociale e delle Tutele. Spesso, peggioramento e privazione di diritti, che parevano acquisiti.

Gli anni ’80, di Margareth Tatcher, e di Ronald Reagan, la loro sistematica azione di distruzione di ogni corpo intermedio della Società, hanno vinto quasi su tutti i fronti.
Le persone, sono sole.
Sole davanti al potere irraggiungibile, ed invincibile, del Libero Mercato.
Sole, di fronte ad uno Stato che ha sempre meno poteri, e sempre più vincoli da istituzioni internazionali, e dal mercato.
Sole nel loro luogo di lavoro.
Sole dentro città atomizzate, sparpagliate, dai centri storici sempre più solo vetrine commerciali o scenari, o centri direzionali di rappresentanza, aperti solo in orario d’ufficio. O dai centro storici ancora distrutti, come il nostro.
Sole quando abbiano un bisogno relativo alle grandi infrastrutture di servizio, dall’energia alla telefonia, all’acqua, e si può soltanto telefonare ad un call center, per avere, forse, una risposta, dall’Albania, ad un prezzo più basso che in Italia, da un lavoratore, chiuso, da solo, nel suo cubicolo. Con lo sguardo fisso sul nulla.

La rivoluzione delle comunicazioni, che ha unificato, musica, televisione, telecomunicazioni, informatica, sport, organizzazione del lavoro, stampa e informazione, ha reso straordinariamente libero chi ne abbia accesso ( escludendo tutti gli altri ), consentendo di scegliere con chi comunicare e quando, in tutto il pianeta. Si può vedere, praticamente, qualunque spettacolo si desideri, a tutte le ore del giorno e della notte. Si possono leggere notizie di ogni tipo ovunque, soprattutto notizie false o manipolate. Si possono formare cerchie di amici sempre più ampie e gratificanti.
Il tutto, da soli, nella propria stanza davanti al computer, o in ogni luogo immaginabile, con il proprio smartphone in mano. Viviamo attaccati ad una protesi elettronica che, come lo specchio magico della favola di Biancaneve, risponde ad ogni nostra domanda.
Ma senza mai farci afferrare nulla, isolandoci da ogni altro.

Il nostro specchio magico, in realtà, è lo specchio delle brame di Harry Potter. Ci tiene avvinghiati ad esso, ci fa vedere continuamente quel che desideriamo essere, e che non saremo mai. E non c’è nessun Albus Silente, che ci dica che non serve a nulla, rifugiarsi nei sogni, dimenticandoci di vivere.
Lo specchio ci consuma.
E solo nei luoghi del consumo, noi possiamo incontrare altre persone.
Per fare acquisti anonimi, apparentemente, dentro un supermercato, senza più il commesso al banco, o il proprietario del negozio, che discuta con noi, ci indichi le merci migliori, ci faccia uno sconto. Sono scomparsi, i piccoli esercizi commerciali.
Noi giriamo, da soli, dentro labirinti di scansie colme di merci, che scegliamo per averle viste in televisione, spesso, e il cui codice a barre, ci identifica al Grande Distributore di Merci, nei cui confronti, siamo nudi, con la nostra tessera del supermarket, cui vengono associati gli acquisti, e facendoci diventare un “profilo cliente”, un target, un bersaglio. Un lavoratore non pagato dell’impresa, cui indica, quando le merci passano al lettore ottico, quali sono i prodotti di cui rifornire il magazzino; attività cui provvederanno i Lavoratori sottopagati delle cooperative di facchinaggio, che lavorano solo di notte, come gli Elfi Domestici di Harry Potter, invisibili, attingendo alle merci scaricate dal camionista, che, giorno e notte, percorre le autostrade, europee ed italiane, divenendo egli stesso il magazzino di beni prodotti in tempo reale, dentro fabbriche sempre più segmentate, delocalizzate, spersonalizzate.
Possiamo bere, in compagnia, ogni sera, in luoghi che ci ammorbano le orecchie con qualunque tipo di musica che diventa rumore, tuono di fondo, pazzia convulsa, che cancella ogni possibilità di conversazione, o di tempo da trascorrere. Si può solo consumare, e rapidamente, prima d’essere sostituiti da altri assetati d’oblio.

Noi cerchiamo risposte ai nostri bisogni materiali, in totale solitudine, o quasi, e abbiamo a disposizione infiniti desideri immateriali, che cercano di trasformarsi in bisogni monetizzabili. Come fossimo tutti trasformati nella vittima del supplizio mitologico; Tantalo, circondato da acqua e cibo, che non può afferrare, che non può bere.

Qual è la dimensione politica di questa condizione esistenziale, determinata con assoluta e scientifica pervicacia, e ferocia, dalle elites finanziarie, militari e politiche di pochi Stati ?

Mi viene da vomitare, quando sento che non esista distinzione, tra Destra e Sinistra.

La Sinistra, è stata sconfitta, dalla Destra.
La Destra ha masticato quasi ogni Sinistra possibile, e l’ha risputata, defecandola, deformandola. Privandola di vita propria, facendone, semplicemente, una propria immagine recalcitrante.

La diseguaglianza più drammatica, nel nostro Paese, a L’Aquila, nel mondo, è innanzitutto, culturale.
Persistono ed esistono migliaia di diversi saperi. Dal contadino, al muratore, al meccanico, al cuoco. Tutti pieni di dignità.
Ma la cultura, o meglio, la capacità di possedere individualmente una cultura critica, è stata massacrata, scientemente, negli anni. A partire da Scuole e Università, spesso, con la complicità di Docenti, precarizzati spesso e trasformati in macchine di potere accademico nelle Università, o in impiegati dei programmi ministeriali, nelle Scuole di ogni ordine e grado.
L’unica cultura ammissibile è stata ed è, quella del consumo. Che, quando si accoppia con le infinite possibilità della comunicazione globale, diviene anche trionfo dell’irrazionale, in cui ognuno, sentendosi investito della libertà di dire, dice su tutto. E devasta il principio di non-contraddizione, in una drammatica equivalenza tra gli sproloqui di un qualunque santone sommerso di consenso, e le risultanze della Ricerca Scientifica, o le, semplici evidenze del reale.
Il reale che si trasforma nella sua irrazionale rappresentazione, cui seguono conseguenze, invece reali.
La cultura del consumo che ha distrutto linguaggi e dialetti e identità territoriali. Che ha omologato i luoghi. Che rende una via di Bruxelles, esattamente uguale ad una via di Napoli, con le stesse catene di negozi, le stesse catene di fast food e fast bar.
Che impedisce persino di pensare certi concetti. In una moderna riedizione del “1984” di Orwell, con i suoi addetti alla Neo-lingua, che fanno diventare la parola “Libertà”, una parola brandita dalle Destre, per opprimere, che trasformano la “Solidarietà”, in “Buonismo”. Che usano la “Privacy”, per isolare, controllare, ridurre a merce l’individualità della persona, venduta da grandi multinazionali, ad altre multinazionali. Perché se ne possa studiare la propensione al consumo, ed i gusti, nel consumo, in una bulimia autonutrentesi.
La politica, è divenuta consumo.

Vince, in politica, chi abbia maggiori risorse per vendersi. Chi possa raggiungere un pubblico il più vasto possibile. Chi sia capace di calibrare il messaggio, per ognuno dei segmenti di mercato che restano nell’agone politico, in una Democrazia dell’Indifferenza, dove la metà dei cittadini non sente più alcun bisogno di esprimere una propria preferenza politica.
Perché è inutile, perché non cambia nulla, perché sono tutti uguali, perché è tutto un magna magna. Perché, di concreto, al singolo elettore che vuole soddisfare i suoi bisogni più primitivi, non viene nulla.
Il capolavoro di questa concezione, fu quello della prima vittoria di Berlusconi alle elezioni, alleando, nella stessa compagine governativa, i nazionalisti eredi della destra fascista, con gli antiitaliani della Lega Nord. Berlusconi fu capace di vendere lo stesso prodotto a pubblici tra loro diversi e confliggenti, azzerando il principio di non-contraddizione e trasformando in puro marketing il messaggio politico.
La Sinistra ancora non capisce, che perse quelle elezioni, il giorno in cui in Italia andò in onda la prima puntata di “Dallas”, e non quando Berlusconi “scese in campo”.

D’altra parte oggi, Bersani, l’uomo che è uscito dal Partito Democratico, si stupisce che i giovani non diano vita ad un nuovo ’68. Lui, l’uomo che, quando era al Governo, come Ministro, aveva in gran cura un’unica politica, quella delle “liberalizzazioni” ( di cui l’Italia avrebbe un enorme bisogno in realtà ), con le sue “lenzuolate”, il cui unico scopo però, era rendere più libero il mercato, non più tutelati i cittadini nel mercato. E che nulla fece, quando, progressivamente in Italia, dai primi anni ’90 in poi, si è costruito un sistema, che, semplicemente, nega il diritto alla Pensione a tutti i venti-quarantenni attuali, avendolo pesantemente ridotto agli attuali cinquanta-sessantenni.
Confermando che la capacità di quella che si autodefinisce Sinistra, di guardare la realtà, è ridotta a pura boutade propagandistica.
Come a L’Aquila, d’altra parte.

Nella politica divenuta consumo, il voto è una merce.
Negli scorsi decenni, il sistema delle preferenze numeriche, in Italia, consentiva di controllare, capillarmente, il voto, ai potentati politici, e a quelli criminali, contribuendo a diffondere una cultura dello scambio. Una idea della politica come mediazione tra interessi strettamente individuali, anche quando delinquenziali. Quando la persona è sola, nella cabina elettorale, l’unico Dio che la guarda è la possibilità che lo scambio che ha effettuato, o immaginato di fare, le porti in tasca i benefici cui pretende d’aver diritto.

E lungo questa strada, la solitudine delle persone, cerca conforto.
Nel più potente. In chi strilla di più. In chi dia garanzie di rispondere a bisogni immediati, in un orizzonte temporale drammaticamente ristretto.
I profitti delle imprese quotate in Borsa, si controllano trimestralmente, e non s’investe più, pensando ai prossimi cinque, o dieci anni, ma si svolgono continue manovre riorganizzative e di taglio dei costi, che, sole, produrrebbero maggiori profitti il giorno dopo.
Allo stesso modo, la politica, deve rispondere esclusivamente dell’immediato.
Con una Legge di Bilancio che, ogni anno, cerca nuovi bonus da distribuire, come gli sconti di un supermercato, senza affrontare nessun problema strutturale. La politica ridotta a caritatevole elargitore di piccole prebende, soprattutto legate alla riproduzione, allo stesso modo, indifferentemente, per una donna ricchissima, o per una poverissima: gli stessi soldi, per premiare la fattrice.
Galleggiando.

Le solitudini, immerse nella crisi, nel silenzio di città rumorose, diventano paura. E la paura, diventa mercato.
Si vendono telecamere per controllare, sistemi d’allarme per proteggere. Si pagano polizie private per scortare, per mostrarsi armati davanti a banche o discoteche, per incutere timore.
Non ai malintenzionati. A tutti.

Al mercato della paura possiamo vendere qualsiasi cosa.
Possiamo vendere i germi esotici. I terroristi in trasferta. I nomadi rapitori di bambini. Gli ebrei circoncisi. L’acqua guasta. Le streghe. La riduzione degli orari di mescita degli alcoolici.
Ma possiamo vendere anche le casette di legno per proteggerci dal terremoto.

Fine Prima Parte.

14 luglio 2017

Solitudini. Parte due.

Certe solitudini, diventano dolorose, quando ci si lasci sommergere dalle ombre. Quando la bellezza del vivere finisce sullo sfondo, ed in primo piano emergono gli errori, e gli orrori, del luogo che si abita.
E molto nasce dall’idea che, dopo il sisma, la cosa più importante da fare, fosse ricostruire la propria proprietà individuale, come se la somma delle case, le une separate dalle altre, fosse una città; come se ciascuna famiglia, chiusa la porta della propria casa, acceso il televisore, fosse una Comunità.

Le casette di legno, sono state autorizzate a L’Aquila, con una Delibera del Consiglio Comunale, dalla Giunta di Centrosinistra.
E ce ne sono alcune, che rispettano i dettami di quella Delibera. Ma la gran maggioranza di quelle costruite a L’Aquila sono abusive. C’è chi se l’è costruita nel giardino della propria casa, assolutamente non colpita dal sisma. Come un moderno rifugio antiatomico. Per sopravvivere alla paura del mostro terremoto.

Come se una persona, vivesse, da sola, e soltanto nella propria casa di legno e non dovesse mai andare in un ufficio pubblico, in un negozio, in casa d’amici, in una scuola.
La casa di legno protegge, e rende invulnerabili alla paura.
Ma, per molti, significa aver avuto opere di urbanizzazione gratuite nel proprio terreno agricolo, e sperare che, presto o tardi, in una qualche forma, arrivi una concessione edilizia, che trasformerà la casa di legno, in qualcos’altro.
Nulla, in Italia, viene davvero rimosso o abbattuto.
E trova sempre un nuovo paladino dell’abusivismo di necessità. Eletto a pieni voti, col Centrodestra, in Consiglio Comunale a L’Aquila.

Dino Risi, se fosse vivo, potrebbe iniziare da qui, per un nuovo film sugli italiani. I nuovissimi Mostri.

La sequenza iniziale del film potrebbe iniziare all’albergo di Campo Imperatore.
Nelle cui stanze, ci sono le targhe che ricordano il breve soggiorno termale del signor Mussolini Benito nel 1943.
Ma non ci sono targhe, a ricordare gli unici due italiani, forse tre, che compirono il loro dovere, quel giorno, lassù.
Tra loro, sicuramente, vi furono la Guardia Forestale Pasqualino Vitocco, e il Carabiniere Giovanni Natale. Uccisi dai soldati tedeschi, saliti fino al Gran Sasso, per riportare ad Adolf Hitler il suo giocattolo preferito.
Ma nessuno, li ricorda.
In compenso, su all’albergo di Campo Imperatore, si possono tenere spettacoli danzanti, pubblicizzati in pompa magna dalla stampa locale, per l’augusta regia di Pier Francesco Pingitore, che rievocano la prode impresa tedesca tra le nostre montagne, al cospetto di tanti scarsamente important people aquilani e nostalgici dei treni che arrivavano in orario.

Magari hanno bevuto aperitivi e ballato sulle tombe dei nostri militari uccisi.

Oggi, il fascismo, e il fascismo aquilano, con i suoi piccoli squadristi che fanno il saluto romano nelle stanze d’albergo, o davanti alle statue del D’Antino, sono in gran spolvero. Soprattutto come umore, come impazienza, come semplificazione brutale. E anche come servilismo intellettuale camaleontico al potere.
Questa Destra che non ha mai fatto i conti con i propri crimini passati, cui non è mai stata chiesta ragione delle persone uccise e delle libertà calpestate, si dà di gomito ridacchiando, dei propri cimeli ereditati dai nonni, o comprati negli autogrill. Come se fosse una marachella innocente. Ma è pronta invece ad ospitare, a L’Aquila, alcuni dei terroristi più sanguinari del nostro Paese, purchè abbiano fatto finta di scrivere qualche libercolo di roboanti memorie. E a nessuno, fa schifo, di stringere la mano a questa gente qui.
I voti, non puzzano. Ancor meno dei soldi.
E la Destra che dovrebbe essere rigorosa, rispettosa delle Leggi dello Stato, non ha alcun problema, invece, ad imbarcare reduci col fez, e moderni untori del razzismo facile, virato in positivo. Prima gli aquilani. Poi, quelli di Collebrincioni.
Il fascismo, in Italia, è stata una reazione al pericolo bolscevico. Se non ci fossero stati i comunisti, sostenuti inizialmente dagli Ebrei, non ci sarebbe stato il fascismo.
Questa è la “tesi” storiografica dei revisionisti nostrani. Ereditata da Nolte.
Miseramente ereditata.

E anche Ettore Scola, se fosse vivo, potrebbe trovare interpreti per un nuovo film capace di vincere ancora al festival di Cannes, come accadde per il suo “Brutti, sporchi e cattivi”.

Perché potrebbe incontrare certe signore dalle unghie artistiche, con cellulari all’ultimo grido, incazzate nere, con lo Stato italiano, che non gli dà più nessun sussidio, nessun assegno d’invalidità, nessuna pensione di reversibilità del padre ormai defunto. Mentre invece quei maiali dei politici prendono stipendi e rimborsi da favola, senza fare un cazzo, come è noto, da mane a sera.
O potrebbe imbattersi in qualche aquilano sornione, che appena trova un cantuccio al riparo, lungo una strada di montagna, con un fosso al fianco, ci scarica dentro frigoriferi e televisori, e preferibilmente, vecchie coperture d’amianto di tetti, che, col terremoto, si sono incrinati, e che finalmente lo Stato paga per riparare.
O potrebbe scritturare quegli aquilani col suv, che andavano a far rifornimento di acqua e pasta, gratis, al presidio della Croce Rossa, ancora sei mesi dopo il Terremoto.
O potrebbe farsi spiegare la teoria della conservazione della massa dagli aquilani novelli seguaci di Lavoisier, secondo i quali un rudere, non si distrugge, col terremoto, ma certamente si trasforma in un moderno palazzotto di più piani, probabilmente totalmente indennizzato dallo Stato.
O potrebbe prender lezioni di come funziona il mondo, da quell’imprenditore di call center, che ha aperto un nuovo sito, dentro l’ex Italtel, continuando a non pagare la contribuzione delle persone che lavorano, senza che nessuno lo richiami al rispetto delle regole.

Ecco.

Il rispetto delle regole, oggi, definisce grandi solitudini.
Un commerciante che paghi tasse sul proprio reddito, in modo almeno pari al proprio commesso, è solo.
Un avvocato che rilasci regolare fattura delle proprie attività, è solo, ed è anche un cattivo esempio, nella categoria.
Un medico che eserciti la propria attività privatamente, e che non chieda, al momento del rilascio della ricevuta fiscale, se si voglia pagare regolarmente, con la maggiorazione dell’IVA, o se si voglia pagare in nero, senza IVA, è solo.
Il lavoratore che sta percependo l’indennità di disoccupazione, e cui venga chiesto di fare un piccolo lavoretto di edilizia dal paesano, e decida di denunciare all’INPS il compenso che ha percepito, è solo.
L’insegnante che decida di regolarizzare la sua attività di ripetizioni private, è solo.
Drammaticamente soli.

In città, la fame di lavoro, si perverte in brama di raccomandazioni.
Conoscevo una ragazza, tanti anni fa, che mi raccontava come, all’Università di L’Aquila, fosse necessario partecipare a diversi concorsi pubblici, pur se già se ne conosceva il vincitore, per salire in una sorta di graduatoria delle sfighe che, ad un certo punto, avrebbe partorito il concorso giusto, quello cui bastava aggiungere il nome ed il cognome della persona, e che era destinato solo a quella, consentendo però, ad altri, di arrivare secondi, o terzi, e dar via ad un nuovo ciclo.
E’ una cultura antica, questa, a L’Aquila, ed in Italia.
Una cultura che consente a tutti di sparare a zero, pubblicamente, sull’aiutino, permettendo, nel contempo, di praticare privatamente la ricerca del Santo in Paradiso, e provvedendo ad omaggiarlo.
Una volta,
a l’Aquila, per entrare in Italtel, ci volevano due prosciutti.
Le tariffe attuali, non le conosco, ma questa cultura, non ha un colore politico, anzi, ce li ha tutti, i colori politici. Proprio tutti. Sono solo alcune persone, che se ne tengono lontane.
Sole e fesse.

Occorre guardar bene, e fino in fondo, quello che abbiamo intorno, senza indulgenze, neanche per sé stessi. Perché bisogna comprendere i propri errori, le proprie sottovalutazioni, le proprie, dolorosissime, superficialità. Ma bisogna anche sapere che non tutto, e non tutti hanno purezze e verginità.
Anzi.
Sono tanti, che in tanti modi, traggono profitto dalla situazione presente, ne ricavano un potere, uno strapuntino, un momento di celebrità, o faraonici guadagni, mungendo senza nessun pudore la mammella dello Stato, in modi leciti, in modi furbi, e in modi illeciti.
Ed intendono continuare a farlo. Alla faccia di tutte, e di tutti.
Ma non bisogna incorrere mai nella tentazione di autoassolversi, scaricando sugli altri le proprie sconfitte. Bisognerebbe sforzarsi d’essere rigorosi.
Cercare le strade che colmino le proprie mancanze, ma anche sapere che ci sono avversari, talvolta irriducibili. E che li si può vincere.

Ma c’è modo, e modo, eventualmente, di vincere.
Perché vincere, usando gli stessi mezzi che, ad altri, si rimprovera d’usare, non è vincere. Ma solo sostituire, e la sostituzione avrà risultati analoghi.
Bisognerebbe avere l’ambizione di vincere, ma usando mezzi diversi.

E non perché si debba rispondere ad una impolitica morale, o perché si debbano teorizzare presunte superiorità morali. No, molto più semplicemente, perché non ha lo stesso gusto vincere con un calcio di rigore che sai rubato, invece che dominando la partita con un gioco meraviglioso che ti porti sul tre a zero al novantesimo.
In politica, i mezzi, dovrebbero essere commisurati ai fini. Altrimenti, i fini ne saranno pervertiti. E la pratica politica concreta, non farà differenza, tra Destra o Sinistra.
Ma neanche tra giusto ed ingiusto.

Allora qui, proprio qui, soffro la solitudine più acuta.

Fine seconda parte.

Solitudini. Terza parte finale.

Si compie, la storia, ogni giorno.

Nel 1985, venne eletto Segretario Generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, Michail Gorbaciov, al posto della mummia appena sepolta di Cernenko. Davvero in pochi, avranno pensato che egli sarebbe stato l’uomo della dissoluzione dell’Unione Sovietica.
Siamo abituati a pensare che certi equilibri, siano eterni.
E invece, nessun equilibrio, lo è.

Mentre, sul piano personale, siamo impegnati a lavorare, a giocare, a leggere o a fare l’amore, in realtà, invecchiamo. Corriamo il tempo, sino alla nostra fine.
Così la Storia, così la vita pubblica. Muta incessantemente, anche mentre appare essere ferma, immobile, stabilizzata. Certo, ci sono grandi correnti storiche che appaiono percorrere tutta l’esistenza dell’umanità: la dicotomia dominanti/dominati, ad esempio, o la tendenza sempre presente a risolvere i conflitti con la forza, ma ogni cosa è in realtà sempre in movimento, e, talora, è capace di sovvertire totalmente le nostre previsioni.

Nessuno, nel 1985, avrebbe saputo prevedere che, di lì a breve, il Muro di Berlino sarebbe caduto, e che tra le linee di frattura più importanti del Pianeta, sarebbe tornata a tremare e a far tremare, quella religiosa.

Una delle grandi correnti storiche, che attraversano la condizione umana, è certamente quella che attiene al potere, alla sua conservazione, alla sua trasmissione, alla sua conquista.
L’umanità ha sperimentato regni ed imperi. Regimi in cui chi esercitava il potere era considerato espressione della divinità. Espressioni del potere terreno della Religione.
Si potrebbe dire che, nella storia umana, la forma di governo più frequente, e più longeva, moderne dittature comprese, è quella che concentra nelle mani di uno solo il potere.
Le Democrazie, con le loro continue tensioni e torsioni, anche autoritarie, con la loro “mediocrità”, sono l’eccezione, non la regola.
In Italia, poi, è una eccezione acquisita storicamente, solo negli ultimi settanta anni.

Il problema del potere, riguarda non solo gli Stati, ma anche le imprese, le associazioni umane. In una certa misura, ogni aggregazione umana.

Io, ho incontrato spesso, nella mia vita, le espressioni del potere, nella sfera pubblica, nella Società, potrei dire.

Una, in particolare, ha caratterizzato quasi tutta la mia vita. Quella che riguarda l’espressione, l’esercizio, la trasmissione del potere, la contesa per il potere, in associazioni umane che svolgono una funzione civile e politica, autocollocandosi “ a Sinistra “. Ho, volontariamente, scelto di esserne parte, spesso; talvolta ne ho diretto, al massimo livello, alcune sue articolazioni. Ho collaborato volontariamente e gratuitamente con molte sue incarnazioni, nel tempo. Me ne sono sentito parte, sin dai miei tredici anni, più o meno.

Si sta, volontariamente, in questo tipo di associazioni, se si ritenga che esse siano dalla parte del giusto. Se le si ritrovi consonanti con la propria idea della vita e del mondo. Se in esse si incontrino persone speciali, capaci di insegnare e di stimolare. Se si pensi di far parte di qualcosa che è chiamato ad agire per modificare lo stato di cose presente, per migliorarlo.
Potrei dire, che la mia esperienza personale, che è solo mia, quindi, non pretendo abbia rilievo “universale”, è stata una esperienza in cui si sono continuamente mescolate le sollecitazioni di carattere politico, con le sollecitazioni umane. Spesso, coincidendo, facendomi apparire certe comunità politiche, anche comunità umane, animate da analoghi valori ed obiettivi. Le mie esperienze umane di questo tipo, sono state molto intense; in alcuni momenti della mia vita, quasi totalizzanti.

Da lungo tempo, non è più così.

Non è un giudizio di valore, il mio, o una nostalgia. Ma, semplicemente, una constatazione. Mi sento, in ogni caso, di escludere che un certo trasporto personale si sia spento in funzione dell’avanzare dell’età. Certe volte, mi piacerebbe fosse così, ma non lo è.
Periodicamente mi capita di ritrovare un entusiasmo, che però, ed è questo il punto critico, presto si spegne. Non ha molto senso, in questo mio tentativo di spiegare una condizione politica, prima descritta in senso generale, poi analizzata guardando alla realtà e al campo avverso, ed ora analizzata nel mio campo, ed identificata sotto il segno della solitudine, che non è solo individuale, ma collettiva, a mio giudizio, analizzare quelle che potrebbero essere mie deficienze personali, o superficialità, o errori, o sottovalutazioni. C’è tutto. Ma non è interessante qui, scriverne.

Di più mi interessa provare a comprendere perché accade, che la Sinistra, nel suo complesso, sia divenuta per me un altrove irraggiungibile.

E’ di pochi giorni fa, l’ennesimo anniversario del disastro di Genova del 2001. I militari responsabili di quel disastro, notizia di oggi, tornano in servizio. Come se nulla fosse accaduto.
Ma, i disordini di Genova, vennero preceduti da quelli di Napoli, e al governo, c’era il Centrosinistra.
E prima che iniziassero le giornate del G8, in conversazioni private, io avevo espresso il timore che a Genova, ci potesse scappare il morto.
Non ci voleva un grande acume, o la sfera di cristallo.
Tutti, cercavano lo scontro.
Lo cercava il Movimento, magari con accenti diversi, ma la consapevolezza dello scontro era comune e diffusa tra le sue varie anime; lo cercava il Governo, che doveva dare un messaggio di repressione, all’inizio di una nuova esperienza della Destra del nostro Paese, più coesa e forte, che non nel 1994.
Forse lo scontro non lo cercavano migliaia e migliaia di ragazze, e di ragazzi, accorsi a Genova, per manifestare una alterità, ad un mondo che iniziava il nuovo millennio sotto il segno di una nuova gerarchia mondiale, sempre più diseguale e distruttiva.
Di certo, lo scontro, lo cercava quella parte di establishment mondiale che, ovunque si tenessero le sue riunioni, era stanco di confrontarsi con un fastidioso Movimento globale, che provava a ripensare il mondo, dopo la caduta del Muro di Berlino.

E il morto, ci fu. E ci fu la repressione, durissima.

E il Movimento, che in Italia, per ragioni interne, in parte, e internazionali, poi successivamente, restò fortissimo, sul piano della mobilitazione nelle piazze, nei fatti, fu distrutto nella sua capacità di elaborazione, dalla incapacità drammatica di conquista del consenso di settori larghi della Società, e dalla assenza di una interlocuzione reale con le forze politiche, che non fosse strumentale, o aprioristicamente contrapposta.
Anzi, rafforzata, da quella contrapposizione, che qualcuno voleva far riecheggiare tra “Sinistra parlamentare”, e “Sinistra extraparlamentare”, si consumò un ulteriore duplice strappo.
Il Sindacato non ebbe più una vera interlocuzione politica, da una parte, e le sue battaglie, a difesa dell’art. 18 dello Statuto dei Diritti dei Lavoratori, e contro la totale destrutturazione del Mercato del Lavoro, se ottennero parziali successi, non mutarono minimamente il segno della egemonia politica.
E, dall’altra, il tentativo, di tutte le forze politiche, nessuna esclusa ( salvo quel che restava che si autodefiniva “Comunista” ), di produrre una torsione violenta della rappresentanza, adottando Leggi Elettorali, via via più restrittive della possibilità di rappresentare correttamente l’articolazione della Società, e che tendevano invece a semplificare la presenza nel Parlamento, anche grazie a pesanti premi di maggioranza che dovevano avere la funzione di stabilizzare il quadro politico, privilegiando il Centro dello schieramento.

In quegli anni, è stata ferocemente avversata la possibilità che una nuova elaborazione facesse mutare radicalmente il segno della Sinistra nel nostro Paese.
La Sinistra, doveva restare ancorata al “Comunismo”, per alcuni ( un Comunismo senza reale riferimento storico, in realtà, né con le precedenti esperienze italiane, né con altre esperienze internazionali: più un luogo dell’anima, direi ), e scolorare nel Centro, per tanti altri.
Ogni tentativo di dar vita ad una esperienza autenticamente laica, radicale, internazionalista ed internazionale, capace di confrontarsi con vecchie e nuove emarginazioni, con la globalizzazione economico-finanziaria, con le questioni urbane e metropolitane, con l’emergenza ambientale, legata alla pace come concreta pratica, anche delle relazioni internazionali, con le nuove divisioni internazionali del lavoro, e con le nuove forme del lavoro, fu costantemente avversata e massacrata.

In Italia, poi, il campo della Sinistra, era quasi esclusivamente riconducibile all’antiberlusconismo. In nome del quale, pratiche politiche insopportabili, e la sistematica depressione di ogni pratica partecipativa, divenivano questioni secondarie di fronte ad una presunta emergenza democratica, in parte reale, ma in larga misura utilizzata per una soffocante difesa dello status quo, gruppi dirigenti compresi, ad ogni livello.

Ed ecco allora una delle caratteristiche del concreto esercizio del potere nella Sinistra, nelle sue formazioni di massa, Partito, o Sindacato.
Un potere che premia chi meglio sopravviva e si adatti. Chi costruisca solidarietà attive, tra gruppi dirigenti. Un potere che si articola ai vari livelli, in nome della fedeltà. Perché il gruppo dirigente, è quello portatore della Verità. E la Verità si espande per cooptazione, sulla base della funzionalità ad un disegno più complessivo che deve essere gradito ai livelli più alti dell’Organizzazione.
Il ruolo nelle Istituzioni, diviene una forma di controllo della aggregazione politica. I comitati elettorali, iniziano a sostituirsi, strutturalmente, alle istanze congressuali dei partiti.
Questa forma specifica dell’esercizio del potere, in parte ereditata da antiche esperienze storiche della Sinistra, si mischia poi, incontrandosi, con le moderne tecniche di marketing politico, con i gruppi di interesse che, sempre più si pongono in rapporto diretto col potere politico, ad ogni livello, ricercando mediazioni personali, e si scontra con un affarismo sempre più pervasivo, talvolta criminale, con una indifferenza alla politica da parte dei cittadini, sempre più larga e desolante.
Il Sindacato, nel contempo, cessa progressivamente di essere un soggetto politico autonomo, si svuota il suo potere contrattuale, ad ogni livello, emerge la sua subordinazione alla politica. La rappresentanza nei luoghi di lavoro, è sempre più sola, sempre più debole, sempre più sotto attacco nella crisi economica, sempre più impossibilitata a costruire solidarietà concrete tra persone che, nello stesso luogo, sono sottoposte a contrattazioni e normative tra loro diversissime.
La gestione del potere, nel Sindacato, diviene una faccenda meramente organizzativa. Avulsa dalla politica. In larghissima parte. Sorda alle istanze dei territori.
Sono le risorse economiche, a decidere. Non le priorità politiche.

In questo quadro, devo riconoscere, io non ho le capacità politiche necessarie ad esercitare un qualsivoglia ruolo.
Io, al massimo, posso decidere se appassionarmi ad un progetto politico. E magari provare a dare ad esso il mio contributo.

Quando è, che non ci si sente soli ?

Quando s’incontri qualcuno che voglia ascoltarci. Quando s’incontri qualcuno che abbia rispetto di ciò che siamo. Quando si scelgano insieme i tempi del nostro impegno. Quando ci sia reciprocità, nei comportamenti. Quando ci sia la capacità di valorizzarsi a vicenda, ognuno per le proprie capacità, competenze, inclinazioni o interessi. Quando si condivida un sistema di valori, ed una ricerca. Perché i valori non sono statici, ma mutano, cambiano forma e articolazione, influenzano, e sono influenzati dal mondo.

Quando non ci siano furbizie, grandi o piccole. Quando si abbia il coraggio di discutere, sino in fondo le questioni. Soprattutto, quelle scomode. Quando non ci sia qualcuno, che è più uguale degli altri. Quando ci siano chiare regole che consentono la formazione del consenso e delle scelte.
Quando non ci sia, l’odiosa pratica, secondo la quale, siccome io sono nel giusto, tutto quello che faccio è giusto.

Può apparire pre-politico, quel che scrivo.
Ma non lo è. Semmai lo sia stato, oggi, non lo è più. In un tempo in cui l’individuo, è la misura di tutto, bisogna decidere di confrontarsi, e sino in fondo, con l’individualità. Non la si può esorcizzare.
Oggi, l’individualità è totalmente estroflessa nei social network. E’ sulla piazza, ventiquattro ore al giorno. Ed è sempre meno disponibile a far sconti, o ad assumere compatibilità, in nome di superiori interessi. Anzi.

Il concreto fare della politica, a Sinistra, per me, si misura da qui. Dalla costruzione della Comunità. Dalla capacità di essere una Comunità inclusiva, e non escludente.
Non c’è credibilità, in questo, per me, nonostante spesso si tratti di magnifiche persone, per i gruppi dirigenti attuali, ad ogni livello, della Sinistra.
Per una ragione semplice.
Occorre prendere atto, che la strada compiuta sino ad oggi, ci ha condotto dove siamo.
In un Paese, o in una città come L’Aquila, che sperimenta l’uscita dalla crisi, da Destra, e non da Sinistra.
E se vogliamo arrivare da qualche altra parte, dobbiamo cambiare strada, e guide del viaggio.

Sino ad oggi, semplicemente, io non mi sento rappresentato.

Ma io spero, naturalmente, che sia solo un problema mio. Che io conti talmente tanto poco, che tutto proceda per il meglio nonostante i miei dubbi, e la mia solitudine politica.

Io, ho la sensazione, però, che siamo alla vigilia di avvenimenti la cui portata non sarà facile affrontare.
Il nostro Paese, da troppo tempo si dibatte dentro una fortissima crisi della politica e delle sue forme rappresentative, incalzate da enormi cambiamenti internazionali, e da ragioni tutte nostre italiane.
Sino ad ora, ci ha salvato il formidabile baluardo eretto dalla nostra Costituzione della Repubblica Italiana. Non finiremo mai di ringraziare abbastanza l’Assemblea Costituente, il suo lavoro, il suo spirito, la sua meravigliosa visione d’insieme.

Per quanto, ancora ?

L’Italia, deve trovare un nuovo equilibrio. E non è detto, che sia sotto il segno della Democrazia.
Le persone, chiedono di essere protette. E ci sono ricette molto semplici per proteggere.
Si comprano sistemi d’allarme, ci si chiude in casa, si alzano muri e cancelli; si pagano guardie armate. Si rinuncia ad uscire, ad incontrare gli altri, si cercano complicità, non solidarietà. Si semplificano, i discorsi. Vengono allontanati i dubbiosi, ed i deboli. Tutto si misura, su quanto ci si possa proteggere, e basta.
La libertà viene sostituita dal conformismo; le coscienze tacitate. La banalità del male, inizia così.

Persino il Crocifisso in un’Aula Consiliare, serve a proteggere.

Voglio ringraziare, chi mi abbia letto sin qui, in questi tre tentativi che ho fatto, di raccontare la solitudine. A L’Aquila, per uscire dalla solitudine, qualcuno dovrebbe iniziare a dire che c’è bisogno di un confronto. Oltre gli steccati delle ultime elezioni amministrative, e di questi anni.
Mi piacerebbe tanto, una generosità così.

Terza parte. Fine

Fantascienza.

Il prossimo anno, saranno trascorsi 10 anni dall’incendio della pineta di San Giuliano.
Sarà quindi possibile, per Legge, intervenire con programmi di rimboschimento.
Uno studio del Comune di L’Aquila, e delle Università di L’Aquila, e della Tuscia, quantifica in due milioni e settecentomila euro, le risorse necessarie per intervenire.

Reperire questa quantità di risorse, tutte insieme, temo, sarà difficile. Ma assolutamente necessario.

L’Aquila, è colpita da troppi incendi, in questi giorni.
Questi incendi, potrebbero essere frutto di una strategia.

Molteplici recenti inchieste, raccontano come la criminalità organizzata, in Calabria, in Basilicata, in particolare, sia fortemente interessata agli appalti nel settore della Forestazione.
La criminalità organizzata è sempre interessata all’uso che viene fatto di risorse pubbliche.

Il Settore della Forestazione, in questo senso, è interessantissimo. Perché è un Settore ad alta intensità di manodopera. Può impiegare molte persone. E la continuità del loro lavoro, spesso, in altre Regioni d’Italia, è stato uno strumento della criminalità per favorire l’accaparramento di risorse pubbliche.
Il ricatto occupazionale come strumento per continuare a drenare denaro pubblico.
Le normative approvate poi dal Governo Berlusconi, che innalzano il livello di appalto, fino ad un milione di euro, per il quale non è obbligatorio procedere a gara pubblica europea, ma si può procedere a trattativa diretta, tra Ente appaltante ed imprese, rende la situazione aquilana estremamente interessante. Un investimento a lungo termine, lo si potrebbe definire. Un modo di mettere i piedi stabilmente in città, e dalle colline bruciate, guardare con interesse agli appalti pubblici della Ricostruzione.

La Forestazione, che davvero potrebbe essere un volano occupazionale, oltre che un indispensabile intervento per ripristinare quello che la Natura ha creato in centinaia d’anni, e la dissolutezza dell’uomo distrutto in pochi giorni, rischia d’essere il grimaldello per una presenza stabile della criminalità organizzata.
Oltre che una occasione persa, se si ascolteranno le sirene interessate di cooperative locali del Settore, mai trasparenti e responsabili, sia nei confronti del territorio, degli effetti del loro lavoro ( campagne di Forestazione miseramente fallite ), che dei Lavoratori, spesso mal pagati, evadendo ed eludendo obblighi contrattuali e di Legge.

Il disastro ambientale, cui stiamo assistendo impotenti, non deve diventare la premessa di un ulteriore incarognimento della nostra Città.

Qui davvero ci vuole una grande capacità di governo, dal Comune, alla Regione, ai nostri rappresentanti in Parlamento. Oltre che una rigorosa attività di controllo e prevenzione delle Forze dell’Ordine.
Ma la prima attività di prevenzione la farà il Comune. Formulando Bandi di Gara europei, e pubblici. Ed inserendo in essi la clausola sociale, che l’Unione Europea autorizza, riguardante la possibilità d’assunzione di manodopera locale.
La Forestazione, può diventare, nel tempo, un efficace, anche se parziale, canale di diversificazione occupazionale, per chi, progressivamente, non lavorerà più nella Ricostruzione.

Ciao.
Siete all’ascolto di Radio L’Aquila Che Non C’E’.
Non so che ora sia, e forse non ha nemmeno tanta importanza. Sono una voce. In fondo, non esisto. Sono come il filo dentro la cruna di un ago. Rattoppo il tempo vuoto tra una musica e l’altra. E rendo il buio, o il calore abbacinante, se ci riesco, meno duro da attraversare.

The wolf” Mumford & Sons
Vi capita, sono certo, di traversare certe strade aquilane di notte, che sembrano perse dentro un cielo oscuro di stelle e piene d’ombre d’albero, ai lati della strada. Che so, tra Genzano di Sassa e Santa Rufina di Roio, ad esempio. Ci sono le pecore, negli stazzi. E dove sono le pecore, ci sono anche i lupi. I lupi hanno occhi luminosi, seguono tracciati notturni. E capita, che se si trovino in una di quelle odiose trappole umane, preferiscano strapparsi una zampa, piuttosto che restare prigionieri. Certi lupi, vorrebbero imparare, ad amare. Perché incontrano tutto quello che hanno sempre desiderato.

You’re a tourist” Death Cab For Cutie
E se incontri quel che hai sempre desiderato, puoi solo lasciarlo crescere, dentro. Senza averne paura. Anche se, certe cose, ti cambiano. Può accadere, allora, che tu finisca per sentirti un turista, nella città dove sei nato. Capita a L’Aquila. Capita d’affrontare una salita nel Centro della città, e non riconoscere nulla, di quel che hai intorno. Forse allora, ti domandi, se non sia ora d’andarsene. Da te stesso. E dalla tua città. Prima di scoprire, che potresti essere il cattivo, della storia che tu stesso hai scritto. In fondo, funziona più o meno sempre così. Che quello che ami di più, finisce col bruciarti, dentro.

Sugar” Editors
Tu guardi, quel che più ami e desideri, e certe volte, ti basta un solo sguardo, per capire quanto zucchero ci sia nell’anima dell’altro, e capire che è come se la vita di un altro mondo ti venisse incontro, con le braccia aperte. E, nello stesso tempo, sentissi che tutto questo amore che ti trabocca da dentro, non sia altro che lo strumento che serve a spezzarti il cuore. Come se guardassi un tramonto, immerso nelle montagne laggiù, oltre il ciglio dell’autostrada, verso Roma, e sapessi che non lo raggiungerai mai, il rosso di quel sole. E’ bastato un saluto, ad avvolgerti di tramonto, ma ci può essere solo la notte, dopo.

Modern man” Arcade Fire
Le sensazioni che avverti, sono stranianti. Tutto appare essere chiaro, ed invece nasconde un vuoto che non afferri. Fai conto d’essere in fila alle Poste, come accadeva subito dopo il sisma. E c’era un unico luogo, dove andare. Tu eri in fila, e non sapevi, cosa stesse cercando, o aspettando, l’uomo prima di te, e l’uomo dopo di te, non sapeva nulla, della tua attesa. Sembrava solo di non essere in nessun luogo, di non andare da nessuna parte. Certe volte, vorresti romperlo, lo specchio che ti imprigiona e ti veste da uomo moderno. Che ti rende sempre così solo, sempre così desideroso di trovare il punto in cui, si spezza, la tua anima.

7” Catfish & Bottleman
Immagina di essere in quella scatola di vetro, che è in piazza del Duomo. Una postazione seduto dietro uno schermo del computer. Davanti, e dietro e intorno, i puntellamenti, e il lavoro. E tu che chiami con skype. La donna che ami, dall’altro capo del mondo. Quanto di più moderno ti consenta, la tecnologia, per avvicinare le distanze, per offrirti un surrogato di presenza, quello specchio che puoi sfiorare con un dito, per simulare una carezza, per sentirne, bruciante, la nostalgia. E tu vorresti solo reggere il suo sguardo. Perché puoi amare, qualcuno, ma certe volte, hai bisogno di restar solo. Certi pensieri, sono valanghe così cupe, che hanno bisogno di silenzio, per fermarsi.

Daphne descends” Smashing Pumpkins
Immagina quanto sia scura una stanza, dentro una casa puntellata, su, per la salita di via San Martino. Ed immagina di guardare, esattamente mentre l’ultimo raggio di sole del giorno impolvera un vetro chiuso, il ragazzo che ami, uscire, dalla stanza. Senza aprire alla luce, ma scomparendo, dentro il buio della perdita. Sentirai una mano stringere le stelle, come se non ci fosse mai più luna. E lui è sceso, ed è andato via. Non aveva soltanto bisogno di silenzio. Lo stai perdendo, forse.

Heroes” David Bowie
C’è un Muro, anche a L’Aquila. Lo hanno appena alzato, al Nucleo Industriale di Sviluppo, a Pile. Un muro di contenimento, che s’impone per tre o quattro metri, a far da argine alla terra, spostata per costruire l’ennesima scatola di cemento. Non ci vuol molto, ad essere eroi, e a mettersi là sotto, lungo la strada, mentre le macchine corrono. Non ci saranno Vopos, a sparare, lassù in alto. Ma la vergogna sì. Per una terra sverginata da capannoni inutili. Ci sarebbe lo stesso, poesia, comunque, ad andarci insieme, là sotto. E a scoprire d’essere amanti. O essere innamorati. C’è differenza poi ? Niente, potrebbe tenerli uniti, potrebbero rubare solo un po’ di tempo, un giorno. Eppure, certe volte, un istante di tempo, brilla più di un sole. Più della corona di un re, e di una regina, che nuotano liberi, come delfini.

Wrong” Depeche Mode
Io mi sento così. Sbagliato. E voi ?
Sono sempre stato, nel luogo sbagliato, e al momento sbagliato. E non sono nemmeno riuscito a raggiungere il fine, per scoprire poi, magari, che era sbagliato, anche quello. Le decisioni, sempre fuori tempo, senza ritmo, stonate. Come le risposte, che ho sempre dato. Erano sbagliate. Bastava aspettare un po’, e avrei sempre scoperto d’aver toccato tutto con le mani sbagliate, rovinandolo.
Forse è per questo, che inseguo gli orizzonti sbagliati, e quando arriva il tramonto, io guardo il sole sbagliato. Non c’è redenzione, per me, io lo so.
Spero non sia così, per voi.

Protection” Everything But The Girl & Massive Attack
Tra le tante cose sbagliate, c’è anche l’illusione di potersi difendere. D’avere una protezione, davanti alle persone. L’unico modo di essere, è mettersi davanti all’altro, e aspettare i colpi. Si può combattere, chi dica che non funziona così, e anche chi dica che invece funziona proprio così, che ci saranno sempre colpi da prendere. La verità, è che sei sempre piccolo, e sempre hai bisogno di sostegno, di protezione. Eppure, davvero, la protezione più efficace, è sapere che sarai colpito. Avere il coraggio di provare a sostenere i colpi. Siete un ragazzo, e una ragazza, costruite il vostro spicchio di fiducia, tenetevi per mano, fosse anche per un giorno solo, e scoprite che la paura, può essere sconfitta, senza protezioni, solo respirando la propria fragilità.

You’re my chocolate” Savages
Ci può essere, una fragilità segreta, quella che ti concedi, quando cerchi di inventare una parola tenera per raccontare che siete insieme. La prima sillaba del suo nome, la congiunzione, la prima sillaba del tuo nome. Una invenzione linguistica, come un bambino che impari a parlare. La prima parola di un universo creato insieme. Oppure, puoi dirle, che lei è la tua cioccolata. Una cioccolata calda, e suadente, come quella di certi pomeriggi invernali, in un negozio di cioccolate, in via Bominaco, se non ricordo male, prima del diluvio. Se non era lì, in una via accanto, ma il sapore della cioccolata quello lo ricordo. Ecco, cercate delle labbra che sappiano di cioccolato, e vi lascino sbaffi sul volto. Tanti.

Sidewalking” Jesus & Mary Chain
E può restarti, un po’ di calore nelle ossa, se sai dove stai andando. Se in testa hai un’idea, e Gesù dalla tua parte. Dev’essere per questo, che ti sembra sempre d’essere un po’ laterale; sai quello cha fai, sai dove vai, ma è come se ti vedessi dall’esterno, come se non fossi tu, a camminare. A me succede quando arrivo al Ponte del Belvedere. Dal lato di Viale Duca degli Abruzzi. Sembra il check-point deserto di un confine. Da una parte, e dall’altra, due zone ancora in guerra, senza neppure sapere perché. Come noi, spesso, che ci facciamo guerra da soli, che ci ritroviamo davanti ad una pistola, ad un nostro ultimatum. Ci diamo un’ultima occasione per essere. Poi, possiamo tranquillamente scivolare nell’ombra.

Just like heaven” Cure
La versione acustica del mito di Orfeo. Fai conto d’essere entrato fino nel fondo della Galleria della Mausonia, dentro la puzza infernale dei tubi di scappamento, e le auto che volano veloci, cercando di trafiggerti. Tu sei innamorato, dell’unica ragazza di cui potevi innamorarti, in tutta la tua vita, una ragazza tenera e smarrita, come un Paradiso, e, tu ti sei cacciato dentro quell’antro per andare a salvarla. Ma, per salvarla, non devi guardarla, non devi far trucchi, non devi aspettare che ti avvolga con le sue braccia, devi solo andare a riprenderla, dentro quel pozzo di fiamme, e salvarla, da tutto.
E se accadesse, che tu chiuda gli occhi, e sussurri il suo nome, e subito ti svegliassi, come in preda ad una acutissima paura di perderla, e ti girassi a cercarla, allora, esattamente in quel momento, la perderesti. Sommersa dentro un mare agitato. Lontana da te, per sempre.
E proprio perché lontana, sempre più profonda in te. Esattamente come un Paradiso che non potrai mai raggiungere.

What difference does it make” Smiths
Il diavolo troverà un modo, per muovere le mie mani. Ho rubato, e ho mentito, per te. Non fa nessuna differenza. E l’ho fatto, e lo rifarei. Ed è perché sono ancora pazzo di te. Ci sono mille tipi d’inferno. Come tutte le volte che a L’Aquila passi davanti ad una scuola mai ricostruita. E c’è l’inferno in cui tu conosci la verità, e sai tutto quello che ho fatto, per amarti. E quanta vergogna, posso aver sentito, nell’attraversare strade proibite, e nel violare i miei stessi occhi. Solo per te. Lo rifarei, anche se non ci sei, anche se non ci fossi mai stato, anche se non ci sarai mai. Non fa differenza. C’è un inferno dei segreti, e questo è il mio. Tutti i mari che ho attraversato per te. Mio uomo.

Reptilia” Strokes
Non rallentarmi, se sto andando troppo veloce. Certe volte, l’urgenza chiede solo di non essere fermata, ma vissuta, respirata sino alla fine, senza limiti. Potreste averlo detto. Una sola volta, o anche mille volte. E, ogni volta, potreste esservi ritrovati in una strana parte della nostra città. Ad esempio alle spalle della Scuola della Guardia di Finanza. Dedali di strade senza direzione. Case assommate come cataste. Niente respiro. Non andresti mai, fuori strada, lì; lì sei sempre, fuori strada. Devi solo sperare di non aver bisogno di un’ambulanza, lassù. Non ti troverebbero mai, e, se ti trovassero, non è detto riescano a riportarti a valle. Se incontrassero un paio di macchine di fronte, non passeresti mai. E’ la stessa sensazione di una stanza troppo affollata. Soprattutto perché lei s’è passata le mani tra i capelli, e tutti la guardano. Mettiti in coda.
O striscia, rettile.

Love burns” Black Rebel Motorcycle Club
Gli incendi, distruggono L’Aquila, la nostra aria. San Giuliano, poi la collina di Roio. Ora Aragno. L’unica cosa che dovrebbe bruciare, è l’amore che sentite dentro. L’amore ti brucia quando arriva, e travolge tutto, e mentre lo fai, e lo senti, e ti circonda. E brucia anche quando se ne va via, l’amore; quando il fuoco diventa freddo e brucia l’anima.
L’amore che brucia, ti scardina, dai tuoi equilibri, e butta via i tuoi silenzi. Immagini sia stato il cielo, a mandartelo. Ma niente è più terrestre dell’amore, di carne e labbra.
L’unica cosa che dovrebbe diventare cenere, è la follia di chi brucia il cuore della città.

Falling down” Oasis
Scendi giù, e ti metti in ginocchio, per parlare con Dio, per chiedergli di salvarti, o, altrimenti, di non farti perder tempo, con la tua dannazione. Ti basterebbe salvasse chi ami.
Hai incontrato il vento che spezza le ali di una farfalla, e hai pianto la pioggia che riempie tutto il fiume Aterno, quando è inverno e ringhia sotto i ponti dopo la Stazione, vicino le Mura delle 99 Cannelle.
E continui a chiamare, e a chiedere, da ogni posto, perché, perché lei non scenda giù in terra e ti parli, finalmente, e ti dica parole umane.
Ti sembra tutto un bacio morente, e muto. Senza di lei.

Where did all the love go” Kasabian
Chi sa dove finisce, tutto l’amore; forse nei fiumi di un marciapiede. Dove finisce, tutto l’amore rifiutato. Perché non sempre, l’amore è corrisposto. L’amore della città, è stato rifiutato, da quelli che dentro il Centro Storico, nel rifare palazzi moderni, li hanno riempiti di marmi, come fossero tombe del cimitero. E a te puoi capitare, capita ogni giorno, d’innamorarti della donna che non puoi avere, e di restare solo, col tuo amore. E accorgerti che non solo l’amore tuo, non è corrisposto. Ma anche l’amore per un mondo più giusto, finisce a seccare da qualche parte nella campagna amara. Soffocato da calici di paura e di odio, e di violenza.
L’amore dovrebbe finire tra le tue braccia, in verità.

For what it’s worth” Placebo
Siamo arrivati alla fine, della nostra musica. E dirò i miei addii, per quel che vale.
Per quel che vale, t’avrei chiesto di sdraiarti vicino a me, perché ardo di desiderio.
Per quel che vale, come racconta Nick Hornby, realizzate una musicassetta, o un cd, per la vostra donna. Non fatene un greatest hits. Cercate un discorso da svolgere, e accompagnatela, per mano, dentro una vostra possibilità, una storia, una narrazione. Ma fatelo solo per le donne importanti.
Per quel che vale, t’avrei voluta a camminare con me, mentre saliva la marea, con la luna, crescente.
Per quel che vale, io lo so, che a nessuno importa di te, se sei in strada a raccogliere i tuoi pezzi; io, i miei pezzi, non so più che fine abbiano fatto.

Per quel che vale, buon proseguimento L’Aquila.
Spero che la mia voce, non t’abbia disturbato. Almeno questo.

Per quel che vale.

Ciao.
Ci sono angoli di tempo che non tornano. Come sedersi sul muretto che chiude il largo, davanti la chiesa di San Marciano, con i piedi in bilico, sulla via dei Drappieri.
Questa è Radio L’Aquila che non c’è. Forse, è Radio L’Aquila che non c’era.

Broadway” Clash
Non ci sono luci, in piazza del Teatro. Solo gru. Che di notte non fanno vento. Puoi persino sentire il rumore della fontana, più in là, quando la strada sale, sul bordo della chiesa di San Bernardino. Come se fosse il momento in cui, improvvisamente, sul palcoscenico, è il silenzio, a vincere. Un presagio. Prima delle prossime parole.
E’ la solitudine, quella che ti fa più male. Quella che mena i pugni più forti, sul quadrato. Sei nato fuori da una buona stella. Però, puoi sempre cercare, in cielo.

Mad at you” Joe Jackson
Inizia lo spettacolo, a teatro. E tu la stai aspettando. Da una vita, l’aspetti. Aspetti che si prepari, che scelga il trucco giusto. E poi, dopo un’ora e mezzo, le scarpe nuove, le fanno male ai piedi, e pretende pure, che tu la prenda a ridere. E poi, si sorprende, perché tu possa essere arrabbiato, con lei.
Avresti voluto fosse Leo Bassi, al Ridotto del teatro Comunale, un monumento di tempo fa, uno spettacolo per ridere, quello dove avresti voluto portarla, e ora invece, vi state perdendo uno spettacolo nuovo, e duro. Messo insieme da ragazzi coraggiosi.
Ma non si può essere arrabbiati con una donna. Nemmeno se prende il coltello e te lo pianta dentro i sogni.
Non ci s’arrabbia mai con le donne. Semmai, si prova solo ad andarci oltre. Se ci si riesce. E non ci si riesce quasi mai.

Jah war” Ruts
L’hai portata ad uno spettacolo forte. Una visione del futuro. Forse.
C’è un odore strano, per le strade, a L’Aquila. E viene giù dal palco. L’odore di tempeste che stanno per abbattersi. Di quelle che fanno tuoni e fulmini. E’ una tempesta che sta solo aspettando che ci si decida a reagire. E verrà, un momento, in cui sarà necessario reagire. Ai manifesti osceni. Alle marce razziste. Al fascismo subdolo che cova sotto la cenere. Non è libertà di parola. Quando parla un fascista. E’ la voce profonda dell’oppressione, della violenza, del maschio che si crede padrone, dell’assenza di ragione, di qualunque ragione.
Ci può essere solo guerra. Contro. La guerra di Dio. Quella disarmata.
E speri che lo Stato, quel giorno, non faccia come sempre, che picchi te, che vuoi difendere la Legge. Che uccida te. Che credi nella Libertà.
Jah war. La guerra silenziosa degli ultimi, dei deboli. Di quelli che rimangono insanguinati per le strade.

Johnny was” Stiff little Fingers
In questi casi, c’è sempre un ragazzo, o una ragazza. Qualcuno che era una brava persona. Che magari, quel pomeriggio, era solo uscita per una passeggiata. E che si trova presa in mezzo. Dove sparano le pistole. In certi casi, non c’è mai una logica. Sei tu, che guardi le cose che accadono, le ricostruisci, e ti sembra abbiano un filo che le tiene unite. Magari ti vien voglia di chiamarlo destino, e, invece è solo il vento che non si è fermato, in quell’angolo.
E, alla fine, resta solo una madre che piange. Fa effetto, sul palcoscenico. Nella vita vera, di più.
Dovremmo fare in modo che certe cose non accadano mai più. Ce lo diciamo tutti, quando passiamo per via XX Settembre. Poi, salta su qualcuno che ci vuol fare un parcheggio multipiano, in via XX Settembre. E a te sembra solo un’altra pistola puntata nel buio, pronta ad uccidere un altro innocente.

Fite dem Back” Linton Kwesi Johnson
Tra le tende polverose del palcoscenico, un deputato ultraconservatore urla il suo discorso. Contro i negri, contro i pakistani. Ha argomenti ragionevoli. Siamo tanti, qui. E non ci sono soldi per tutti. Noi paghiamo le tasse, e se loro non ci fossero, i nostri ospedali sarebbero migliori, le nostre pensioni più alte. Gli attori sul palco applaudono. E il pubblico in teatro, applaude, e tu non sai se applaudano la bravura degli attori, a raccontare come è banale far nascere Hitler, o se invece applaudano convinti quelle parole. Vuote.
Immagini.
Immagini gli italiani dopo la guerra. Quando hanno iniziato a fare un mare di figli. E si sono ritrovati con tante più persone cui dar da mangiare. Gli italiani, tra gli anni ’50 e gli anni ’70, s’erano inventati un mondo. Erano cresciuti. Avevano persino sparso più felicità.
E ora, la crisi economica, eccitava i fascisti dalle teste vuote.
Dobbiamo combatterli, e respingerli.
A L’Aquila, presto, ci sarà un’altra via, delle Bone Novelle.

Punky reggae party” Bob Marley
Dopo uno spettacolo così duro, vorresti solo portarla ad una festa. Una bella festa antica, con suoni pieni di gioia. Dove tu possa incontrare i Jam, i Clash, i Maytals, i Damned. Per una musica senza ipocrisia. Che faccia girare il mondo, tenendola per mano. Guardandola dritta negli occhi, mentre ballate. Tu e lei da soli, in mezzo a mille altre persone. Una storia da zingari felici. Avvolti da suoni che solo col cuore, e con l’anima, insieme, puoi ascoltare. Ad occhi chiusi, ad occhi aperti.
In fondo, l’alba, puoi godertela come vuoi. Quando il sole arancio spacca il grigio notturno, uscendo fuori dalle montagne, laggiù in fondo, un po’ più a destra del Gran Sasso. Quando il cielo aquilano splende più della Paramount Pictures.

Our house” Madness
Casa nostra. Anche se non ce l’hai, una casa con lei, ti verrebbe quasi da dire che esista, una casa così. In mezzo alla strada. Gliela vuoi far vedere e conoscere. E’ la casa della tua memoria. Quando porti una donna ad uno spettacolo teatrale, e poi a ballare, ti vien voglia, di tenerla per mano e raccontarle un po’ di ricordi.
Una casa a Santa Barbara, ad esempio. Quando il padre indossa il vestito della domenica, e la madre cucina. Quando i ragazzini giocano sui pianerottoli del palazzo, fin quando qualcuno non li caccia via, urlando, dai palazzi a mattoncini, e loro potevano infilarsi a giocare, giù, nel Centro Sociale che ora non c’è più. L’unica cosa non ricostruita di tutto il quartiere ora.
I Madness somigliano sempre, ad una comica in bianco e nero. Quando ridi delle tue disgrazie, e al tramonto t’accompagna una malinconia scanzonata.

Mirror in the bathroom” English Beat
Siete in due.
E questa, è l’unica cosa importante. Mentre invece, spesso, sembra d’essere in due, ed invece ognuno sta con sé stesso. Fateci caso. Fateci caso, in quanti, camminano insieme, e, ognuno guarda qualcos’altro. O guardate, quando sono in un ristorante, ognuno impegnato a guardare il proprio riflesso nel tavolo di vetro, mentre mangia. O pronto ad andare in bagno, per guardare il proprio volto incastrato in uno specchio, e magari in un altro, ed in un altro ancora, mille volte. Il proprio meraviglioso sé stesso, che cancella ogni preoccupazione per l’altro, ogni responsabilità, ogni ascolto.
O magari, impegnati, ognuno di loro, col cellulare in mano, a riflettersi in quello specchio, con lo sfondo della Fontana Luminosa. Ognuno centrato solo su sé stesso. Le proprie paure, i propri pensieri, i propri desideri. E l’altro scompare.
Diverte, questa musica, ma urtica.

So lonely” Police
C’è un teatro, nel quale reciterete sempre da soli. E’ il teatro della vostra anima. Lì, non potete mentire. E’ un teatro dalle quinte bianche, con le luci tutte bianche, abbaglianti, e voi siete nel mezzo del palcoscenico, da soli, totalmente da soli. Spesso capita quando il vostro amore vi ha lasciato, soli. Intorno, c’è un vuoto pazzesco. Vi siete talmente annullati nel vostro amore, che di voi stessi non è rimasto nulla, nemmeno un piccolissimo pezzettino. E allora dite a voi stessi, nel mezzo del palco, sotto tutte le luci accese, che vi sentite inferiori. Che siete soli, e vi sentite inferiori, e perché siete inferiori, siete soli.
Gira su sé stessa, la musica dei Police, Come una rotonda aquilana. E fa girare la testa, con questo suo urlo disperato.

I turned out a punk” Big Audio Dynamite
Quando siete soli, quando non è rimasto niente, forse, c’è solo una cosa da fare. Tornare alle proprie origini, tornare a sé stessi. E reinventarsi. Smetterla, di imitare qualcun altro.
Se sei una città distrutta dal terremoto, non puoi pensare d’essere una metropoli. Non puoi costruire su ogni angolo di terra disponibile. Non puoi pensare di diventare la Rimini della neve che non c’è.
Perché così, diventi solo una vecchia e malinconica baldracca, truccata, per coprire le rughe e le ferite; strizzata dentro un vestitino che non la contiene più, traballante su tacchi che non può sostenere.
Persino la vecchiaia, può essere dignitosa, se ci si accetta, se ci si dà un piccolo spazio di crescita possibile.
Ritorna punk, Mick Jones, si guarda all’indietro, ma senza indulgenza, e sorride di sé, del tempo trascorso, della bocca disordinata, dei capelli che cadono, ma con una chitarra in mano, può ancora far tremare i vetri di uno qualunque dei Palazzetti dello Sport aquilani, sempre chiusi.

Radio radio” Elvis Costello
La vostra serata prosegue, dentro la notte, dopo il teatro, e il ballo, dopo aver sfiorato un ristorante, esservi sentiti soli. Vi ritrovate in una piazza deserta del Centro. A San Pietro a Coppito. Coi palazzi rasi al suolo, svuotati, da dentro, con solo le mura esterne ancora in piedi. Come un corpo cui tu abbia tolto ogni anima. Un guscio. Ecco, allora, dentro il silenzio, e le stelle ghiacciate, puoi solo accendere la radio. Farti venir voglia di mordere la mano che ti nutre. Puoi farti venir voglia di correre lungo tutto il perimetro della piazza rotta, urlando a squarciagola, quanto sia meravigliosa, la radio, quanto dentro tu ci possa trovare i sogni che temi d’aver perso. Quanto hai voglia di ribellarti, ancora.
Sarebbe bello, se riuscissi a farlo con lei, mentre la tieni per mano.

Johnny come home” Fine Young Cannibals
Ma se lei non fosse con te, se tu fossi rimasto solo. Se avessi deciso di bere qualunque cosa possibile, e anche quelle impossibili. Se dentro il bicchiere avessi cercato il modo di allontanarti da te stesso. Da tutto quello che c’è di sbagliato intorno, se avessi cercato, questa, di scorciatoia, invece che strade più difficili, ma più belle, se avessi incontrato l’insegna di cartone di certi bar aquilani che propagandavano cinque shottini a dieci euro, come le pallottole di una roulette russa, in cui però, dentro il tamburo, ci fosse una sola possibilità di vita. Se ti ritrovassi totalmente ubriaco, buttato su una panchina del Parco del Castello, una cosa potresti farla, ancora, Johnny. Torna a casa. A casa tua, troverai sempre qualcuno che ti ascolta, anche incazzato. Ma ti ascolta. Quando ogni strada è finita, torna a casa. Prima che faccia buio davvero.

Pressure drop” Keith Richards con Toots & Maitals
Quante cose sbagliate, si fanno, sotto pressione. Come se fosse una goccia d’acqua che ti rimbalza sulla testa, torturandoti atrocemente. Questa musica dondola, e irride, con il gioco della chitarra Stones, mentre cerca di liberarsi dalla assurda pressione che viviamo ogni giorno. Tempi, ritmi, orari. Un messaggio letto, ma senza risposta. Che diventa uno spunzone infuocato piantato dentro lo stomaco. Pressione, pressione. Raggiungi risultati, o non sei nulla, dimagrisci, o farai schifo. Adeguati a quel che ti viene chiesto, altrimenti non esisterai per il mondo.
Allora, invece d’essere in un call center a L’Aquila, a vendere abbonamenti per Sky, è meglio se pianti tutto, e vai a cercarti una spiaggia. In Jamaica o a Torvajanica, è uguale. Basta che ritrovi la voglia di ballare, e l’unica pressione che possa interessarti, è quella del suo seno sulla tua schiena, mentre guidi un improbabile motorino incontro al tramonto.

Straight to hell” Lilly Allen & Mick Jones
Insomma, mille volte, avresti potuto finire dritto all’inferno, questa notte. Circondato da ragazzini che ti chiedono soldi, da bambine che vogliono vendersi. Strattonato dalla miseria, che ti chiede di lasciarle almeno qualche spicciolo. In fondo, questa notte, questa storia sghemba che vi racconto, che abbiamo vissuto, e che già non ricordiamo più, è l’ennesima terra di confine, una terra di nessuno.
Uno dei nostro Nuclei Industriali di Sviluppo, di notte, coi viali illuminati, dove non si cammina, dove è finito lo shopping. Dove passa, ogni tanto, solo qualche auto delle vigilanze private. Quattro soldi di contratto, e una pistola in tasca.
Una specie di inferno terrestre dell’assenza.
Stai tornando a casa, davvero, stasera, da solo, e, dritto all’inferno, non ci vuoi finire. Vorresti solo qualcuno che t’abbracci.

Night Nurse” Simply Red con Sly Dunbar and Robbie Shakespeare
Si dilata, il ritmo di questa canzone, accompagnata dalla sezione ritmica più potente del reggae. Si dilata come il sonno che ti prende mentre guidi e non ce la fai più. Non ce la fai più, perché sei stanco, perché hai il cuore ferito. E invochi la tua infermiera di notte, e vorresti la notte, come tua infermiera.
Al fondo di tutto, di questa serata dura e difficile, tutto quello che chiedi, e che vuoi, è qualcuno che si prenda cura di te. Ma anche questo, è difficile. Perché devi decidere, che puoi permetterti di lasciarti andare, tra le braccia della notte. Perché devi decidere, che, finalmente abbassi le difese, per sentire la pelle della tua infermiera di notte.
Abbandonarsi, è bellissimo.
Però, ci vuole coraggio.

Ciao, L’Aquila.
Resta libera.

Via della Fontana. Genzano di Sassa. L’Aquila.

Quindici anni fa, era una stradina sterrata, dalla provinciale per Lucoli, poco dopo il passaggio a livello, prima del distributore di benzina; saliva in cima ad una collinetta, confluendo con via Colle Mancino. Costeggiava siepi di rosa canina, piccole coltivazioni, un paio di pollai. E alberi di mele e di rondini. Da un anfratto di terra e roccia, sbucava uno scolo d’acqua. Come se l’intera collina filtrasse una vena sorgiva, cui si abbeveravano gli animali. Cani, volpi, fagiani; di notte, più d’una volta, ci ho visto civette, allocchi.

Oggi, per entrare, dalla Provinciale, in via della Fontana, si sale su un raffazzonato ponticello, che supera un fosso, realizzato dalla Provincia, da una ditta di Sulmona. C’era un rivo, lì, che portava acqua dai monti e confluiva, sotterraneo, nel Raio. Mentre era Presidente Del Corvo, dopo il sisma, venne fatto li un elaboratissimo, e costoso, canale di pietre tenute insieme da graticci di ferro. Ora, è totalmente abbandonato, una giungla di erbacce che si empie, periodicamente di acque nere di scolo provenienti dai Progetti C.A.S.E. di Sassa. Non scende più nessuna acqua.
Il guard rail del ponticello è sempre divelto, in parte, dai camion delle aziende edilizie passate di lì in questi anni. E una sola auto per volta, può passarvi, in un incrocio a raso con la Provinciale, pericoloso, per la scarsa visibilità, sia in entrata, che in uscita.

Hanno costruito, ai lati di via della Fontana.
Tutto dopo il terremoto del 2009.
Una ventina di villette bifamiliari da un lato, quasi tutte abitate; otto palazzi di tre piani e due palazzi di quattro piani dall’altro, che iniziano ad essere occupati e che nella scorsa consiliatura comunale si sono visti approvare aumenti di volumetrie rispetto ai progetto originale; un vecchio troncone di cemento, preesistente al sisma, in cima alla strada, è diventato un palazzotto di tre piani a due ali, ancora disabitato.

In un breve giro di tempo, sulla base di vecchie previsioni di Piano Regolatore, insensatamente cambiate e applicate in convenzione con privati, Genzano di Sassa è divenuta una succursale di Pettino. Senza alcuno spazio pubblico, o marciapiede. In convenzione coi privati, quella che era prima una vena d’acqua è ora una specie di muro di mattoncini “artisticamente” disposti, a formare una sorta di fontanile. Totalmente disseccato. Il terreno è stato sfondato da una enorme galleria per la conduttura del gas, e poi ricoperto con materiale di risulta.
La fogna è rimasta della stessa portata, ma deve servire una quantità di persone dieci volte superiore.
Via della Fontana, in questi anni, è stata asfaltata e rattoppata, e distrutta e lesionata e bucata, decine e decine di volte, senza che mai ci fosse un solo cartello del Comune a spiegare cosa accadeva. Col suolo pubblico costantemente occupato dalle Ditte al lavoro.

Via della Fontana, oggi, se fosse percorsa da una ambulanza in situazione d’emergenza, non potrebbe contenere due auto che passano di fianco in direzioni opposte, l’una all’altra, e non potrebbe consentire un transito di due auto, contemporaneamente, sul ponticello; avrebbe una curva totalmente cieca da affrontare; è in sostanza, una strada del tutto inadeguata a sostenere il volume di traffico che ha e che la aspetta.
Non ci sono più coltivazioni o siepi di rose o pollai o alberi. In compenso, in un campo sul bordo della strada, c’è un cumulo di amianto a cielo aperto.

La pioggia di questi giorni, la breve pioggia di questi giorni, ha definitivamente devastato via della Fontana.
Le Ditte costruttrici, per mostrare qualcosa di decente ai loro clienti, hanno costantemente rattoppato i buchi nell’asfalto, con colate successive e sovrapposte di catrame, senza mai predisporre la strada o ricostruirne il fondo. Nella totale assenza del Comune.

Ora, nei pressi del ponticello, una quantità preoccupante di ghiaia e terra e sabbia fangosa ha ricoperto tutta la sede stradale, calando dall’alto. E metà strada ha ceduto, da sotto, l’asfalto, nei giorni scorsi nuovamente poggiato e spianato sulle buche. Sembra di guardare le onde di un mare ribollente. Ora è transennato dal Comune, per decine di metri, dopo l’intervento di domenica insieme coi Vigili del Fuoco. L’intera collina, sembra calare a valle.

Questa, è stata, ed è, la gestione del territorio a L’Aquila.
Incuria, interessi privati, assenza di visione comune, predazione insensata della terra.
Adesso, in questi giorni, lungo la Provinciale, qualcuno ha costruito un intero percorso, nella campagna, per corse motociclistiche. Magari qualcuno gli ha persino rilasciato un permesso.
Durante la Giunta Tempesta, poco più in là, si è costruito il capannone industriale ex-Sercom, enorme, di fronte al cimitero. In totale stato di abbandono ed incuria.

Confesso di non nutrire più molte speranze. Perché se le cose vanno così, dipende da una rete diffusa di indifferenza, complicità, acquiescenza, incompetenze e inadeguatezze.
Nel Rinascimento italiano, il “bello” era anche utile, efficiente, efficace, perfettamente inserito nel suo contesto.

Oggi, è solo una parola.

Sabato prossimo, alle ore 17,30, l’ANPI L’Aquila, convoca, in Piazzetta Nove Martiri, una Manifestazione, intitolata “L’Aquila democratica, L’Aquila antifascista”.

Io, invito tutte, e tutti, a partecipare.
Però, io non andrò.

So che non è particolarmente interessante, il motivo per il quale non parteciperò a questa Manifestazione, ma ho un groppo alla gola, per questa mia decisione. E, allora, voglio, almeno un po’, allentarlo.

Da quando sono a L’Aquila, pressochè ogni anno, il 25 Aprile, io sono in Piazzetta Nove Martiri.
Al governo della città, destra e Centrosinistra, si sono alternati. Ma io sono sempre andato alla celebrazione della Festa della Liberazione, nel ricordo dei Nove Martiri Aquilani. Ci sono andato anche quando fu Berlusconi, ad Onna, il 25 Aprile 2009, a commemorare la Festa della Liberazione.
E ogni volta che sono andato, se non contassi le presenze che, per dovere istituzionale erano lì, con la pioggia, o il bel tempo, io ho visto, sempre, al massimo, trenta/quaranta persone. Le conosco quasi tutte.
E, molte persone del Centrosinistra, quando sono senza incarichi istituzionali, il 25 Aprile, in Piazzetta Nove Martiri, non ci vengono.
L’ultimo Candidato Sindaco del Centrosinistra, che io ho votato, sia al primo, che al secondo turno elettorale, il 25 Aprile del 2017, in Piazzetta Nove Martiri, non c’era.

L’iniziativa dell’ANPI, è importante.
Ma, perchè non si è tenuta anche negli anni passati ?
Io non voglio identificare l’ANPI L’Aquila, con il Centrosinistra aquilano.Ma, certo, delle relazioni ci sono.
E, allora, io mi chiedo, perchè.
Perchè, negli anni, non vi sia stata sufficiente forza, per far vivere in città, il ricordo, ma anche la civiltà, della Resistenza. Per farla essere elemento vivo, e vitale, e aperto, di dialogo, di confronto, e anche di scontro, politico-culturale, tra generazioni. Patrimonio comune, della Città e contemporaneo.
E non qualcosa di ossificato, stancamente rituale, incapace di dialogare, coi giovani, in particolare.

Si vuol cominciare sabato prossimo ?
Ne sono felice.
Vuol dire che, il prossimo anno, allora, io sarò presente, alle Manifestazioni del 23 Settembre.

Ma io penso anche, che uno dei modi, per tener vivo lo spirito limpido, di chi si è sacrificato per noi tutti, per la nostra Libertà, con la Resistenza, sia quello di tenere comportamenti seri.
Io non riesco, a prendere l’aperitivo con esponenti della destra aquilana, che accoglie a braccia aperte i fascisti. Non ci vado a cena, e non gli do del “tu”, quando li incontro per strada.
E non ci faccio scambi politici.

Sono antico, lo so. Anche un po’ scontroso, e me ne scuso.
Però penso anche che la Resistenza, su cui la nostra Costituzione si fonda, e che è sotto attacco, culturale e politico, da anni, non può avere a che fare con le contingenze della politica amministrativa aquilana.

Perchè se ne indebolisce il richiamo Morale.

1 ottobre 2017

Oggi pomeriggio, alle tre, mi metterò a dormire.

Non avrò con me, la retorica di passati gloriosi, da ricordare. E neppure un sacco di sconfitte vissute in tre-quattrocento persone al freddo del Fattori.
Avrò con me un presente meschino. E un futuro che vorrei immaginare.

Mi addormentero’ col pensiero dei bambini piccolissimi che fanno gli equilibristi correndo sui gradoni dello stadio.

Cercherò di non pensare alla assenza di generosità. Cercherò di non pensare che tanto è solo un mercato. E L’Aquila Rugby è un prodotto che non vende. E cercherò di non pensare alla politica. Che siede sulla riva dell’Aterno ad aspettare il cadavere degli altri.
Cercherò di non pensare agli arroganti, ai pettegoli, ai furbi, a quelli che ti devono sempre dare una lezione, a quelli che la verità è solo la loro, a quelli che quando scorre il sangue nelle strade è il momento di comprare e a quelli che stanno aspettando il compimento di questo disastro per arrivare col cavallo bianco del salvatore feroce e senza scrupoli. Cercherò di non pensare agli indifferenti che hanno un sacco di aneddoti da raccontare ai funerali.

Mi sa che non ci riuscirò a dormire oggi.

Andatevene affanculo.
E grazie a chi ci ha provato.

Chissà, se c’è ancora spazio, dentro la notte, per i sogni.

Ciao. Da Radio L’Aquila Che Non Ci Sarà Mai.

Beatles – Strawbwerry Fields Forever –
Per tutti, c’è un campo di fragole, dove s’andava a giocare da bambini. Anche se non è il prato dietro l’orfanotrofio. Il mio, era A Gallipoli. E non era neanche un campo, ma un cortile abbandonato. Recintato e spesso impraticabile, per i materiali di risulta che ci buttavano dentro. Il vostro, dov’era ? Il campo da calcio dei Salesiani ? Lo hanno cementificato. Il campo di calcio vicino al Cimitero ? Ci hanno fatto delle case provvisorie, e aperto qualche inchiesta in merito, e non c’è più.
Forse, da qualche parte, sono rimasti, campi di fragole, a L’Aquila, dove andare e non avere più preoccupazioni di nulla. Dove guardare il cielo e accorgersi dei propri sfasamenti, e lasciarli andare, col succo rosso di labbra fragola. Si accettano segnalazioni.
Dove sono gli Strawberry Fields, in cui sognare, a L’Aquila ?

House of Love – Shine on –
Siamo ancora dalle parti di un giardino, a chiederci quanto sia crudele il sole, quando decida d’andar via da noi. E siamo lì, a chiederci, perché, sogniamo in questo modo, con un cielo porpora, e tutto sembra andare per il verso giusto, proprio mentre, di noi stessi, pensiamo, di non essere esattamente a posto. C’è sempre una distanza, che brucia, tra noi, e quel che vorremmo essere, o quel che dovremmo essere.
Quanti giardini, sono rimasti a L’Aquila ? Quanti ce ne sono a Pettino ? Qualcuno li cura ?
Certe volte, le canzoni servono a farci sentire quanto sia lontano, il mondo, da noi. E quanta roba sbagliata contenga.
Nel mio giardino, sedevo su una sedia di plastica. E guardavo il sole andar via da me. Senza poter fare nulla. E quanto brillava.

Oasis – Falling down –
L’Aquila è un posto che conosci da sempre. E sta calando il sole. Talmente tanto, che ti verrebbe voglia di dire addio al mondo. Solo perché ogni volta che la guardi, ti vien voglia di piangere tutta la pioggia che riempia un mare, per come l’hanno ridotta. Sembra di vivere dentro un sogno che muore. O forse moriamo dentro un sogno che vive. Certi urli, non fanno rumore, come un albero che cada, tagliato dall’indifferenza che non respira. Come la monnezza che si accumula, nelle aiole di via Strinella.
Ci provate, a parlare con Dio, a L’Aquila ? Vi ascolta ?
Persino il vento, si è messo a spezzare farfalle. E il sole sta calando, sui sogni in cinemascope, dalla rotonda di un centro commerciale, nel parcheggio. Pure gli arcobaleni, si sporcano.

Opal – Supernova –
Le stelle, di bello, hanno che son lì, indifferenti a noi, al nostro tempo. Si dimenticano, di noi, le stelle. O forse non se ne accorgono neppure, per quanto siamo veloci, a vivere. Duriamo quanto un fiammifero che si accende; meno. E ci permettiamo di lasciare il nostro urlo dentro la notte, a brillare. Le stelle, conoscono il sole, la luna, e anche il vento. Ma noi, qui, quando è notte, dentro il nostro Centro, senza luci, solo la febbre, conosciamo. Del silenzio, e dei sogni interrotti.
Dovresti tenere un respiro tra le braccia, stella, e portarlo fino a me. Quaggiù, che sono in via Sallustio e non riconosco niente. So d’essere a L’Aquila, solo perché guardo il cielo accecante, come l’esplosione di una stella, e se sto all’ombra, sento freddo, come se tu non mi abbracciassi mai.

Who – Magic bus –
Ti piacerebbe, scendere dal treno, arrivato in stazione, ed aspettare il tuo autobus magico ? L’unico autobus magico, è quello che mi porta fino a te. E se il bus che sale lungo le Mura, da te non dovesse portarmi, lo comprerei tutto, il bus, , non importa, quanto costi. Dentro un sogno, potrei permettermi qualsiasi prezzo; non ci vado più, a scuola, col bus, ma lo guido lungo i campi di girasole piantati su viale della Croce Rossa, al posto di quegli orrendi prefabbricati sbrillentati e polverosi, per arrivare dentro il mondo che solo tu ed io, possiamo accendere.
Lo pago il biglietto sì, e se arrivasse il controllore rugbista, neanche in sogno avrei paura. Perché pago sempre. Persino su un autobus magico.

Dukes of stratosphear – What in the world –
L’appuntamento è al 2032. Sognare cosa ci sia nel mondo, in quella data. A L’Aquila, nella sala da thè, del Bar Eden, a bere una tisana alla cannabis. Signora mia, che mondo. Con gli uomini annoiati, a pulire i pavimenti di casa, e le donne a far guerre in giro per il pianeta.
Sono sempre bislacchi i sogni di futuro, quando non puoi costruirli partendo dai tuoi desideri, ma solo dalle tue paure. Quando non sai se potrai costruire qualcosa, o se dovrai solo subire, a L’Aquila. Propaganda, prepotenze, furberie, vigliacchetti crudeli ad ogni angolo.
Nel 2034, saranno cancellati, i cavalcavia dell’autostrada. Al loro posto una strada che corra morbida lungo la collina e il fondovalle, e tigli profumati.
Chissà cosa accadrà, nel mondo, nel 2035. Io vorrei esserci.

Animals – When I was young –
La prima sigaretta, l’ho fumata a dieci anni, lungo la scalinata di San Bernardino, dietro una delle nicchiette, per non farmi vedere. E, la prima volta che ho fatto l’amore, avevo tredici anni. Ero da solo, al cinema Olimpia. Quando ero giovane, mio padre faceva il militare. Era duro, allora, e le stanze erano più fredde, di quanto non lo siano oggi. Per andare in giro d’inverno, ci si lasciava il pigiama, sotto i pantaloni. E se qualcuno lo scopriva, in classe, venivi preso in giro per mesi. Ma faceva freddo, e da giovane, tutto sembra più importante. Più forte, più doloroso, più freddo. I sogni, più raggiungibili, da giovane.
Solo la tua assenza, brucia di più, oggi.

Rolling Stones – Simpathy for the Devil –
Quel che imbarazza di più, è la natura del gioco. Non è il nome, del Diavolo, a far paura, ma la sua capacità di lusingare le tue vanità. C’è una casa del Diavolo, a L’Aquila, racconta la leggenda. Puntellata come tutte, adesso. Perché neppure il Diavolo, resiste allo Scuotiterra Poseidone. Il Diavolo, lo devi inscatolare, per tenerlo lontano da te; l’esorcismo, non è cacciarlo via, ma scaricare su di lui le responsabilità. E far finta che non siano le tue. I desideri, si pervertono in tentazioni.
Puoi anche sognarlo, il Diavolo. E ti piacerà, allora, svegliarti, al mattino. Buongiorno, piacere d’incontrarvi. Spero indovinerete il mio nome. E’ esattamente il vostro.

U2 – Dancing barefoot –
C’è un posto, a L’Aquila, per danzare a piedi nudi ? Sì, ci sono tanti teatri, anche nuovi, e palestre. Ci crescono belle cose, dentro. Ma parlo proprio di un prato, di una piazza. Un posto dove tu possa sentire che si entri in contatto con qualcosa, che la pelle perda la forza di gravità, roteando ad occhi chiusi, come si faceva da bambini, come ora accade certe volte nei sogni di vertigine. Un pavimento, o una terra, che permetta di ascoltare attraverso il corpo il rombo della montagna che cresce e tocca il cielo, e il fondo della terra che germina radici e abbracci, e legami.
L’anfiteatro del Parco del Sole, forse. Ricordando concerti. Immaginando musica. Un posto dove sentirsi liberi, a L’Aquila, senza per forza pagare il biglietto, o bere qualcosa. Un posto dove sentirsi le mani di lui addosso.

That Petrol Emotion – Can’t stop –
Si può, smettere, di cadere ? Come se fosse un destino, cadere. Come se fosse una traiettoria necessaria.
Se guardiate la città, pensereste che stia cadendo ancora, o che stia salendo, verso il suo cielo azzurrissimo, quando tira vento da nord ? Immaginereste che continui a lamentarsi, camminando lungo le sue Mura, o che in silenzio, a testa bassa, senza tanti proclami, stia lavorando, per essere pronta al suo prossimo appuntamento, fra trecento anni, magari in condizioni migliori ?
Forse si può esser perfetti, somigliare agli Angeli. O forse basta essere umili, e duri, e non piegarsi, per smettere di cadere, e avere le ali. Certe mattine, quando la polvere galleggia dentro una lama di luce tra le finestre, sembra che sia possibile, toccare i sogni, e trattenerli, farli essere realtà.

Strokes – Reptilia –
Ti trovi in una strana parte, della nostra città. In fondo ad una discesa, dopo l’edificio di una scuola privata delle suore. Palazzi sventrati. Muri aperti. Divani dimenticati. Nebbia, calce, copertoni bruciati. Asfalto divelto. Puzza di umido e di assenza. Le nostre vite sono cambiate, ma se ti guardi intorno, c’è sempre qualcosa che vuole ricordarti un tempo che non esiste più. Ed è questa, la vera rassegnazione. Continuare a guardarsi intorno per cercare qualcosa che ti dica che il tempo tornerà indietro. Questo mondo, non è per te. E io voglio andare più veloce, molto più veloce. Non lo voglio il peso della tua memoria incapace di andare avanti. Non lo voglio il peso di quella che pensi fosse grandezza ed era solo chiusura artificiale.
Raccontaci una storia. Una storia di futuro, sognala insieme. Trova persone che la sognino con te. Non è una ragazza da portarti a letto, quella che devi sognare. Ma un’altra e migliore vita.
Non rallentarmi, la serata, non è ancora finita.

Talking Heads – Psycho killer –
Precipitare dentro i sogni, certe volte, ti fa fare brutti incontri. Ce li abbiamo tutti, i nostri brutti sogni, no ? Certe volte, proprio paurosi, e terribili. Magari come trovarsi con un mostro lungo via San Martino. Qualcuno che, proprio voglia ucciderti. Nella vita di ogni giorni, sono in tanti, a volerti uccidere. A voler uccidere la tua dignità, soprattutto se sei donna. Lo capisci benissimo, quando un maschio, che abbia più potere di te, ti faccia certe proposte innocenti, cosa invece abbia davvero in testa. Non è neanche una innocente scopata. E’ solo una sozza voglia di dimostrare chi ha più potere.
Scappa via, allora. Scappa via. Stagli lontano.
Meglio il brutto sogno di uno psicopatico che vuole squartarti, e che al mattino ti lascia con la voglia di aprire le finestre e trovare il sole caldo, che le mani sudate di un vigliacco bavoso. Quando poi, nella vita normale dice d’essere di sinistra, fa ancora più schifo.
E so di cosa parlo.
Anche se questa canzone ha una linea di basso, che ribalterebbe quello schifo di rotaie della metropolitana di superficie, nata morta, per sfamare gli appetiti di una intera classe dirigente cittadina che va ancora girando e governando.

Stone Roses – Made of stone –
Certe volte, mi sorprendo a fantasticare, magari è un sogno ad occhi aperti, mentre con le mani reggo il volante della mia auto, e guido, in giro per L’Aquila. La condizione normale, a L’Aquila, è guidare l’automobile. Non camminare. O star seduto su una panchina. Ma guidare l’auto. Sentire quanto le strade, siano fredde, e sole, e ostili, per quanto affollate di altre auto, e sentire invece la propria auto che brucia, che accoglie, che crea un mondo artificialmente protetto. Dalla puzza di diesel bruciato, dalla polvere dei cantieri, dall’aria infetta di alberi tagliati.
Mi chiedo se ci sia qualcuno in casa, mentre guido. In quelle case che guardo sorgere sul bordo dell’asfalto. Con i cartelli che invitano a comprare, ad affittare; le serrande chiuse, come occhi morti.
Per sopravvivere, da solo, dovrei esser fatto di pietra. Col gomito fuori dal finestrino. Mentre guido, e sento musica, e faccio finta che tutto sia normale. Sono fatto di pietra. E forse mi sbriciolo lo stesso.

Stereophonics – Dakota –
Ce le abbiamo, le nostre storie finite. Quelle in cui qualcuno ci faceva sentire unici. Bastava metter la testa su un prato, guardare il cielo, e tenersi per mano, e non c’era niente altro intorno. Magari lo facevamo sul prato di Collemaggio. Prima che fosse permesso a qualunque padrone di cane, di usarlo come discarica. O, magari, la nostra storia, l’abbiamo solo sognata, desiderata talmente tanto, che, la notte, è venuta a raccontarci di come sia possibile viaggiare senza andare in nessun posto, e volare, appena apri le braccia.
Certe volte, le storie finite, lasciano l’amaro, in bocca. Quello di un dolore subito. Nascosto a piangere nell’erba alta, al fianco della chiesa di San Silvestro. Altre, solo la carezza della bellezza vissuta, e sfuggita, come l’acqua fresca, delle fontane di Piazza del Duomo, che cade sul basolato della Piazza, e fa crescere fiori.

Smashing Pumpkins – Daphne descends –
Tu lo ami, e t’accorgi che lo ami, perché ti fa star bene con te stessa. Lo guardi, dentro il chiarore della tua stanza. Un controluce che lo trasformi in ombra. Come fosse un tramonto a via Castello. E non riesci neanche a comprendere bene come possa accadere. Ma lo perdi. Non c’è più.
Forse succede perché non t’accorgi, che lo vuoi, senza accettarlo, per come è. Lo vuoi solo alle tue condizioni. Lo vuoi, e lo ami, perché lo fai diventare una proiezione di te stessa. E quando lui esce dai confini che gli hai dato, finisce il sogno, che forse non era un sogno, ma solo una prigione un po’ più raffinata.
Ci vorrebbe sempre, l’umiltà necessaria, per capire che gli unici sogni veri, sono quelli che si fanno in due, rinunciando ad un po’ di sè stessi, per farsi completare dall’altro. L’amore è fatto di disequilibri, di passi laterali, di scarti, di fughe, di venirsi incontro e cercarsi. Se si resta fermi, non si diventa mai uno.
E Daphne, scende dai suoi sogni, senza poterci più tornare.
Proprio come noi, che a L’Aquila, quella della memoria, non ci torneremo più.

Kasabian – Acid turkish bath –
Da ragazzini, sul retro dei giornali, c’era sempre la pubblicità di occhiali che permettevano di vedere oltre i vestiti delle ragazze. E tu eri lì, ad immaginare di poterli indossare. In classe, quando le medie erano all’Angolo degli Scardassieri, sopra il pub. O, meglio, al mare, quando per arrivare al sodo, sarebbe bastato trapassare a raggi X, meno vestiti. Un sogno piccolo borghese. Violento e un po’ vigliacco. Ma questo lo capisci solo dopo. Quando sei cresciuto, forse anche perché, quegli occhiali lì, non li hai mai comprati. E magari, però, t’è rimasto il dubbio se funzionassero davvero.
Ti resta addosso la sensazione d’esser cresciuto come se, per te, non ci fosse posto, dentro la storia. Ma l’unica cosa che il tempo potesse concederti, era il desiderio di un nuovo primo giorno dell’anno. E l’unica cosa che potevi riuscire a conquistare, era capire come proteggersi dalla tempesta.
E ti vien voglia di neve a L’Aquila. Una di quelle nevi che ti tagliano la faccia.

John Lennon – Istant Karma –
Ogni tanto, capita, che ti guardi dentro lo specchio, e riesci a tirar fuori tutte le lacrime di cui hai bisogno. Non siamo nati, per vivere dentro il dolore, e dentro la paura, anche se continuano a vincere quelli che costruiscono paura, e uccidono nel dolore; quei fascisti al ragù, che mettono manifesti sui muri delle rotatorie, appestando l’aria col loro fetore di cancro vecchio.
Perché arriverà il momento in cui riconoscerai fratelli tutti quelli che incontri. E capirai che tutti quanto siamo splendidi, come la luna e le stelle, e il sole, e splendiamo. E che si fottano, quelli che pensano che sei stupido.
Un solo istante d’amore, giustifica una intera vita. Se riesci a donarlo, se sei così generoso, da riceverlo. Perché ci vuole generosità, per ricevere. Moriremo tutti. Molto presto magari. E di noi resterà solo l’amore che siamo riusciti a creare.

Bob Dylan – All along the watchtower
Sono in tanti, quelli che si comportano come se la vita fosse solo uno scherzo, o un sogno di aria fritta. Ma io e te, lo abbiamo sperimentato, e sappiamo che non è così. Comunque, non è il destino che vogliamo. E non intendiamo rassegnarci all’idea che di qui non si possa uscire. Che ci sia gente che continua a far soldi con la disgrazia del sisma, calpestando gli altri, facendo il furbo. Avvoltoi con la pancia piena.
Siamo in due, una ladra, e un buffone. Ci teniamo per mano. Soffriamo insieme, se qualcuno beva il nostro vino, o distrugga la nostra terra. Ma noi, insieme, guardiamo oltre le mura della città. Gli uccelli che si addensano, la guerra che arriva.
E possiamo solo amarci. Noi conosciamo, il valore di quello che sentiamo. La torre dell’orologio segna l’ora. Ma noi, ce ne siamo già andati.

Byrds – Mr. Tambourine Man –
Non ho sonno.
Ormai non più, e non vado da nessuna parte. Signor Tamburino, mr. DJ, suona una canzone per me. Ancora una, suonala per me. Per lei l’hai suonata, adesso, suonala per me. Dovresti saperlo, che non ci sono recinzioni, per arrivare fino al cielo. Mentre qui, in città, ci sono recinzioni dappertutto. E’ recintato dove si costruisce. E’ recintato il prato dove si butta, per anni, il materiale da costruzione. E’ recintato dove non puoi camminare. E’ recintato dove non puoi vivere. E’ recintato, dove non puoi permetterti di comprare, perché non hai sufficiente denaro. Anche il tuo cuore, è recintato, perché non deve correre rischi.
Non hai nessuno, da incontrare, e le antiche strade, sono troppo vuote, per sognare.
Devi solo farmi dimenticare l’oggi, per permettermi di arrivare fino a domani.

Ciao, L’Aquila, t’ho raccontato un po’ di psichedelia. I sogni sono liberi. Anche quando fanno male.
Soprattutto, quando fanno male. Niente di meglio dei sogni, per confrontarsi con la realtà.

27 ottobre 2017

Oggi, è un giorno importante, per me.

Il 27 ottobre 1987, trenta anni fa, io sono arrivato a L’Aquila, dove non ero mai stato prima.
Arrivai intorno alle sette del mattino. Col treno, da Lecce.
Avevo 23 anni, e arrivavo a L’Aquila, perché mi ci aveva mandato il Ministero della Difesa, per svolgere il mio Servizio Civile, come Obiettore di Coscienza, al Servizio Militare di Leva. Gli Obiettori di Coscienza, per punizione, facevano venti mesi di servizio, invece dei dodici, di chi accettava di andare in caserma.
La CGIL di Lecce, mi aveva, prima, assicurato che avrebbe stipulato una Convenzione col Ministero, per poter accogliere Obiettori di Coscienza. Ma, siccome ero iscritto al PCI, allora, la mia presenza, persino da volontario, avrebbe squilibrato le “componenti” interne al Sindacato. E quindi non fecero nulla.
La Camera del Lavoro di L’Aquila, era una delle due sedi, in tutta Italia, che avevano fatto la Convenzione col Ministero. Per questo, avrei trascorso qui, i futuri venti mesi della mia vita, avendo frequentato, prima, solo da studente, la sede sindacale, per ciclostilare i volantini delle Manifestazioni che contribuivo ad organizzare.

Su una parete, in alto, nell’atrio della Stazione, c’era una riproduzione, in bianco e nero, scolorita dal tempo, di un quadro di Teofilo Patini. Una possente aquila, minacciava un branco di pecore; il pastore, agitava il suo bastone, impotente, contro la natura e la sua crudeltà necessaria.
La stazione aveva delle vecchie panche di legno, e una biglietteria, piccola. Ero abituato, ai viaggi in treno. A stazioni grandi. E quella stazione, mi parve minuscola, marginale, come una delle stazione di paese, lungo la tratta Lecce-Gallipoli, delle Ferrovie Sud-Est, che conoscevo bene.
Per far colazione entrai nel bar interno alla stazione. A fianco a me, un uomo, mentre io bevevo il mio cappuccino, ordinò uno “stravecchio”. L’odore di alcool, forte, mi sorprese. E mi veniva un po’ da ridere, pensando a quando avrei raccontato una cosa così.
Era molto diverso, il piazzale della Stazione, da come è oggi. Era spoglio. Non c’erano rotonde, o spazio di parcheggi. Le mura antiche della città, erano annerite dallo smog. Non c’erano, tutte le costruzioni che ci sono oggi. La Stazione era “a valle”, e la città, “a monte”.
Presi un autobus, fino alla Fontana Luminosa, ed entrai, nella sede della CGIL di L’Aquila.

La prima persona che mi vide, mi disse di prendere la “callarella”, per andare a sgombrare un archivio in cantina. Io, neanche sapevo cosa fosse, una “callarella”.
Andavo a mangiare all’”Angolo degli Scardassieri”, pagato dalla CGIL, per un pasto al giorno. E vivevo in una casa, vicino alla stazione affittata abitualmente dalla CGIL come foresteria. Per il resto, mi arrangiavo con le 330 lire al giorno della diaria da militare, e i soldi che mi mandavano da casa papà e mamma.
All’”Angolo degli Scardassieri”, mi guardavano un po’ male, perché non sapevano bene cosa darmi da mangiare, visto che ero vegetariano. Ancora oggi, non mangio carne, il pesce, invece, ho ricominciato. Sul muro di una delle sale, c’era un enorme quadro, di un importantissimo pittore italiano contemporaneo, raffigurante un rastrellamento di nazisti, durante la guerra, e la ribellione del popolo a quella violenza, si dice realizzato sul retro di un bandone utilizzato come parete in uno stand del Festival dell’Unità. Chi sa dove è finito, quel quadro. Che dovrebbe essere patrimonio della città. E non privato.

Ho fatto il Sindacalista da subito, in realtà.
Creai il Centro Informazione Disoccupati. Poi, entrai nella Segreteria FIOM-CGIL. Mi venne affidata la fabbrica OPTIMES, come prima esperienza. Di quella vertenza, scrisse il giornale “Rinascita”, rivista settimanale del PCI.
Quando finii il Servizio Civile, a giugno del 1989, secondo il locale PCI, cui nel frattempo avevo trasferito la mia iscrizione, io avrei potuto andare a lavorare alla Coldiretti: funzionava così, allora, e, purtroppo, ancora oggi, l’influenza della politica, resta troppo grande.
Dissi, all’allora Segretario della CGIL, che mi sembrava una stupidaggine, buttar via quasi due anni di esperienza e di lavoro. Che non avevo nulla da chiedere alla CGIL, e me ne sarei tornato al paesello, se non ci fosse stata opportunità di continuare a fare quel che stavo facendo. Nel frattempo, alla CGIL di Lecce, si erano svegliati, e mi chiedevano se fossi interessato ad andare a lavorare lì, per la FIOM. E una persona che avevo conosciuto in CGIL Nazionale, e che si occupava di mercato del lavoro, mi chiese se avessi voluto collaborare con la CGIL Puglia, a Bari, in quel settore.
Restai a fare il volontario in CGIL a L’Aquila, per altri sei mesi. Scelsi L’Aquila.
E, quando si crearono le condizioni, il primo gennaio 1990, venni assunto.

Questi trenta anni, sono stati certamente, i più importanti della mia vita. E l’hanno cambiata, la mia vita.
Li ho vissuti, in una posizione di assoluto privilegio. Ho avuto la fortuna di essere retribuito, per fare qualcosa che avevo imparato ad amare. Ho cercato di meritarmelo.

Ho attraversato, a L’Aquila, momenti fondamentali, della storia del nostro Paese, e del mondo. La caduta del Muro di Berlino. L’attentato alle Torri Gemelle. La guerra permanente in Medio Oriente. L’emergere della Cina. L’avvio di imponenti flussi migratori, tra Nord, e Sud del mondo. La finanziarizzazione dell’economia. Le tecnologie informatiche hanno cambiato il pianeta.
La scomparsa della politica italiana, che aveva governato, ininterrottamente, dal 1946, al 1993. La strategia stragista della Mafia. L’emergere di nuovi equilibri politici, con Berlusconi; le ripetute tentazioni autoritarie. Le irrisolte, ancora, tensioni istituzionali, generate dalla incapacità ad intervenire organicamente, e coerentemente con i suoi Principi Fondamentali, sulla Costituzione della Repubblica.

Ho vissuto a L’Aquila, il tramonto della stagione delle Partecipazioni Statali, governandone i disastri occupazionali. Ho avuto responsabilità politiche provinciali e regionali. Fatto parte di Direttivi nazionali del Sindacato.
E ho vissuto il Terremoto, a L’Aquila.

Quando andò via da L’Aquila, il Prefetto Gabrielli, venne a Murata Gigotti, il campo organizzato anche dalla CGIL, a salutare Delegati e Lavoratori della CGIL, e ci ringraziò, in particolare per il lavoro che avevamo svolto, davanti a lui, in tre vertenze: quella dell’Acqua Santa Croce di Canistro, che dovetti gestire nei giorni del sisma, con il licenziamento per rappresaglia di tutto il personale, perchè si era fermato, per mezzora, in fabbrica, in occasione del funerale delle Vittime del Terremoto. Dopo giorni e giorni di lotta e presidio ai cancelli della fabbrica, obbligammo il padrone a riassumere tutti. Quello stesso padrone, che non paga gli stipendi dei suoi Lavoratori, ma trova i capitali necessari, per comprare, dopo il sisma, il Palazzo delle Poste in Piazza Duomo a L’Aquila. Ogni tanto mi chiedo, se qualcuno, a L’Aquila, si ponga seriamente il problema dell’infiltrazione dell’economia inquinata, in città.
L’altra vertenza, per cui Gabrielli ci ringraziava, era quella della Transcom, che aveva licenziato tutti, subito dopo il Terremoto, gestita in perfetta solitudine da una nostra Delegata, che dentro la CGIL gode di pessima stampa, e che riuscì invece a parare i colpi della perdita occupazionale, con l’insediamento sul territorio di un altro Call Center.
E infine, per la gestione, capace di prevenire problemi di ordine pubblico, nelle vicende dell’ex Polo Elettronico.

Dal 2011, ho smesso, di esercitare un ruolo di rappresentanza politica, nel Sindacato. Ora lavoro, nel Patronato. E’ accaduto, perché sono stato sconfitto. Perché io avevo un’altra idea, di come il Sindacato avrebbe dovuto affrontare il post sisma della nostra città. E, da allora, ho ritenuto che il mio apporto politico all’Organizzazione, fosse inutile.
Avevo ragione.
La CGIL è andata avanti senza di me, e non è accaduto nulla di stravolgente.
Ho sempre pensato che il danno più grande fatto alla città, fosse stata la scelta politica iniziale, generalizzata, ( necessaria, ma forse da costruire in altre forme ), di puntare tutto sulla ricostruzione della proprietà privata, da finanziare al 100%; come se una somma di scelte private, fondasse una città.
Mi sono anche candidato alle ultime Elezioni Amministrative, senza risultare eletto. Era una scelta vera, la mia, quella di provare ad impegnarmi, in una nuova forma, per la città, ma gli aquilani hanno scelto altro, e io devo prenderne atto.

Scelgo oggi, per uscire da Facebook. E’ una data simbolica, per me. E chiudo un capitolo della mia vita.

Mi iscrissi a Facebook, immediatamente dopo la fine del mio impegno politico in CGIL. Volevo uno spazio di libertà, per me. Un luogo, dove, liberamente, potessi esprimere le mie opinioni, sulle cose della città, e del mondo. Non avevo, e non ho più, luoghi collettivi dove farlo.
In questi anni, ho anche vissuto la crisi, e la trasformazione della Sinistra. Ho sempre guardato con rispetto, a tutte le articolazioni, che in questi anni, hanno provato ad organizzarsi. Non ho mai insultato nessuno. Con qualcuno ho provato a fare dei tratti di strada insieme. Ma mi sono dovuto ritrarre, sempre, sino ad ora. Per dissenso politico, ma spesso, lo confesso, per disgusto nei confronti dei comportamenti concreti. Nazionali, e, soprattutto, locali. Ma forse, sono solo sbagliato io.
Temo che la sconfitta, alle recenti Elezioni Comunali, non abbia prodotto il necessario ripensamento, a L’Aquila, nelle azioni, nelle elaborazioni, e, soprattutto, nella scelta dei gruppi dirigenti.
E, ancora più, temo, che, dopo cinque anni di governo nazionale, il Centro Sinistra, alle prossime Elezioni Politiche, sarà travolto, per le politiche concrete, per il materiale peggioramento delle condizioni delle persone, e per le forzature istituzionali, a più riprese prodotte. Per le irrisolte contraddizioni, soprattutto in tema di Immigrazione. Per la debolezza drammatica, sul tema dei Diritti Civili, ma, soprattutto, dell’Eguaglianza e della Giustizia Sociale. E temo che scompaia ogni spazio a Sinistra. Uno spazio divenuto asfittico, e privo di generosità.
E’ responsabilità, anche, delle politiche di questi ultimi 25 anni, l’emergere oggi, del pericolo fascista.
Io stesso, se le condizioni resteranno quelle di oggi, mi troverò di fronte, per la prima volta nella mia vita, alla concreta prospettiva dell’astensione. Naturalmente, questa è solo la mia opinione. Ed io, spero di sbagliarmi.

Ho scritto tanto, in questi anni, su Facebook.
Cose interessanti, forse, e cose meno interessanti. Cose che hanno ricevuto tanto consenso, e cose che ne hanno ricevuto pochissimo.
Ma, la verità, è che tutto quel che ho scritto, non ha inciso per nulla. Magari, semplicemente, perché non era significativo.
Col tempo, mi sono accorto che quel che scrivevo, svolgeva, per me, una funzione illusorio-consolatoria. L’illusione di dire qualcosa che avesse un peso. La consolazione, che, il solo fatto di averlo scritto su uno strumento, potenzialmente globale, potesse supplire al difficile e quotidiano confronto con la realtà.

Su Facebook, io sono solo un mercato, una merce che serve a fornire le informazioni necessarie a imprese di vario tipo, per farmi diventare il bersaglio delle loro proposte di acquisto.
E sperimento, su di me, la dipendenza da gratificazione altrui. Il significato della mia vita, progressivamente, diventa pari a quanti contatti virtuali io abbia; a quanto consenso virtuale riceva una cosa che scrivo.
A quanto gradimento virtuale ottenga una foto del mio volto.
Ho sempre cercato, d’aver ben chiari i limiti che, in questo senso, lo strumento Facebook, possiede, e le ricadute stranianti che produce. Ma è indubitabile, che il mondo che Facebook crea, sia un costrutto ipnotico.
Un luogo dal quale posso espellere i conflitti, e le persone che, per una ragione o un’altra non mi aggradino. E che, tende a sostituirsi alla realtà. Perché più confortevole, modellabile sulle mie preferenze, apparentemente; spesso più divertente, colorato, allegro, della vita quotidiana.
Aiuta a confermare sé stessi e le proprie opinioni, continuamente, fino a sovrapporre le costruzioni mentali alla realtà. Non aiuta certo lo sviluppo di senso critico.
Gioca, e vince, col nostro narcisismo, che accarezza, suadente. Ma anche con la nostra sana voglia di divertimento.
Facebook, può sostituirsi, tranquillamente, alla informazione cosiddetta “mainstream”, o tradizionale. Giornali e televisione, esistono solo in quanto riprodotti su Facebook, filtrati dalle preferenze delle persone con le quali sono in contatto. In un continuo gioco di rimandi che tiene insieme pregiatissime indicazioni scientifiche, bellissime suggestioni personali, e orrenda disinformazione manipolatoria, volgare, spesso fascista, sessista e razzista.
Facebook, fa cultura, nel senso più ampio del termine. Costruisce senso comune. E’ pre-politica, in questo senso, ma più profonda. Sedimenta convinzioni, comportamenti. Alimenta, e si alimenta di parole suggestive, rimbalza continuamente non quello che sia più vero, ma quello che abbia più consenso.
E, troppo spesso, ha più consenso quello che è più semplificatorio ( non semplice: la semplicità spesso è una altissima virtù ); quello che più parla ad istinti primordiali; quello che alimenta una logica di pura contrapposizione. C’è un intero Movimento Politico, candidato alla guida del Paese, che usa, coscientemente, e condiziona, coscientemente, questo generalizzato sentimento di rifiuto, e di paura sociale.

Ed ogni cosa, comunque, ha un tempo. Dentro Facebook. Certe volte dura un’ora. Altre volte tre giorni; in casi assolutamente clamorosi, dura una settimana. E poi si dissolve. Dal diario di Facebook, ma, soprattutto, dalla nostra memoria. Totalmente a prescindere da quanto sia importante il tema di cui si parli.

E noi ne siamo complici, semplicemente. Per quanto senso critico possiamo esercitare, ne siamo complici. Ne veniamo assorbiti e fagocitati. Pur se proviamo a mantenere aperti altri canali, altre relazioni.
Siamo dentro il sistema, e ci stiamo contenti.
Sappiamo che, la bistecca che addentiamo, e che ci convinciamo sia saporita e sugosa, è solo una illusione informatica. Ma la vogliamo, e ci piace così.
Matrix ha vinto, in fondo.

In verità, Facebook, mi ha anche permesso di entrare in contatto, o di mantenere un contatto, con tantissime belle persone.
Con i loro pensieri. I loro stimoli intellettuali. Le loro indicazioni preziose di lettura, o i richiami al cinema, alla musica. Con le emozioni che sono state capaci di regalarmi.
Con molti ho avuto la possibilità di confrontarmi di persona. Arricchendomi.

In molti casi, sono rimasto deluso, dal comportamento delle persone.
E forse, in molti casi, avrò deluso io. O colpito la sensibilità delle persone. Me ne scuso.

Lascerò il mio profilo aperto. Smetterò di aggiornarlo, o di guardarlo. Mi piace questa idea, di un relitto lasciato scorrere nel mare di Internet. Mi fa un po’ sorridere, questa presunzione di diventare, fra trent’anni, una delle misteriose presenze fantasmatiche, raccontate da William Gibson in “ Giù nel Cyberspazio”.
Se dovesse essere utile, per qualcuno, come spesso lo è stato in questi anni, per questioni riguardanti il mio lavoro, il canale di Messenger, resterà aperto. Sarò felice se, anche in questo modo, potrò contribuire a far qualcosa per chi ne abbia la necessità.

Me ne vado, perché voglio essere presente nella realtà delle persone.
Perché desidero che Facebook non sostituisca i contatti umani.
Perché voglio studiare.
Perché voglio smettere di illudermi che qualunque cosa io dica, sia importante, mentre invece, non conta nulla.
Me ne vado, perché voglio divertirmi a conoscere le persone davanti ad un caffè, o ad un bicchiere di vino, e non dietro uno schermo di vetro.

E voglio ringraziare. Tutte, e tutti. Siete stati importanti per me, e lo resterete.
L’Aquila è piccola, e, sono certo che c’incontreremo.

Ciao.

Articoli pubblicati su vari giornali, cartacei e on line

22/4/2017

Il Secolo Breve, iniziò a finire prima del 1989. Dieci anni prima. Quando l’Unione Sovietica, in un accesso di follia imperialistica, diede inizio all’invasione dell’Afghanistan. Proprio nel 1989, poi, l’Unione Sovietica completò il suo ritiro dall’Afghanistan. Ma, in quei dieci anni, era successo qualcosa che sta dimostrando di essere in grado di sostituire il conflitto tra Est e Ovest del mondo che caratterizzò il secondo Dopoguerra, insieme ad un processo ambiguo, irrisolto e comunque fondato sulla diseguaglianza, di de-colonizzazione.

Gli USA, e i loro alleati, allora puntarono, con aiuti finanziari, militari e logistici, per contrastare l’URSS, su una guerriglia che faceva dell’Islam, il collante ideologico per un disegno, che non era solo di liberazione dell’Afghanistan, in realtà, ma di egemonia politica globale. Quella guerriglia, a partire da quel momento, e poi nel 1992, con la dissoluzione statuale dell’ex-URSS, si fece Stato, in Afghanistan, e precisamente Stato Islamico, con il governo dei cosiddetti Talebani. Che, rapidamente, instaurarono un regime dittatoriale teocratico, caratterizzato dalla assenza di ogni libertà civile, e da uno stato di permanente e pesantissima sottomissione delle donne.

La mattina del 17 gennaio 1991, prima delle sei del mattino, io, insieme ad altri della sola CGIL ( di una parte della CGIL, per essere precisi ), ero davanti ai cancelli dell’ex-Italtel, a fare un presidio e volantinaggio, perché quel giorno vi fosse Sciopero. La notte, erano scattati i primi bombardamenti che una coalizione di Stati, tra cui l’Italia, guidata dagli USA di Bush Senior, effettuò su Bagdad e altri obiettivi in Iraq, a seguito della invasione del Kuwait, da parte di Saddam Hussein. Alcuni, si opponevano a quella guerra. La CGIL, ufficialmente, non potè dichiarare lo Sciopero Generale, contro la partecipazione dell’Italia a quel conflitto. Io assistetti, al Direttivo Nazionale della CGIL, in cui Ottaviano Del Turco, all’epoca Segretario Generale Aggiunto della CGIL Nazionale, di fatto, minacciò la scissione del Sindacato, se si fosse giunti a proclamare lo Sciopero nazionale in corrispondenza con l’avvio del conflitto. Una parte della CGIL non si rassegnò, e provò a mobilitarsi egualmente in modo articolato sul territorio. Ottenendo un primo successo, il giorno dopo l’apertura del conflitto. In molte fabbriche i Lavoratori fecero effettivamente Sciopero: alla ex-Italtel a L’Aquila, ad esempio, lo Sciopero fu pressochè totale. Ma, poi, non vi fu un movimento capace di avere un respiro nazionale, e globale, per provare a dare prospettive diverse. Una idea di Pace giusta per il mondo.

Ricordo invece, di quei giorni, nitidamente, la fila delle persone nei supermercati. Si diffuse una sorta di psicosi. Le persone avevano paura che la guerra portasse via il cibo. Dalla televisione, in diretta, tramite la CNN, ciascun cittadino del mondo, poteva sentire, e vedere, i proiettili della contraerea irachena, illuminare la notte. Il pilota italiano, e aquilano, di un aereo da guerra, fu mostrato prigioniero e tumefatto in televisione, a dichiarare il proprio errore, per aver accettato di partecipare a quella guerra.

Saddam Hussein, capo di un regime dittatoriale, ma laico, nella morsa di una sproporzione di forze impressionante, non esitò a ricorrere all’appello alla religione comune, l’Islam, nel tentativo di mobilitare in suo favore altri Paesi Arabi, e i popoli di quei Paesi, anche contro le loro classi dirigenti. Restando solo, però. Ma contribuendo a costruire una idea di contrapposizione, tra Islam, e Occidente.

E’ in questo volgere di anni, che trionfa l’economia di mercato. Ma, soprattutto, che trionfa un’idea finanziaria e monetarista, dell’economia di mercato, che privata di un modello globale alternativo, quello della ex-Unione Sovietica, inizia a ritenere del tutto insostenibili anche i costi del compromesso socialdemocratico e dello Stato Sociale. E si globalizza, marginalizzando e abbandonando a sé stessi, tanti Paesi ritenuti ormai inutili perché troppo poveri, perché incapaci di generare fatturati interessanti.

Il conflitto israelo-palestinese attraversò fasi alterne, di rivolte di massa, di oppressione, e di disperazione e attentati sanguinosi e indiscriminati. L’Occidente, e Israele, delegittimarono in ogni modo Yasser Arafat, leader laico del popolo palestinese, sposato con una cristiana. E, anche in Palestina, passando per forme di mutuo soccorso contro la miseria e la disoccupazione, si affermarono formazioni politico-militari che fanno ancora oggi dell’Islam, il loro collante ideologico principale, a partire da Hamas.

Le prime elezioni multipartitiche, in Algeria, nel 1991, furono vinte dal Fronte Islamico di Salvezza. I militari algerini, non accettarono il risultato elettorale, e un loro golpe cancellò il voto popolare, dando il via ad una stagione di orrendi massacri di civili. Realizzati da gruppi islamici, ma in un rapporto estremamente ambiguo con i militari al potere.

Una situazione simile, sia pure con minori eccessi di violenza, avvenne in Egitto, con i Fratelli Musulmani, che, più volte, vennero privati dei loro risultati elettorali, e messi anche fuori legge.

L’Islam, iniziò a divenire il paravento, strumentale, ma anche il collante identitario, che tiene insieme conflitti e soggetti tra loro diversissimi e spesso rivali. In un contesto economico di durissima ristrutturazione capitalistica, nel mondo, e negli stessi Stati Occidentali, divenuti nel frattempo, con la caduta del Muro di Berlino, oggetto di flussi migratori sempre più massicci e caotici, di persone che sognano un futuro diverso, per sé, e per i propri figli. Prese il via una pesante ridefinizione della divisione internazionale del lavoro, de-localizzando quasi tutte le attività puramente manifatturiere, ma non solo, in paesi con costi del lavoro e diritti sindacali incomparabili con quelli dei lavoratori europei e anche statunitensi. Responsabili della disoccupazione di massa divennero i poveri del Sud-Est asiatico, e dell’Est europeo, e non il capitale multinazionale che aveva deciso di frammentare i processi produttivi e mettere l’accento sulla pura speculazione finanziaria, capace anche di mandare in fallimento, interi Stati Nazionali, come l’Argentina, o come rischiò l’Italia, nel 1992-93; la Cina iniziò ad entrare prepotentemente nel mercato mondiale, con il suo infinito esercito di lavoratori senza costi, avendo, a sua volta, represso nel sangue in piazza Tien An Men, i tentativi di democratizzazione del Paese. L’Italia inizia a conoscere, come fenomeno visibile, e enfatizzato dai media, gli albanesi, i polacchi, i senegalesi, i marocchini, i tunisini, i filippini, i nigeriani…

E iniziano ad esserci, quelli che cominciano a teorizzare una unità possibile e un comando unico, nel conflitto diffuso, articolato, sparso su tutto il globo, dalla Cecenia all’Indonesia, dal Sudan al Mali, all’India. Alcune correnti del pensiero islamico vogliono, coscientemente, imporre la propria egemonia, innanzi tutto all’interno del mondo islamico. Anche con la violenza. In ciascuno degli stati in cui l’Islam è presente come orientamento religioso. E in rapporto ambiguo, nascosto, e malato, con le elités al potere in molti degli Stati della penisola araba e anche del Corno d’Africa. Questa lotta per l’egemonia, attraversa trasversalmente anche la frattura storica nell’Islam, tra Sciiti, e Sunniti.

L’Occidente, in questi anni, continua a considerare propri alleati, stati arabi con regimi dittatoriali e teocratici, discriminatori nei confronti delle donne e di tutte le minoranze , e costruisce le proprie opzioni politiche e militari, sulla base esclusiva delle sue convenienze ( e delle convenienze delle sue imprese multinazionali ), soprattutto sul piano energetico. Continuano a restare inapplicate le decisioni dell’ONU sulla Palestina. La democrazia, i diritti civili, in larga parte del mondo continuano ad essere l’eccezione, e non la regola.

E quando l’Occidente, ha la possibilità di intervenire militarmente, e salvare, la minoranza musulmana nel conflitto serbo-bosniaco, nel cuore dell’Europa dei primi anni ’90, non lo fa, e non impedisce l’orrenda strage di Srebrenica del 1995, ai danni di migliaia di civili musulmani bosniaci, da parte dei cristianissimi soldati di Ratko Mladic.

Questi conflitti, questi rivolgimenti, avvengono sotto l’occhio delle telecamere. In larga parte. In un mondo dove gli spostamenti delle persone sono diventati sempre più facili. Dove le tecnologie informatiche, sempre più iniziano a diffondere globalmente messaggi e dottrine, in modo esponenzialmente più veloce e diffusivo rispetto ad ogni altra esperienza del passato. Le tecnologie dell’informazione iniziano ad essere l’infrastruttura globale necessaria, non solo ad una economia che travalica ogni confine statuale, ed anzi confligge con gli stati, imponendo loro sempre più pesanti limitazioni del potere, ma anche il veicolo con il quale, da una caverna dell’Afghanistan, l’ex alleato degli USA contro l’ex-Unione Sovietica, Osama Bin-Laden, lancia i suoi proclami di Guerra Santa contro il Satana occidentale. Incontrando orecchie attentissime ovunque.

E’ in questo magma di contraddizioni irrisolte, di errori, di sottovalutazioni, di furbizie, di cinismo ipocrita, di strumentalizzazioni continue; è in questo mondo di oppressioni e di sfruttamento, di polarizzazione della ricchezza e di diffusione della povertà, dove grandi multinazionali private posseggono quasi tutte le sementi per la coltivazione, determinano le politiche energetiche e le guerre degli stati; è qui, che si apre il grande inganno della seconda guerra del Golfo, dopo il trauma degli attentati negli Stati Uniti dell’undici settembre 2001.

Una operazione militare, costruita scientificamente sulla base di informazioni false, contro un nemico debole e indifendibile anche, sotto ogni profilo (il facile capro espiatorio Saddam Hussein ), determinata prevalentemente da ragioni di carattere geopolitico e di interesse sul petrolio iracheno, e che produce la disgregazione dell’entità statuale Iraq, artificialmente creata dopo la Prima Guerra Mondiale e posta allora sotto protettorato inglese, liberando schegge di conflitto in tutto il mondo. E un terrorismo che, ancora oggi, uccide centinaia di migliaia di civili iracheni.

Il tempo che intercorre tra l’invasione dell’Afghanistan, da parte dell’ex-Unione Sovietica, e l’invasione dell’Iraq, a caccia di fantomatiche armi di distruzioni di massa ( 1979-2003 )è il brodo di coltura, in cui fermenta una nuova specie di conflitto. Probabilmente destinata a caratterizzare un tempo lungo del nostro futuro. Il conflitto armato che oppone soggetti privati transnazionali, ad entità statuali. E’ una tipologia di conflitto sostanzialmente nuova, nella storia umana. Che pure ha conosciuto movimenti di liberazione, o guerre civili, o colpi di stato, o forme varie di terrorismo, anche da parte della criminalità organizzata. E’ una “privatizzazione” del conflitto, come disse Hobsbawm, profeticamente, alla fine degli anni ’90 dello scorso secolo. Potremmo dire, visti anche gli ultimi avvenimenti sul suolo europeo, una “individualizzazione” del conflitto. Che appare essere addirittura fine a sé stesso; senza i tradizionali legami con ideologie e gruppi di riferimento, che appaiono sullo sfondo, costituendo una sorta di holding della rivendicazione, più che una struttura logistico-militare capace di ispirare, ed appoggiare, le azioni compiute in un disegno bellico organico e coerente.

Siamo noi, colpiti nei nostri Paesi, mentre nei Paesi del Medio Oriente, in prevalenza, la maggioranza assoluta delle vittime ( il cui numero assoluto è incomparabilmente superiore alle vittime “ occidentali “ ) professa la religione musulmana, a cercare, e immaginare, di comprendere una strategia complessiva. Dando a queste azioni, il crisma di una pianificazione di attacco al “modo di vita occidentale”, ai suoi diritti, alle sue libertà. Siamo noi, che abbiamo “bisogno”, per spiegare tanta inumanità, di collocare gli assassinii collettivi che avvengono in Europa, e nel mondo contro obiettivi “occidentali”, in una cornice che provi a darne conto razionalmente.

La disgregazione degli Stati di Siria ( ultimo avamposto di riferimento della Russia nello scacchiere del Medio-Oriente – ed anche per questo abbattuto -), ed Iraq, e poi della Libia; l’ambiguo comportamento della Turchia, in funzione anti-Curda, e degli stati arabi del Golfo, da sempre “alleati” dell’Occidente e finanziatori di fondamentalismo islamista, ha prodotto un nuovo modo della guerra. Un tentativo di nuova unità statuale, il cosiddetto Califfato, che dichiara guerra in ogni direzione. E che trova ascolto in Europa, prevalentemente, da parte di figli dell’Immigrazione.

Nell’era dei social network, della economia di mercato globalizzata e finanziarizzata; nel permanere di una gravissima crisi economica globale iniziata nel 2008, che genera ovunque disoccupazione, marginalizzazione e polarizzazione della ricchezza, diseguaglianze diffuse, la violenza armata non è più neanche conflitto, ma distruzione e auto-distruzione disperata, folle, irredimibile, senza mediazioni possibili. Assume quasi i contorni di uno scontro globale che gli adoratori della morte portano nelle nostre città, e, soprattutto, in interi territori, dall’Iraq, alla Siria, alla Libia, alla Somalia, alla Nigeria.

La vera posta in gioco, su un piano politico-culturale, prima che si apra la prospettiva di una guerra totale e globale, è quella di impedire che si saldino due fronti contrapposti: noi contro loro, e loro contro noi. Che è un obiettivo presente in entrambe i fronti “in formazione”. I confini, tra “noi” , e “loro”, sono in realtà labilissimi.

Mentre invece, chi, lucidamente, punta allo scontro, vorrebbe fossero semplici e nitidi, confini di “razza”, e di religione.

All’interno dei paesi europei, ma anche negli USA, forze molto potenti cercano di compiere una operazione culturale estremamente pericolosa. Quella dell’identificazione tra immigrazione e terrorismo. E, ad accrescere la pericolosità di questa operazione culturale, sociale prima ancora che politica, è la coincidenza, fisica persino, tra chi stabilisce questa equazione folle e quelli che sono i principali responsabili dell’attuale disastro economico globalizzato: liberisti selvaggi, ortodossi custodi dei pareggi di bilancio e di politiche monetarie restrittive, cultori della diseguaglianza spacciata per meritocrazia. Saccheggiatori delle risorse energetiche, privatizzatori convinti. Sono loro che ci condurranno sull’orlo del baratro dell’annientamento totale, per mascherare il fallimento delle loro false promesse di un mercato che, da solo, sarebbe capace di diffondere il benessere, annientando gli Stati e l’intervento pubblico nell’economia, depredando e distruggendo i Beni Comuni, a partire dall’Ambiente.

L’Europa, la parte migliore e più generosa delle sue popolazioni, dopo la distruzione del Secondo Conflitto Mondiale, ha costruito società aperte, solidali, per quanto possibile. Oggi, pesantemente sotto scacco dall’ortodossia economica che peggiora le condizioni materiali dei suoi cittadini.

Una società aperta, non è, e non può essere, strutturalmente, del tutto difendibile da attacchi indiscriminati. Dobbiamo saperlo. Purtroppo. Ne abbiamo testimonianza dolorosamente frequente in questi tempi. A meno di non mutare la propria natura, in una società militarizzata.

Chi, in questi giorni di dolore e disorientamento, evoca l’esempio di Israele, come quello di una società “democratica”, che, quotidianamente, affronta i costi umani ed economici per tentare di avere una sicurezza reale per i propri cittadini, omette, in modo scandalosamente colpevole, di ricordare che tra i prezzi che quella società paga, per questo obiettivo, c’è il prezzo dell’apartheid verso il popolo palestinese, e il prezzo dell’essere una potenza nucleare che costruisce muri, per separare, e porta via terre ed acqua. Senza avviare alcun processo di Pace concreto.

La militarizzazione della società, ha un prezzo. Quello della Libertà.

Io penso che l’Europa non debba chiedere a sé stessa di somigliare ad Israele, o agli USA vagheggiati da Donald Trump, in cui ognuno possa liberamente armarsi, e immaginare di poter separare il proprio destino da quello del resto del mondo.

Mi permetto di scrivere queste righe, sapendo di correre il rischio della presunzione, perché credo che sia necessario, oggi più che mai, ragionare. Articolare, distinguere. Ascoltare. E combattere.

Combattere contro chi, per pura scena mediatica, per semplificazione strumentale, per creare un clima favorevole a provvedimenti restrittivi della Libertà, per un consenso elettorale miserabile, continua a dire che “siamo in guerra”.

Abbiamo memoria, di cosa fu, la Seconda Guerra Mondiale ?

L’orrenda contabilità di morti, feriti, deportati; delle distruzioni.

Nonostante il dolore, e anche la rabbia, noi non siamo in guerra. Noi siamo dentro uno scontro globale, che non ha confini riconoscibili, che vuole, come obiettivo, sostituire la paura alla ragione. Che vuole creare le condizioni per una separazione tra culture e persone, armandole le une contro le altre, in un ciclo di risentimento infinito, in cui ci si perda dietro la ricerca delle colpe mentre ci si continua ad uccidere.

Io non posso permettermi di dire di avere ricette capaci di risolvere problemi che, probabilmente, segneranno il mondo nei prossimi anni. Però, mentre ogni azione di contrasto possibile al terrorismo va posta in essere, io credo si debba anche intervenire per togliere ogni alimento alle macchine di morte.

Occorre intervenire sui flussi finanziari. E su una globalizzazione della finanza che ha prodotto e produce solo danni. Occorre liberalizzare gli stupefacenti che sono un formidabile elemento di finanziamento del terrorismo e del malaffare. Occorre una politica energetica che superi la dipendenza dal petrolio. Occorre una ridefinizione delle relazioni internazionali che metta al centro i principi della reciprocità nei diritti e nelle tutele. E isoli dittature e teocrazie. Occorre creare uno Stato Palestinese, e anche uno Curdo. Occorre una politica che smetta di depredare le risorse dei Paesi poveri, e li metta realmente in condizione di dare un futuro ai propri cittadini. A partire dall’istruzione e dalla parità tra uomini e donne. Occorre una politica che governi i flussi migratori, anche in nome di un riconoscimento vero dei valori che informano la vita civile dei Paesi di accoglienza. In Europa, e nei cosiddetti Paesi occidentali, le politiche devono virare nel segno dell’Eguaglianza.

Io penso che sia ora, in questo tempo, che ancora possiamo dare una possibilità alla Pace e alla Giustizia. E sconfiggere, anche con i nostri comportamenti quotidiani, gli adoratori della morte, e i fomentatori vili dell’oppressione e della diseguaglianza.

Infine, credo sia giusto porsi la questione anche, in questo quadro, di cosa un Ente Locale possa concretamente compiere, in funzione di una idea di convivenza, di integrazione, di scambio, tra culture diverse.

Occorre innanzitutto riconoscere che esistono, dei conflitti. Nella mia esperienza di lavoro, io mi sono sentito dire da un muratore macedone, che bisognava impedire, l’afflusso di nuovi migranti dall’Africa, perché ruberebbero il lavoro, che già è scarso.

Il potenziale conflitto sul lavoro, si disarticola, solo se le regole del lavoro vengono fatte applicare ovunque. Se non si permette, negli appalti, nell’assenza di controlli, il lavoro nero, strozzando al massimo ribasso le soglie d’accesso; se, per quanto possibile, la competizione tra imprese, si sposta sul piano della qualità, e non su quello dei costi. E’ inammissibile, che nei cantieri della ricostruzione il personale che lavora, sia, quasi nella sua totalità, inquadrato come “manovale”. Attraverso questa strada, si sfrutta illecitamente il lavoro delle persone, dequalificando le professionalità. Si tengono bassi illecitamente i costi, aumentando i margini di profitto, e costruendo conflitti tra le persone, che possono divenire anche conflitti tra etnie. Così vale anche per la pratica diffusa, e ricattatoria, cui deve sottostare chi è più debole, e che, per questo, diventa concorrenza sleale verso chi appaia più garantito, delle buste paga da lavoratori part-time, che invece lavorano a tempo pieno, con una parte del salario, erogata in nero, o con la pratica di buste paga firmate per importi, che, invece vengono versati in contanti, in forma ridotta, rispetto a quanto dichiarato.

Il Comune dovrebbe promuovere, in collaborazione con altri Enti ed Istituzioni, campagne di controllo delle regole del lavoro, anche negli orari diversi dei locali aperti la sera: l’applicazione eguale di regole nel lavoro, è uno degli elementi che previene il conflitto tra persone, ed etnie.

L’Educazione è il terreno privilegiato della integrazione e dello scambio culturale.

In ogni ordine e grado delle Scuole, dai Nidi, e fino alle Superiori, il Comune potrebbe promuovere programmi specifici di conoscenza reciproca, anche sul piano culinario, ad esempio. Puntando, in particolare, sull’educazione delle donne e delle bambine, sullo sport.

E’ sulla libertà delle donne, delle migranti, in particolare, che si gioca il processo di integrazione e di dialogo tra culture. Ed è qui, che andrebbero predisposti specifici programmi educativi, e di confronto.

Senza rinunciare alle nostre leggi, cui tutti e tutte devono conformarsi, e neppure alle nostre tradizioni, anche, che possono essere messe a confronto con le tradizioni di altre culture.

E, come per il lavoro, il Comune dovrebbe promuovere piani di intervento e di controllo, sul piano fiscale, per tutte quelle prestazioni di carattere sociale che possono essere erogate. La certezza della parità di diritti, e di doveri, è uno degli strumenti che previene il crearsi dei conflitti.

Così come il Comune deve impedire il formarsi di enclaves abitative a caratterizzazione etnica. Ma deve anzi promuovere la mescolanza delle persone e la convivenza pacifica, e l’uso di spazi comuni, soprattutto per i bambini e per i loro giochi.

Ad Avezzano, luogo di fortissima immigrazione, ho visto persone di religione islamica, recarsi in angoli nascosti della Città, e trovare lì un cartone sul quale inginocchiarsi, e una bottiglia d’acqua, per lavarsi simbolicamente le mani, e, per strada, pregare rivolti in direzione della Mecca.

L’isolamento produce conflitto. La degradazione nel praticare un culto, produce risentimento. Chiusura. E’ necessario immaginare un luogo di culto islamico a L’Aquila. Sottoposto alla nostra legislazione civile. E che possa favorire apertura. Dialogo interreligioso.

Nessuno distrugge, quel che impara ad amare.

1/9/2018

Lavoratrici, Lavoratori….

Inizio così, il mio intervento immaginario, al prossimo Congresso della CGIL. Non avrò, una sede, per esprimere la mia opinione: lo faccio scrivendo.

E scrivo il 1/9//2018. Quindi non sarò attuale; non avrò davanti gli ultimi sviluppi delle cose del mondo.

Magari la cronaca, successiva, s’incaricherà di smentire le mie parole.

Non ho iniziato, usando, come spesso si fa, la parola “Compagni“.

Scrive Wikipedia: “il compagno è un soggetto, un individuo come gli altri, ma un individuo che cerca di superare la propria individualità e cerca la propria realizzazione attraverso un progetto comune di tipo solidale e collettivistico.”

Non scorgo, da tempo, Solidarietà, o progetti comuni. A L’Aquila, poi, in special modo, dove esistono solo solidarietà tra consorterie di gruppi dirigenti, finalizzate esclusivamente alla tutela delle posizioni e carriere individuali, e suscettibili di mutarsi in acerrime avversioni, magari per meri motivi personali.

Per questo, scelgo di non disturbare parole importanti.

Non ho nostalgie, tuttavia. Credo anzi, che molte parole debbano essere re-inventate, o inventate, di sana pianta. Perché ci sono molte nuove realtà, che chiedono d’essere definite.

Ho letto le tesi congressuali della CGIL.

Mi sarebbe piaciuto un Congresso al contrario.

Qualcuno pensa davvero che, in un’ora di Assemblea ( e tutti sanno che le Assemblee iniziano sempre in ritardo, per consentire ai Lavoratori di giungere fino al luogo della riunione ), sia possibile effettuare tutti i passaggi previsti dai regolamenti, illustrare due tesi congressuali, avere un vero dibattito, e infine votare ?

Non lo pensa nessuno, in realtà.

Un Congresso costruito in modo tradizionale, non è un Congresso che punti ad una reale e consapevole partecipazione democratica delle Lavoratrici e dei Lavoratori, dei Pensionati, dei Precari e delle Disoccupate.

Io immagino un Congresso in cui le Assemblee dei luoghi di lavoro discutano liberamente dei problemi di quel luogo di lavoro, e di quelli più generali, e delle contraddizioni, che si vivono; e costruiscano dei loro documenti, che vengano portati alle istanze congressuali superiori. Quelli di Categoria, prima, che discutano le questioni specifiche dei luoghi di lavoro, del settore, le politiche contrattuali, quelle del welfare; e quelli Confederali, poi, che discutano le questioni del Territorio, ai vari livelli, facendo sintesi, dei documenti via via prodotti.

Fino alla sintesi finale, operata nella discussione dei Congressi Nazionali.

Forse la CGIL non si è accorta, che esiste oggi, nel mondo e in Italia, un serio problema che riguarda la Democrazia, e la tenuta degli Stati nazionali, in particolare quelli che, a partire dal Secondo Dopoguerra, hanno provato a tenere insieme la Democrazia, con il libero mercato, e i Diritti, di Lavoratori e Cittadini.

La Democrazia è posta radicalmente in questione.

La Democrazia, è attaccata dalla assenza di confini nelle scelte economiche e finanziarie di grandi conglomerati d’imprese, cui spesso le leggi sono subordinate anche sul piano fiscale, e le cui scelte sono divenute indiscutibili e inafferrabili, lasciando alle singole comunità, il solo compito di gestirne le conseguenze.

La Democrazia è attaccata dalla corsa mondiale al riarmo, anche atomico.

La Democrazia rischia di essere condizionata in modo fraudolento da un sistema di comunicazioni globale oligopolistico e terribilmente permeabile dalle informazioni false che costruiscono consensi pericolosi.

La Democrazia è praticata solo in una minoranza di Stati Nazionali, al di là delle forme che un governo faccia finta di assumere.

La Democrazia è attaccata dalle politiche economiche, e contro i diritti, che hanno prodotto diseguaglianze sempre crescenti, tra gli Stati, e all’interno degli Stati.

La Democrazia è in serio pericolo, per la terribile emergenza ambientale che il pianeta subisce, e cui nessuno vuol porre serio rimedio, ammesso sia ancora possibile.

La Democrazia è in pericolo, per la pratica di un terrorismo privatizzato e trans-nazionale, che s’intreccia con l’economia della grande criminalità organizzata, che reinveste nella “economia legale”, rendendone sempre più incerti i confini.

Scegliere, quindi, un percorso congressuale, che punti davvero sulla partecipazione democratica, avrebbe significato iniziare, da dove è possibile, un percorso in controtendenza, rispetto alla corrente della Storia, che sembra puntare decisamente sull’autoritarismo; e non condannarsi alla semplice declamazione, e all’impotenza.

Anche in Italia, la Democrazia è in crisi. Da oltre un trentennio. E quando le fasi di transizione si fanno troppo lunghe, il rischio che si precipiti dentro cambiamenti profondi di fase, è molto alto.

Le ragioni della crisi italiana, sono certo quelle di carattere generale, ma se ne uniscono di specifiche, nostre.

L’Italia, è sempre più divisa, tra Sud e Nord. E, quello che un tempo era Centro, scivola, verso le condizioni di disagio del Mezzogiorno. E questo, è particolarmente vero in Abruzzo.

Le politiche, sul Mercato del Lavoro, quelle economiche e industriali; le privatizzazioni, le mancate liberalizzazioni, i tagli continui alla Spesa Pubblica, in particolare quella degli Enti Locali, senza che questi ultimi abbiano saputo autoriformarsi, e un Federalismo sciatto e culturalmente subordinato agli egoismi della parte più forte del paese, hanno prodotto polarizzazioni drammatiche. Marginalizzazione e precarietà, soprattutto nel Sud, sono e sono state la cifra della vita italiana degli ultimi trenta anni, in particolare nelle aree urbane, nelle metropoli, nelle periferie.

L’invecchiamento della popolazione, si è riverberato sul sistema pensionistico italiano, a partire dalla “Riforma Dini”, delle Pensioni, appoggiata anche dalla CGIL, producendo una tutela, parziale, dei Lavoratori del Nord, o con carriere stabili, e rovesciando invece sui giovani, sul Sud, e sui meno protetti, i costi della riforma di un sistema pensionistico, che, semplicemente, imita ed amplifica, rendendole definitive, le diseguaglianze nel Mercato del Lavoro. E tutti gli interventi successivi in materia, hanno ulteriormente aggravato questa impostazione. Senza intervenire mai su nessun privilegio.

L’evasione, e l’elusione fiscale e contributiva ( aggravata quest’ultima da politiche attive del lavoro, che, in questi anni, sono state costruite solo sulla fiscalizzazione degli oneri contributivi, a favore delle imprese, che ne hanno approfittato, per cambiare il mix di manodopera, e mai, per creare occupazione aggiuntiva ), costituiscono la normalità della vita quotidiana, per tante imprese e professioni ( mentre resta in piedi un sistema inutilmente complesso e vessatorio per chi invece scelga di comportarsi correttamente ) ; e hanno sottratto, e sottraggono, strutturalmente alla comunità, risorse enormi, favorendo alcune categorie di cittadini a detrimento di altre, e riverberandosi in politiche di Stato Sociale, inique, insufficienti ed inefficienti, troppo spesso, nonostante l’impegno della maggioranza delle Lavoratrici e dei Lavoratori dei Settori del Pubblico Impiego.

L’assenza, negli ultimi trenta anni in particolare, di serie politiche industriali, e di sostegno alla Ricerca, unita alla scelta generalizzata, o quasi, del nostro sistema imprenditoriale, di volgere il proprio interesse alla rendita finanziaria e fondiaria, contribuendo anche per questa via alla cementificazione selvaggia e alla devastazione del territorio, hanno, nei fatti scarnificato il nostro sistema industriale, senza che i Settori dei Servizi, o dell’Agricoltura, abbiano saputo crescere e qualificarsi in misura sufficiente a sostituire l’occupazione perduta nell’industria.

Il nostro sistema produttivo resta stretto nella competizione, tra settori e servizi ad alta componente di innovazione tecnologica e di prodotto, e una impossibile competizione sul costo del lavoro, in settori tradizionali. Nasce anche da qui, la nostalgia per un sistema che, attraverso la svalutazione della lira, consentiva la sopravvivenza alle imprese che competevano solo sui fattori di costo, e non sugli investimenti. La risposta dei vari governi, compreso il presente governo, negli ultimi trenta anni, è stata quella di rendere il lavoro una merce vendibile al prezzo più basso, anche attraverso la cancellazione di tanti Diritti, e una merce il più possibile a basso contenuto di sapere, incentivando sempre le innovazioni di processo e l’automazione, e mai quelle di prodotto. Il Lavoratore, oggi, è sempre più sostituibile dalla scimmia.

L’Italia ha grandi estensioni territoriali interne; di collina o di montagna, che ne sono il cuore, anche artistico. Spesso interessate da profondi processi di abbandono; da rischi sismici e idrogeologici. Le aree interne del nostro Paese, negli ultimi trenta anni, si sono svuotate di funzioni, di cura del territorio e del paesaggio. Desertificate di Servizi e di Sanità. Trascurate dalla Scuola. C’è una questione delle “aree interne” d’Italia, da Nord a Sud, e nelle Isole. Che richiederebbe decisi interventi di promozione e di investimento, oltre che di essenziale ripristino delle emergenze naturali e di prevenzione dalle calamità naturali.

E c’è una questione, in Italia, delle Città.

Le Città sono divenute il regno dell’urbanistica contrattata. Lo strumento attraverso il quale si aggira ogni normativa vincolistica e regolatrice, devastando il territorio; lo strumento, attraverso il quale chi abbia più risorse finanziarie, contratta direttamente con la Pubblica Amministrazione, il soddisfacimento dei propri interessi, barattandoli per interessi generali, e rendendo, anche per questa via, il potere politico, schiavo di un potere economico solo speculativo e non produttivo. Le città come scenario economico, e non come patrimonio di identità comunitarie.

E’ un elenco parziale, delle criticità di fondo, che riguardano l’Italia, e che sono le ferite, che insieme a quelle inferte dalla criminalità organizzata, ancora rendono terribilmente fragile la struttura del nostro Stato nazionale, continuamente sottoposto a tentativi di strappi istituzionali e alla manomissione del dettato costituzionale.

Questo quadro, racconta, e spiega, in parte, l’esito delle ultime consultazioni elettorali, in Italia, che ci consegnano un quadro in cui si rafforza l’isolamento del Sindacato, rispetto alla politica, incrociandosi con una drammatica perdita di potere contrattuale nei luoghi di lavoro, derivante dalle continue crisi economiche, dai licenziamenti, dalle politiche che hanno cancellato il diritto ad essere reintegrati nel proprio luogo di lavoro, nel caso di licenziamenti ingiusti, dalle politiche che hanno reso l’ingresso nel mondo del lavoro, un calvario di precarietà potenzialmente infinito.

La CGIL, dal canto suo, non sembra porsi sul crinale delle contraddizioni in corso.

Sembra anzi essere rimasta ferma ad una organizzazione modellata su un sistema produttivo fordista, in larga parte ormai scomparso.

Non si è scelto, organizzativamente, di puntare a rappresentare davvero tutta l’area della precarietà, della sotto-occupazione, del lavoro schiavizzato. Si è proseguito nel rappresentare, pressochè esclusivamente, le sole aree, che sempre più si riducono, ancora parzialmente tutelate da leggi e contratti. Non vi è stata generosità nella contrattazione e nella pratica quotidiana; non vi è stato nessun tentativo di ricucitura delle condizioni concrete delle persone e della solidarietà, a partire dalle situazioni che emergono ogni giorno, nelle stanze del Patronato, o degli Uffici Vertenze.

In questo senso, è mancata totalmente una dimensione confederale della CGIL.

E questo, peserà, nel futuro. Perché chi sarà riuscito ad entrare nel mondo del lavoro in modo stabile, lo dovrà solo a sé stesso, o a sé stessa; non avrà avuto nessuno, al suo fianco, quando era più esposto.

Non a caso, ad essere sotto attacco, non è il Sindacato dei luoghi di lavoro, che, stretto in un continuo ricatto occupazionale, è sempre chiamato a mediare il peggioramento dei dati occupazionali e delle condizioni normative e salariali; ma il Sindacato Soggetto Politico, quello che dovrebbe tenere insieme coerenze e soggetti sociali, in nome di un complessivo progetto di avanzamento dei Diritti, delle condizioni materiali e delle possibilità per i Lavoratori di partecipare alla vita del Paese.

Occorrerebbe esser consapevoli della assoluta necessità di allargare il proprio orizzonte. L’unica dimensione credibile, oggi, per la difesa dei diritti di cittadinanza, e di quelli sul lavoro, è una dimensione europea. Sapendo che è proprio l’Europa, oggi, nel mondo, a subire una guerra. Si tratta di una guerra a bassa intensità. Per ora praticata con gli strumenti della pressione economica, politica e con il ricatto delle materie prime, in campo energetico soprattutto.

L’Europa è il mercato più grande, e più ricco del mondo; il luogo in cui, a partire dal secondo Dopoguerra, più radicalmente, si è sperimentata la pratica del compromesso Socialdemocratico. Che, oggi, gli Stati Uniti vogliono spazzare via; che la Russia intende sottomettere e condizionare, attraverso l’uso delle armi ai suoi confini, della falsa informazione e delle risorse energetiche; che la Cina vuole penetrare con il suo immenso esercito di riserva di manodopera e con la sua enorme liquidità disponibile.

Dal canto suo, l’Europa, si è attardata e si attarda in una antistorica chiusura nazionalistica, dei suoi singoli Stati; ha passivamente subito la dolorosa scelta della Gran Bretagna di uscire dall’Unione; ha sempre evitato una discussione realmente democratica per darsi un assetto federalista, che mettesse insieme i Bilanci, la legislazione sociale, fiscale e del lavoro, le Forze della Difesa, anche in funzione di un’unica politica estera.

Oggi, l’Europa paga per intero il prezzo della sua illusione di unificare solo le pratiche commerciali e bilancistiche, in un’ottica restrittiva e monetarista, mantenendo confini nazionali sempre più sottoposti a pressioni migratorie, che la condanna al perpetuarsi delle proprie diseguaglianze ed egoismi interni, e a una debolezza internazionale che può produrne la totale disgregazione, da un momento all’altro. Così come la sua fine, come spazio politico e di cittadinanza comune, può essere prodotta dall’illusione che, rinserrarsi dentro angusti confini nazionali, difenda dalle distorsioni che una economia totalmente sregolata e svincolata da ogni controllo di legittimità ha prodotto, dalla caduta del Muro di Berlino in poi.

I più accesi fautori del libero mercato, di una globalizzazione finanziaria ed economica senza regole, oggi si pongono a difesa di tutti coloro che le politiche, da essi stessi rese egemoni, hanno progressivamente impoverito negli ultimi trenta anni, indicando il nemico, all’esterno, identificato con i migranti, e all’interno, identificato con chi ancora è protetto dai residui delle legislazioni dello Stato Sociale tuttora resistenti.

Viene alimentato un clima di odio sociale, che sceglie di non fare i conti con le storture create da una distribuzione del reddito e delle opportunità sempre più diseguale e polarizzata, ma di rimuovere, persino psicologicamente e certo dall’agenda politica, totalmente l’iniquità delle condizioni materiali attraverso la semplice indicazione di capri espiatori.

Si producono, e si produrranno politiche egoistiche, che risponderanno, apparentemente e temporaneamente, al bisogno di giustizia sociale della Società, senza però intervenire in alcun modo sulle cause di fondo dell’ingiustizia.

E quando non sarà più possibile reggere economicamente la finzione, la deflagrazione colpirà, ancora più duramente gli strati più esposti delle popolazioni. A partire da chi vive del proprio salario.

Il Sindacato, la CGIL, deve porsi il problema di aprire nuovi spazi di mediazione sociale e politica. Dovrebbe essere riferimento concreto per la definizione di un nuovo Contratto Sociale che si ponga l’obiettivo di coniugare nuove dimensioni e redistribuzione del lavoro, in relazione con le rivoluzioni tecnologiche in corso. Anche per combattere la totale alienazione dal lavoro, la sua perdita di senso e di missione. Inizialmente dentro i confini nazionali, ma, lavorando, in prospettiva europea, come nuovo confine nazionale. Il campo delle tutele, e dei diritti, deve integrarsi, tra “dentro” e “fuori” i luoghi di lavoro, completandosi vicendevolmente, anche attraverso forme mutualistiche.

Consegnarsi ad una politica dei redditi di cittadinanza, significa abdicare totalmente all’idea che sia possibile creare e redistribuire il lavoro, anche attraverso diverse politiche degli orari. Significa decidere che la Repubblica, non è fondata sul lavoro, ma sull’Assistenza.

Ammesso che possa essere economicamente sostenibile.

Occorre costruire una nuova rappresentanza, e rappresentatività. In completa autonomia dalla Politica. Come non è stato, fino ad oggi. Ricostruendo le mappe del lavoro, frammentato da una politica che ha scelto di favorire la creazione d’impresa per ciascuno dei segmenti produttivi o di servizio, che andrebbero invece ricomposti. Costruendo nuove solidarietà tra soggetti, e nei territori.

Percorrere questa via, significa decidere di affrontare un cammino lungo e conflittuale. Dall’esito incerto.

L’alternativa è la trasformazione definitiva del Sindacato, da soggetto politico, ad agenzia di servizi.

Sono necessari anche nuovi linguaggi e nuove forme della comunicazione. Un nuovo studio della realtà. La CGIL è quasi totalmente assente dai Social Network, e non pratica nessuna forma di contatto diretto e sistematico con i propri iscritti e militanti, tramite le piattaforme social oggi a disposizione, salvo sporadiche buone volontà individuali o di qualche territorio. Le persone non ricevono, se non recandosi presso le sedi ( e certe volte neanche così ), una risposta individuale ad esigenze oggi sempre più complesse e, spesso, esse stesse frammentate anche nelle competenze necessarie per rispondere. La CGIL sottovaluta, in modo drammatico, la tutela dei cittadini consumatori e le forme di aggregazione e vertenzialità che nascono nei territori e nei quartieri.

La CGIL, troppo spesso, aspetta che le persone le si rivolgano, e non le cerca; e non sono insolite le risposte ipocrite, ad esigenze brucianti. A partire dalla ricerca dell’occupazione, soprattutto nel Sud. Quando tante volte non si hanno veri strumenti e politiche di risposta collettiva, né si sono costruite organizzazioni dedicate, anche per le persone disabili, ma non mancano le risposte individuali, selettive, di segnalazione e talvolta di raccomandazione.

La perfetta rappresentazione di quanto sto, sinteticamente e necessariamente in modo lacunoso, provando a raccontare è data dalla parabola della situazione della Provincia di L’Aquila.

Tra poco, L’Aquila, e tutta la sua Provincia, ricorderanno 10 anni dal sisma del 6 aprile 2009.

E’ tempo di bilanci.

E’ aumentato esponenzialmente il numero di iscritti al Collocamento, e il numero di coloro i quali sono in cerca di lavoro da più tempo. L’avviamento al lavoro, con contratti di lavoro a tempo indeterminato, è drammaticamente calato negli anni, riducendosi ad una quota modesta sul totale delle assunzioni con contratti a termine. Importanti imprese del territorio hanno chiuso.

Si sono affermati nuovi settori, penso ai Call Center in particolare, che però risentono di una competizione basata esclusivamente sugli elementi di costo, nella quale il Sindacato è spesso chiamato a contrattare il peggioramento dei livelli salariali, in cambio di una occupazione sempre più sotto ricatto.

Il Capoluogo di Regione ha visto cambiare radicalmente il proprio mix di cittadinanza, con l’ingresso di rilevanti quote di cittadini stranieri e l’abbandono della città da parte di tante famiglie.

Sono proseguiti e si sono aggravati i processi di spopolamento delle aree interne, riverberandosi in una riduzione drastica dei livelli di servizi, pubblici e privati e in un depauperamento sempre più drammatico dei presidi scolastici.

L’Università, ha perso migliaia di Iscritti.

Nessuna politica di prevenzione del rischio sismico è stata concretamente finanziata e posta in essere, in particolare nell’area di Sulmona, e in quella di Avezzano.

La Sanità pubblica si dequalifica, a favore di altri luoghi della Regione, e non riesce a coprire con una rete adeguata per le emergenze, per l’assistenza, per la prevenzione, il Territorio. La Riabilitazione, la Diagnostica, la cura della Terza e Quarta Età, sono affidate sempre più alla Sanità privata, o convenzionata, o alle risposte individuali delle famiglie attraverso eserciti di badanti.

Si sono manifestati, e si acuiscono, in tutta la Provincia, fenomeni di conflitto tra cittadini stranieri e cittadini italiani, a segnalare l’assenza ed il fallimento di ogni politica di dialogo e di integrazione: la gestione ed il futuro del Progetto C.A.S.E. a L’Aquila, in questo senso, rischia di creare situazioni esplosive.

La nuova Legge Elettorale Nazionale, con il disegno dei Collegi, sottolinea ulteriormente la disgregazione dell’unità della nostra Provincia, la cui permanenza, come ambito istituzionale, e luogo di politiche unitarie, dopo la riforma monca del sistema, è francamente difficile ricostruire. Né si nota una vertenzialità sindacale, capace di proporre temi unificanti.

Il processo di ricostruzione del Cratere, colpito dal terremoto del 6 aprile 2009, appare avviato, nel Capoluogo, per quel che riguarda la ricostruzione privata. Molto meno, nei centri minori e nelle frazioni; ancora più difficile, la situazione di quei territori, investiti poi dal terremoto di Amatrice di due anni fa. La ricostruzione dei Pubblici Uffici, delle Scuole, è invece totalmente, o quasi, ferma. La città di L’Aquila, non riparte. E’ un dormitorio diffuso in un’area vastissima, in cui i servizi pubblici fanno una enorme fatica a mantenere una sostenibilità economica, e ad adeguarsi ad una domanda profondamente cambiata; è pressochè priva di spazi comuni non legati al consumo; la sua identità, anche culturale, è quasi tutta rivolta ad un passato che non tornerà nelle forme pre-sisma.

La ricostruzione non sta costruendo significativi lasciti economici. I saperi maturati nei complessi processi di ricostruzione, in particolare dei Centri Storici, appaiono frammentati, e, per lo più, patrimonio di imprese non locali, che non potranno così esportare le esperienze apprese.

L’unica esperienza di rilievo, post-sisma, il Gran Sasso Science Institute, deve ancora dimostrare la sua capacità di fecondare il territorio.

Il rischio, che la fine del processo di ricostruzione lasci dietro di sé una enorme quantità di occasioni perdute, e una città che, senza il poderoso afflusso di risorse esterne di questi anni stenterà drammaticamente a trovare una propria riconoscibile identità urbana, e una propria identificata missione produttiva e di servizi, è enorme.

Sarebbe stata necessaria una reale mobilitazione. Costruita su una visione europea di sviluppo. Capace di far perno su alcune reali potenzialità e presenze nel Territorio.

Si è preferito inseguire strumenti ridicoli, come le cosiddette Zone Franche Urbane piuttosto che immaginare una organicità di interventi puntati sul futuro.

Lo stesso strumento del 4% dei Fondi assegnati alla ricostruzione, da destinare ad investimenti produttivi, è stato, e viene usato, perseguendo fini assolutamente sbagliati. Il ripiano della situazione finanziaria terribile del Centro Turistico del Gran Sasso, avrebbe dovuto essere realizzato con risorse ordinarie, unitamente ad un vero piano mobilitante di turismo sostenibile e salvaguardia del Territorio. Essere intervenuti con quei fondi su una situazione debitoria, ha significato dirottare risorse destinate ad investimento, a coprire una fallimentare gestione pubblica di qualcosa che, forse, andrebbe semplicemente dismesso.

Così come, finanziare con quei fondi, il cosiddetto bando “ Fare Centro”, ha significato consentire alla borghesia aquilana, e alle società Immobiliari, di continuare a fruire di una rendita fondiaria ingiustificata dalle attuali situazioni di mercato, affittando a prezzi esorbitanti edifici privati ristrutturati con fondi pubblici, senza neppure riuscire a restituire vita al Centro Storico aquilano, se non in situazioni di particolari congiunture legate ad Eventi. O Festività.

7/3/2019

Il terremoto segna una scissione nel senso comune dei cittadini.

A L’Aquila, tutto, si definisce indicandone le condizioni prima, e dopo il terremoto.

Eppure, non è possibile comprendere i processi attivati dal post sisma, e le attuali condizioni della città, se non si tiene conto della permanenza, e degli effetti di medio-lungo periodo, delle dinamiche che caratterizzavano la città, prima del 6 aprile 2009.

A L’Aquila, dal giugno ’98, al 2007, la Destra che ha governato la città, ne ha minato in profondità l’impianto urbano, attraverso il ricorso ad una pluralità di forme di edilizia contrattata, in un quadro di sostanziale condivisione, con il Centrosinistra, della preminenza degli interessi della classe imprenditoriale locale, da sempre rappresentata prevalentemente da imprenditori edili, sostenuti, anche oltre il legittimo, dalla Cassa di Risparmio locale, che, anche per questo, entrata in sofferenza, è stata poi acquisita da una azienda nazionale, che ha presto spostato altrove i centri decisionali e il cui impegno a sostenere le imprese del territorio è davvero debole.

Prima del sisma, L’Aquila era una città che faceva perno sul suo Centro Storico, quale area direzionale, e di pregio monumentale; quale luogo d’elezione della rendita immobiliare che si giovava della vasta presenza di studenti universitari fuori sede, quale luogo principe della socialità cittadina.

Le periferie aquilane erano preda di assalti selvaggi al paesaggio da parte di una edilizia senza pregio, e senza spazi pubblici, che in molti luoghi sommava la presenza di insediamenti abitativi dispersi, con La realizzazione di capannoni industriali, vuoti, costruiti perché una Legge Regionale, ne favoriva l’edificazione senza vincoli, privilegiandone la sola rendita fondiaria e non già un vero impiego produttivo o di servizio.

Le frazioni della città, che, prima del fascismo, avevano dimensione comunale autonoma, restavano un sistema distante e disorganico, rispetto alla città, trasformandosi lentamente in periferie senza più anima.

A luglio del 2008, viene arrestato il Presidente della Giunta Regionale Ottaviano Del Turco, insieme ad alcuni dei suoi Assessori. E vengono indette nuove elezioni, che, a dicembre, vedono la Destra riprendere il controllo della Regione. L’intervento della Magistratura apre l’ennesima crisi della legalità, e della credibilità della classe politica in Abruzzo, su un tema poi, quello della Sanità, che sarebbe stato decisivo per definire una stagione di nuovo, universale, efficiente ed efficace welfare in un una regione caratterizzata da un territorio difficile, in larga parte montuoso, e dalla viabilità disagevole; soggetto a forti processi di spopolamento delle aree interne, e di invecchiamento della popolazione.

La Sanità pubblica invece, è stata oggetto di uno spasmodico ed indiscriminato taglio delle risorse e dei servizi, senza neppure ridefinire correttamente il rapporto tra Sanità Pubblica e Sanità Privata o Convenzionata, ma anzi, perpetuando ed accrescendo gli sprechi ingiustificabili, e le dinamiche clientelari e baronali, che si sono perfettamente adattate alla prevalenza delle esigenze di mercato sul bisogno di salute delle persone, facendo di queste uno scudo a giustificazione ideologica e difesa di gruppi di potere ( non a caso buona parte della classe dirigente locale e regionale è composta da medici, in tutti gli schieramenti politici ).

L’impatto, sul debito, e sul deficit del Bilancio regionale, e l’intreccio tra costi della Sanità e irresponsabilità della politica e dell’amministrazione, ha toccato il suo culmine subito dopo il sisma del 2009, quando la Giunta Regionale ha sottratto alla ASL aquilana 47 milioni di euro, che avrebbero dovuto essere utilizzati per ricostruire gli immobili danneggiati dal sisma, erogati dall’assicurazione sottoscritta contro il danno da terremoto, con lo scopo di allentare le sofferenze del Bilancio regionale al limite del dissesto; con il risultato che, a dieci anni dal sisma, l’Ospedale aquilano ancora non è stato del tutto ricostruito, e una parte strategica della città, l’intera collina di Collemaggio, con i suoi numerosi edifici dell’ex manicomio, e della Direzione Sanitaria, e dei Distretti sanitari territoriali, resta da allora in totale abbandono, mentre la ASL paga fior di affitti ai costruttori locali, per la rilocalizzazione delle sedi.

A settembre del 2008 iniziano ad avvertirsi i primi segnali, a livello nazionale, della terribile crisi economica, che, iniziata con la bancarotta della finanza statunitense, è, ancora oggi, non riassorbita dall’economia mondiale.

Questa nuova crisi, a L’Aquila, impatta su un territorio, che nel 1994, con il primo governo Berlusconi, è stato espulso, prima della naturale scadenza, dal sistema di sostegno straordinario per il Mezzogiorno, e che ha appena subito colpi terribili dalla riorganizzazione del sistema delle imprese a Partecipazione Statale, che, un tempo, erano il nerbo di una presenza industriale importante, nella produzione e nei servizi per le Telecomunicazioni, anche spaziali e per la Difesa, oltre che nel settore delle industrie elettroniche specificamente vocate ai sistemi d’arma.

Un intero settore industriale, con migliaia di occupati di cui oltre il 50% donne, con le sue competenze e professionalità pregiate, viene totalmente cancellato dai processi di privatizzazione insensati e gestiti solo nell’ottica del rientro dal debito pubblico in previsione dell’ingresso dell’Italia nell’area dell’euro. Un processo che segna, per la prima volta nella storia repubblicana della città, l’impossibilità per la politica locale di intervenire nei processi economici, la cui portata, e la cui origine, è troppo lontana e ampia, perché possa essere condizionata. La mancata percezione di questa debolezza del sistema locale, strutturale per certi versi, da parte delle maestranze interessate, della politica locale, della città complessivamente e di larga parte del Sindacato territoriale, lascia sul terreno la sensazione di una violenta e inspiegabile ingiustizia subita, che non consente di organizzare risposte e alternative credibili, ma solo la ricerca di capri espiatori.

La città quindi, alla vigilia del sisma, vive una situazione di forti disequilibri, tra Centro e Periferia, tra Occupati e Scacciati dai luoghi di lavoro; tra poteri locali indeboliti, frammentati nelle competenze, e messi in competizione tra loro dalla sciagurata riforma “federalista” di Bassanini e poteri nazionali e globali.

Vive una profonda crisi di prospettiva, avendo investito molto di sé stessa nella formazione e nell’alta formazione, ma ritrovandosi improvvisamente quasi del tutto priva di sbocchi credibili per i giovani che contribuiva ad istruire.

Accentua i propri caratteri di passivizzazione, poiché è il flusso di risorse pubbliche, attraverso gli stipendi ad una diffusa classe di lavoratori pubblici di un capoluogo di Regione – ivi comprese le scuole d’ogni ordine e grado e una Università che contava oltre ventimila iscritti – , attraverso le pensioni erogate ad una popolazione che invecchia e che ha visto, prima del tempo, porre in quiescenza migliaia di persone prima impegnate nell’industria; attraverso il sostegno generalizzato alle numerose, ricche di storia preziosa e qualificate Istituzioni Culturali cittadine, che è di gran lunga la fonte preponderante di sostentamento del territorio, segnato inoltre dai processi nazionali di marginalizzazione delle aree interne.

E poi arriva il trauma.

Il terremoto di L’Aquila, da subito, diviene innanzitutto una rappresentazione mediatica.

La città viene raccontata dai mezzi di comunicazione di massa, dalla televisione in special modo, con una capacità di drammatizzazione enorme e secondo una precisa e attenta scansione sceneggiata.

Mentre i cittadini vengono invitati, e obbligati, in massa, ad abbandonare la città, è messo in atto, subito, un percorso che non deve ripetere le scansioni temporali che hanno caratterizzato altre tragedie nazionali.

La tripartizione di “gestione dell’emergenza – transizione – ricostruzione”, è abolita.

Il Presidente del Consiglio non può permettersi che, ogni Natale, accada quel che le sue televisioni hanno mostrato pervicacemente, per ragioni di opportunità politica, del terremoto in Umbria, con la presenza nei telegiornali, delle immagini degli stenti delle “Feste nei container”, dei terremotati aquilani.

La fase di transizione è cancellata, e, con essa, anche la possibilità di sedimentare un racconto condiviso della tragedia nella popolazione, e di costruire una riflessione seria e capace di traguardare il futuro, sui caratteri e la qualità della ricostruzione di un Capoluogo di Regione, la cui distruzione e recisione di tutti i gangli sociali, economici, relazionali, direzionali e di elaborazione, è subitanea e totalmente inedita nella storia del paese.

La volontà di “dare un tetto”, in tempi rapidissimi, a decine di migliaia di persone è assolutamente lodevole e innovativa. La proposta del “ Progetto C.A.S.E. “, tramortisce l’intera classe di Centrosinistra al governo della città, e le forze sociali, e ne sancisce l’afasia culturale determinata anche dal prolungamento strumentale e ingiustificato, dei poteri commissariali fino al dicembre del 2010.

La gestione dell’emergenza nella città, è caratterizzata dalla sospensione di ogni regola di democrazia. Sin dalla prima Ordinanza post sisma, vengono abolite, per il territorio colpito dal sisma, decine e decine di leggi di indirizzo e controllo dell’intervento pubblico. Ad esempio, tutto il codice degli Appalti; tutto il Magistero di controllo della Corte dei Conti; tutta la normativa sul trasporto dei rifiuti, anche tossici, speciali e pericolosi; persino la legge sulla trasparenza degli atti della Pubblica Amministrazione è abolita, a L’Aquila, tra l’altro.

Un fiume di risorse finanziarie, un mare di persone mobilitate per L’Aquila, un oceano di solidarietà vera, nazionale, e internazionale talora, raccontati e amplificati dai canali televisivi e dalla carta stampata, non ancora sottoposta all’attacco dei Social Networks, rendono indicibile il dissenso.

Nessuna discussione fu possibile, e neppure oggi lo è, in realtà, riguardo l’impatto del Progetto C.A.S.E. sulla realtà cittadina.

Da ottobre del 2009, iniziò ad ospitare confortevolmente e dignitosamente, migliaia di aquilani tramortiti dal sisma e da mesi di lontananza fisica dalla città. Ma oggi, tende a trasformarsi in residenza riservata a fasce marginali della popolazione: il rischio di dover gestire dei ghetti è altissimo, già ora.

I veri costi del Progetto C.A.S.E. sono un mistero, così come le fonti che ne finanziarono la realizzazione ( il Fondo europeo di solidarietà per le calamità naturali fu praticamente impiegato per intero, e, pertanto, il “merito” della realizzazione del Progetto C.A.S.E., andrebbe almeno diviso con l’Unione Europea, e non essere oggetto di vanto di una sola precisa forza politica ).

Il ricorso alle risorse dell’Unione, inoltre, ne vincola il destino futuro, che deve restare quello di strutture “rimovibili”, ma i cui costi per l’abbattimento e il ripristino del territorio, nessuno sosterrà mai, e che non devono generare “utili”: non possono pertanto essere, per esempio, oggetto di alienazione a proprietari che avrebbero tutto l’interesse a mantenerne intatta ogni funzionalità.

E si è taciuto per anni, che la quantità di risorse necessaria ad una vera manutenzione dei 19 complessi residenziali, non è realisticamente sostenibile da bilanci pubblici: di certo non lo è dal Bilancio del Comune di L’Aquila, che, peraltro, soffre fino al limite del collasso finanziario, per i mancati introiti derivanti dall’evasione del pagamento delle bollette ( tutte formalmente in capo al Comune proprietario delle strutture ), che tantissimi inquilini del Progetto C.A.S.E., spesso irresponsabilmente spalleggiati da quasi tutte le formazioni politiche, che hanno preferito cavalcare proclami demagogici, piuttosto che il senso di responsabilità, hanno praticato e praticano, talvolta per vero bisogno, molto più spesso, per intollerabile cinismo, tutt’oggi.

Il territorio comunale, nei suoi nuovi nuclei abitati, si estende ora, lungo l’asse EST-OVEST, per oltre trenta chilometri, senza che vi siano le risorse per i corrispondenti necessari servizi pubblici, dal trasporto, alla raccolta dei rifiuti, ad esempio, o una dotazione infrastrutturale adeguata, e senza che l’edificazione di questo patrimonio residenziale aggiuntivo, abbia contribuito a eliminare l’abusivismo edilizio, che, al contrario, è esploso, usando come cavallo di Troia una sciagurata Delibera comunale della Giunta di Centrosinistra, che autorizzava la realizzazione di manufatti provvisori in legno nella fase d’emergenza, i cui oneri di urbanizzazione sono stati a totale carico delle risorse pubbliche, e che ha generato poi migliaia di “casette di legno” ( censite, peraltro ), abusive persino per i criteri previsti dalla Delibera, ma anch’esse urbanizzate e oggetto oggi dell’attesa di una sanatoria generalizzata, nel cui nome sono stati eletti alcuni consiglieri di Destra alle ultime elezioni comunali.

Il patrimonio edilizio abitativo di L’Aquila, è sovradimensionato di circa il 30%, rispetto ai residenti attuali, senza contare gli insediamenti del Progetto C.A.S.E. capaci di ospitare circa tredicimila persone, e, il Piano Regolatore della Città, risalente ai primi anni ’70, e da allora mai cambiato, se non con interventi in deroga, immaginava una città con il doppio degli abitanti attuali ( poco meno di settantamila ), e dimensionava le aree edificabili a questa dimensione demografica.

Il Centrosinistra ha governato la città dal 2007, al 2017.

Nessuno, obiettivamente, può immaginare che vi fosse una classe dirigente preparata alla tragedia e all’incredibile sconquasso che ha colpito la città.

Ma la Giunta è, culturalmente prima che politicamente, corresponsabile dell’attuale conformazione urbana e sociale della città.

Quando il Governo del Presidente del Consiglio Berlusconi iniziò a discutere la Legge che avrebbe dovuto presiedere alla ricostruzione della città, fu subito chiaro che la quantità di risorse economiche che avrebbe voluto mettere a disposizione dei cittadini avrebbe reso impossibile ricostruire L’Aquila; talmente sottodimensionata da renderla materialmente, impossibile. Il Centrosinistra, locale e nazionale, ovviamente, guidò l’opposizione alle scelte del Governo.

La parola d’ordine, che mobilitò la città, chiedeva che il danno fosse risarcito al 100%, e che tutto fosse ricostruito come era e dove era.

Come se la ricostruzione di ogni singola abitazione privata, ricostruisse una città.

Una città è fatta di storia, e di storie. Di relazioni. Di interessi economici e conflitti. Di dinamiche culturali e produttive. Di servizi e di formazione e istruzione. Di luoghi pubblici e d’incontro, di commerci, di funzioni amministrative e direzionali. Di emergenze artistiche e ambientali, di luoghi di culto. E tutto è unito in uno spazio fisico, ed immateriale, le cui funzioni sono talvolta gerarchizzate, talaltra capaci di convivenza paritaria, ma sempre mutevoli e contraddittorie talora.

Non può essere ridotta una città, alla soma del suo patrimonio immobiliare. Ed invece, quelle parole d’ordine hanno reso la ricostruzione un processo eminentemente individuale, familiare, al più. E che si esaurisse nella riparazione della propria abitazione. O delle proprie abitazioni. Al resto, ci si sarebbe, semplicemente adattati, in seguito, come ad una sorta di destino inevitabile.

Le contrapposizioni politiche, tra i diversi schieramenti, sono state fatte anche di strumentalizzazione delle difficoltà oggettive, e di cinico utilizzo dell’ emergenza.

La Legge per la ricostruzione della città, di giugno 2009, contiene, ad esempio, la totale liberalizzazione del gioco d’azzardo, anche on line, in Italia, con tutto il suo coinvolgimento di criminalità organizzata.

Non è stato possibile mai, in alcun momento della gestione post sisma, un terreno comune di riflessione, dibattito e decisione tra le varie forze politiche, che hanno anzi brandito il terremoto e i suoi esiti, l’una contro l’altra, sempre. Alimentando, anche per questa via, una divisione tra i cittadini, profonda, ma determinata quasi esclusivamente dalle conseguenze soggettive che la furia della natura e l’indifferenza delle leggi, ha riverberato su ciascuno, e non certo da prospettive di progetto, o persino di senso, diverse.

E ha pesato, enormemente, sui tempi della ricostruzione, la lotta defatigante, coronata da sostanziale successo solo nel 2013, col Governo Monti e il Ministro per la Coesione Territoriale Fabrizio Barca, perché vi fossero disponibili risorse davvero sufficienti per la ricostruzione. Così come ha pesato enormemente, e tuttora pesa, prima, una normativa emergenziale che ha spossessato la città delle sue reali possibilità d’intervento in tutta una prima fase, rendendo i processi di ricostruzione quasi impossibili, e poi, usciti dall’emergenza, una normativa comunque estremamente farraginosa, densa di insidie e lacunosa in alcuni punti decisivi. Tale da consentire forti disparità di trattamento e arbitrii generalizzati.

Ad esempio, non esiste nel nostro Paese il reato di corruzione tra privati, e questo ha reso possibili innumerevoli malversazioni nell’affidamento di lavori, talvolta per milioni di euro, che una qualsiasi Assemblea condominiale ha avuto il potere di compiere.

Così come le Assemblee condominiali non avevano, e non hanno, in genere, le competenze tecniche, e scientifiche, per scegliere una tipologia ricostruttiva piuttosto che un’altra. O per valutare la congruità economica e tecnica di una offerta o la solidità finanziaria, la professionalità e competenza di una Azienda, piuttosto che di un’altra. Producendo per questa via ritardi, contenzioso e indeterminatezze.

E possono essere artatamente condizionate da relazioni inconfessabili tra progettisti, amministratori di condominio e imprese.

L’alternativa, sarebbe stata affidare la ricostruzione privata alla normativa in vigore per gli appalti pubblici, e qualcuno ci aveva anche pensato, con il risultato di rendere totalmente impossibile la ricostruzione della città: prova ne sia che tutti, si può dire tutti gli edifici pubblici ( salvo due o tre eccezioni ), comprese le scuole di ogni ordine e grado, danneggiati dal sisma, non sono stati ancora ricostruiti.

L’intero Centro Storico è oggi, troppo spesso, un deserto di presenze, smozzicato e ancora semidistrutto. Privo di una qualsivoglia fisionomia urbana, con le sue alternanze di zone parzialmente ricostruite, anche con immobili ed edifici di pregio storico-architettonico magnificamente rivitalizzati, e vastissime aree ancora totalmente ferme al 7 aprile 2009.

E vale la pena sottolineare qui, come, proprio nel Centro Storico si concentrassero oltre mille attività di commercio, artigianali e professionali, e ne siano aperte ad oggi, dopo dieci anni dal sisma, un’ottantina circa.

Il terremoto di L’Aquila, lascia aperto, per lo Stato italiano, il problema di avere una normativa quadro, che tuteli certo la finanza pubblica da sperperi inaccettabili, ma che dia certezze di diritto alle popolazioni colpite, sul piano dell’assistenza dovuta e sulle misure del ristoro, e che lasci un certo grado di adattabilità a specifiche condizioni territoriali, soprattutto sul piano dell’intreccio tra disposizioni urbanistiche vigenti al momento dell’evento, e interventi di risposta che non siano speculativi o occasione di violazione dei vincoli ambientali, e storico architettonici di un luogo.

L’assenza di uno strumento simile, a L’Aquila, ha comportato tra l’altro, uno scontro durissimo sulla figura del Commissario per l’Emergenza. Percepito da una parte della popolazione, come il salvatore messianico ( e per tutta una lunga fase l’intera classe politica del territorio, senza distinzioni di colore, lo ha omaggiato come se fosse il sovrano benevolo delle azioni di intervento sull’emergenza ), e da un’altra parte della popolazione, come il prevaricatore tirannico, responsabile peraltro, almeno moralmente, dell’inganno mediatico dalle conseguenze tragiche, della riunione della Commissione Grandi Rischi a L’Aquila il 30 marzo 2009, oggetto di tre gradi di processo, che hanno infine assolto tutti gli imputati, tranne uno.

Per una breve stagione, la città ha vissuto un importante protagonismo civico che ha combattuto le storture della gestione emergenziale, e le ingiustizie che si profilavano a danno della comunità, in alcuni momenti con un vasto consenso di popolo, e che ha posto, in alcune sue parti, rilevanti questioni di prospettiva; sul piano del disegno urbano e della qualità dei processi di ricostruzione, e sul piano della necessità di coniugare alla ricostruzione fisica, una idea di sviluppo, materiale e immateriale del territorio.

Tale protagonismo civico, quasi da subito, è stato caratterizzato più dalla capacità di trovare volta per volta un avversario, più che dalla solidità di una strutturazione della rappresentanza, capace di dialogare da pari a pari, e autonomamente, con le Istituzioni, e con le singole forze politiche. Finendo poi col deperire, in parte per ragioni, per così dire naturali – connaturate anche ai diversi interessi materiali, di classe verrebbe da dire, incarnati nelle diverse anime del movimento -, ed in parte per il conflitto scatenato nei suoi confronti dalla politica che s’è sentita espropriata da queste forme di democrazia diretta e partecipata, e le ha combattute anche attraverso processi sotterranei o espliciti di cooptazione.

La città oggi, non ha più alcuna eredità visibile e influente, di quella stagione, salvo una individuale presenza in Consiglio Comunale, attraverso una Lista Civica che esplicitamente si è richiamata a quella esperienza.

Il Centro per l’Impiego de L’Aquila, serve l’area che va, più o meno,  da Montereale a Capestrano,dove vivono circa 106.000 persone ( Censimento ISTAT 2011 ).

Nel 2009, gli Iscritti al Centro per l’Impiego erano 16330, di essi, 782 erano stranieri comunitari e 1264 erano stranieri extracomunitari: gli stranieri complessivamente, erano il 12,52% degli Iscritti totali .

A dicembre del 2016, gli Iscritti al Centro per l’Impiego de L’Aquila, sono 30921, di essi, 2590, sono stranieri comunitari, e 4877 gli stranieri extracomunitari; complessivamente, gli stranieri Iscritti, sono divenuti il 24,14% degli Iscritti totali, con un incremento, in termini assoluti del 264%.

Tra il 2009 e il 2016, il numero complessivo degli iscritti al Centro per l’Impiego è cresciuto di 14591 unità, un aumento del 89% circa.

Il 50% degli Iscritti al Centro per l’Impiego è donna; nel 2009, era il 55% degli Iscritti. Questo lieve miglioramento, nasconde però un dato, su cui riflettere: tra il 2009 e il 2016, il numero assoluto di uomini iscritti al Centro per l’Impiego, è aumentato del 104% ( da 7265 a 15154 ), ben oltre ogni possibile espansione dovuta alla demografia del nostro territorio; il numero delle donne iscritte, invece, è aumentato solo del 57% ( da 9064 a 15767 ), un dato certo rilevante, ma che tradisce una dinamica per le donne più simile agli andamenti demografici, piuttosto che alla attrattività del nostro territorio, rispetto alle occasioni di occupazione.

Circa il 49% degli Iscritti al Centro per l’Impiego è diplomato o laureato, nel 2016; mentre la percentuale nel 2009, era del 52%; il che significa che il mercato del lavoro, a L’Aquila, in realtà richiede, di più rispetto al passato, un basso livello di istruzione e professionalità.

Nel 2009, gli Iscritti al Centro per l’Impiego, collocati in una fascia d’età tra i 19 e i 24 anni, erano 2134; nel 2016, sono 2879, con un incremento del 34%; gli Iscritti collocati in una fascia d’età, tra i 51 e i 55 anni, erano 1182 nel 2009 e sono diventati 2715 nel 2016, con un incremento del 129%, il che fa supporre un mercato del lavoro che prediliga particolarmente le persone giovani, a discapito di quelle più in là con gli anni, che, magari hanno più difficoltà a compiere un lavoro prevalentemente fisico.

Nella fascia tra i 19 e i 24 anni, nel 2009, si collocavano 278 Iscritti stranieri ( il 13,5% del totale degli Iscritti stranieri ), divenuti 740 nel 2016 ( quasi il 10% del totale degli Iscritti stranieri ), con un incremento del 166%.

Mentre, nella fascia tra i 51 e i 55 anni, nel 2009, si collocavano 107 Iscritti stranieri ( il 5% del totale degli Iscritti stranieri ), divenuti 553 nel 2016 ( il 7,4% del totale degli Iscritti stranieri ), con un incremento del 416%.

Nel 2009 , risultano iscritti al Centro per l’Impiego, da più di 24 mesi,  2126 persone; il 13 % circa del totale degli Iscritti. Nel 2016, questo dato balza a 23236 persone, costituendo ben il 75% degli iscritti totali, con un incremento, in valori assoluti, del 992%, ad indicare una tendenza molto particolare, del nostro mercato del lavoro, che sembra isolare in modo sempre più stringente e drammatico una precisa fascia di persone, lasciandole senza alcuna risposta occupazionale nel tempo.

Nel 2009, le donne Iscritte al Centro per l’Impiego, da più di 24 mesi, erano 1205, costituendo il 56% degli Iscritti da oltre 24 mesi; nel 2016, il numero delle donne diventa di 12488, il 53% del totale, ma con un incremento assoluto, del 936%.

Nel 2009, gli Iscritti stranieri, da oltre 24 mesi al Centro per l’Impiego, erano 913, cioè il 44,6% del totale degli iscritti stranieri, mentre invece, nel 2016, sono divenuti 4703, quasi il 63% del totale degli Iscritti stranieri, e con un incremento del 415%.

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