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Ballata dell’amore rifiutato

Apr 30, 2025 | 2025, Storie

Ballata dell’amore rifiutato

Io, non so fare le canne.

Mi escono certe carotine bitorzolute e flosce, che mi vergogno pure a fumarle. E mi ci brucio le dita.

Ho visto gente mettere insieme due cartine grandi, e farci una canna un metro e mezzo lunga, e perfetta. Un tronco di cono buono da essere usato per una lezione di geometria dei solidi. Liscio e pressato; capace di durare mezz’ora almeno, di mano in mano.

Io invece, uso le cartine piccole – dovrebbe essere più facile, no ? – e dalle mie mani esce fuori solo e sempre una ciofeca.

A sessant’anni, dopo aver smesso di fumare dieci anni fa – le canne almeno vent’anni prima – ho ricominciato. Quattro o cinque sigarette al giorno. E non sono sigarette. Sono canne.

Mi bruciano e amareggiano la bocca. E aumentano la mia paura. Puzzo pure.

Ogni volta che ne fumo una, mi metto le dita vicino alla carotide semiocclusa, e sento il battito del cuore. M’accorgo, quando va fuori giri. E ancora di più m’impauro.

Per non parlare, di quel che succede quando mi fumo due canne quasi di seguito. Allora, mi parte tutto. Compresa la paura di un ictus, ogni volta che le dita s’addormentano un po’, o un occhio mi lacrima e mi sembra di vedere doppio.

Però, mi distanziano da me stesso, le canne. Mi obbligano a pensare solo a quando mi farò la prossima canna. A quando finalmente mi succederà che l’effetto di una canna, possa togliermi di dosso e da dentro, tutto il dolore che sento, e mi permetta di guardare alla vita e al mondo, con occhi che immaginano, un futuro.

Che lo aspettano, ansiosi d’incontrarlo.

E non succede: ci vuole la prossima canna ancora. Però, intanto, mentre sono lontano da me, provo a resistere alla tentazione di pensare a lei ogni momento, e cerco di non sentire nello stomaco i morsi feroci della sua assenza, e della paura.

Mi faccio le canne, e voglio continuare a farmele, almeno fino a quando non dimentico pure chi sono.

M’è capitato una sera, di ricominciare.

Mi sono ricordato che, da ragazzino, certe volte nascondevo il fumo dentro la plafoniera dell’ascensore. E allora, una volta che sono entrato nell’ascensore di casa mia, ho messo le mani nello spazio tra la lampadina e i tubolari spargiluce cromati.

E ci ho trovato un po’ di fumo !

Ci deve essere un cazzo d’inconscio collettivo del fumatore di hashish ragazzino, che fa nascondere il fumo, più o meno negli stessi posti, sempre.

Mi dispiace, per il ragazzino che aveva lasciato lì il suo “tesssoro”. Gliel’ho fregato io.

Sono arrivato a casa, a casa mia, dove vivo da solo, ora, e ho fatto una cosa che, quando lei viveva con me, a casa nostra, adesso è solo mia, non avevo mai neanche pensato di fare. Sono entrato nel mio studio, lasciando la porta aperta… e mi sono accorto, che non avevo né le sigarette, e nemmeno le cartine.

Non è che qualcuno avvisi, se, una sera, trent’anni dopo, si senta d’avere bisogno di stonarsi un po’, e, preventivamente allora, ci si procuri tabacco e cartine, e un pezzo di cartoncino leggero per il filtro, e ci si metta ad aspettare che il fumo piova poi dal soffitto.

Non funziona, così.

Ho lasciato il fumo a casa, di modo che, se avessi incrociato il ragazzino cui lo avevo buggerato, avrei avuto da mostrare una bella faccia da vecchio innocente – che non immagina nemmeno di cosa si parli, se qualcuno accenni al fumo – e non la faccia del ladrone che invece ero.

E il ragazzino non m’avrebbe nemmeno considerato, tra i suoi possibili predatori.

Ho comprato sigarette e cartine, e a casa mia, dove non lo avevo mai fatto prima; la casa che era nostra, e adesso è solo mia perché lei se n’è andata, mi sono fatto una canna, senza neanche aprire le finestre, perché pure dopo aver spento l’ultima brace, io potessi continuare a sentirne l’odore… quasi d’incenso… ovunque, e a stonarmi ancora, magari…

Non ho ricominciato a farmi le canne perché lei mi ha lasciato. Però, ho ricominciato dopo che lei mi ha lasciato.

In fondo non c’è una grande spiegazione, del perché lo faccio. Inebetirmi. Basta, e avanza. Anche se, in realtà, a me il fumo fa l’effetto esattamente opposto. Mi rende preciso, attento, e parlo benissimo. E costruisco frasi complesse e complete di senso compiuto, senza arrotolare mai la lingua o il cervello e piene di congiuntivi e incisi ipotetici. E guido bene, col buio, per le strade di montagna, alla velocità massima che posso.

Però mi succede lontano da me, e a me va bene così.

Io stavo con lei da venti anni.

Venti anni insieme. No venti anni normali.

In questi venti anni, quindi anche adesso, ogni istante dei miei pensieri, era… è, attaccato alla sua pelle. Io m’ero innamorato del suo corpo, da subito, e cinque minuti dopo, di lei. Di quello che faceva, pensava, diceva. Di come era con me. E per venti anni, ogni volta che mi era possibile, le dicevo quanto fosse straordinario quello che lei mi faceva sentire, e quanto io da lei imparassi, e come fossi cambiato. In meglio, credo, ascoltando lei. E se era lontana da me, glielo scrivevo sul cellulare.

Un dialogo continuo. Su tutto.

Io, le dicevo tutto.

Lei meno. Per carattere, diceva, non era abituata a raccontare di sé. Pensava di sé stessa, che erano più importanti gli altri.

Che impressione, a parlarne al passato…

Perchè, se è vero che l’amavo, io la amo anche ora, che se ne è andata da casa.

Io non ho mai sentito confini, per l’amore che avevo…, che ho, per lei.

Io mi svegliavo al mattino, e anche se stavo malissimo, e con la febbre a 50, il primo pensiero del mattino, era pieno della bellezza, e della forza, di sentirmela accanto e di saperla vicina a me.

Io non ho mai pensato che fosse normale, averla accanto a me. Pensavo che fosse una fortuna; una fortuna vera, di quelle che bisogna meritarsi ogni giorno.

E ogni giorno, io provavo ad amarla di più.

Mi sentivo come un bambino che avesse continuamente fame e voglia di giocare, e sapesse, che poteva mangiare qualsiasi cosa, e fare qualsiasi gioco gli venisse in mente, in qualunque momento gli venisse in mente, e io bambino venivo accettato… a braccia aperte, un tempo.

Io la guardavo, e il mondo intero scompariva, senza nessuna fatica e possibilità di ricomparire. Io la guardavo, e c’era solo lei nei miei occhi. Me la sentivo circolare nel sangue… me la sento, circolare nel sangue, anche se, adesso, fa male. Io la guardavo, e sorgeva il sole, e poi tramontava, in mezzo al mare, lasciando nell’aria scintille delle sue parole, delle sue labbra, del suo seno… del suo culo…

Io la guardavo, e imparavo ogni giorno la felicità che mi regalava, con ogni suo gesto, che era per me… mi sembrava, fosse per me: per accogliermi, per liberarmi, per soddisfare le mie voglie, per insegnarmi a vivere col suo esempio… per guardarmi… non mi guarda più nessuno.

Un giorno è venuta da me.

Si è seduta davanti a me, e mi ha detto che voleva tempo. Che aveva bisogno di tempo, e che, in questo tempo, voleva essere sola.

Io ricordo ancora il suo volto che mi guardava, e mentre mi guardava, scuoteva la testa, come se non volesse essere lì; come se non volesse che lì ci fossi io.

La paura più orrenda di tutta la mia vita, che diventava vera, e reale, davanti a me. Si riempiva di colori neri e suoni. Rendeva l’aria solida e irrespirabile, come una nebbia inquinata. Mentre io non ci credevo. Non stava succedendo; non era, semplicemente, possibile.

Io ho sempre pensato che dialogare con qualcuno, significhi ascoltare, innanzitutto, e poi cercare di comprendere se le proprie parole – quelle che si pensano mentre s’ascolta l’altro – abbiano o meno un senso; una possibilità di convincere, magari, che la propria opinione possa essere importante, o, addirittura, migliore. E io, quel giorno, potevo solo restare in silenzio. M’ero convinto, da subito, che nessuna parola mia, potesse farla tornare indietro.

Ho abbassato la testa; ho sperato che il boia Mastro Titta fosse dietro di me con la sua mannaia, pronto a tagliarmela, la testa. Perchè tutto finisse subito, presto.

Ho realizzato, come un improvviso vuoto di calore bianco e doloroso, che non potevo parlarle, che non potevo mandarle messaggi; che non l’avrei avuta a fianco a me nel letto; che lei non mi avrebbe raccontato cosa avesse fatto durante la giornata; che con lei non potevo andare in vacanza; ho capito che non avrei potuto fare l’amore con lei.

Ho capito che non era più, mia.

E, subito dopo ho capito… non so se ho capito qualcosa, allora, e neanche adesso, in verità.

Ma, allora, due cose, m’erano chiare: che quello che mi stava succedendo davanti era la fine di un percorso, che mi si era già annunciato, da tempo, e che non avevo voluto vedere fino in fondo, anche se percepivo che c’erano delle cose che stavano cambiando, e glielo avevo chiesto se fosse così; senza ottenere risposta, però.

E poi, sapevo, perché lo avevo detto mille e mille volte – e non lo dicevo per finta – che dovevo avere totale rispetto della sua libertà, anche se questo mi faceva talmente tanto male da annullarmi completamente.

Io non ero… non sono, più.

Io le avevo detto, mille volte, che sarebbe bastato anche un suo semplice messaggio sul mio cellulare. Poteva scrivermi che aveva un altro, le avevo detto; poteva scrivermi che non mi amava più. Sarebbe bastato. Non le avrei chiesto di parlarmi; non avrei provato a contrattare; non avrei provato a convincerla, a restare con me: era libera di tutto, e non doveva nemmeno spiegarmi nulla.

Mentre l’avevo davanti, mentre si alzava dalla sedia e andava via, era come se io fossi sul ciglio di una scogliera infinita; sull’orlo di un gorgo buio in tempesta, e stavo per caderci dentro, senza nessuna possibilità di salvezza. Solo lo schianto finale. Ad un istante da me.

E dentro di me, non avevo neanche le parole per raccontarmelo.

E lei che non era più davanti ai miei occhi.

E io non ci credevo. Io cercavo, in quel che avevo visto e sentito, qualcosa che mi dicesse che avevo ancora una possibilità d’amarla, e d’essere amato da lei; un segno che lei fosse ancora incerta, su quel che sentiva per me. E non lo trovavo, ed ero terrorizzato.

Aveva chiesto tempo, e silenzio, e il mio atto d’amore per lei – l’unico che avrebbe accettato da me – era darle tempo, e silenzio.

Non era una concessione. Non le dovevo dare il permesso, per quello che stava facendo; per quello che mi, sta facendo.

Io potevo solo amarla e avere rispetto di quel che mi chiedeva. Solo questo, posso fare, per dirle, senza poterglielo dire, quanto l’amo.

Nessuna, nessuna delle parole capaci di raccontare quanto io fossi innamorato di lei… quanto io sono innamorato di lei… poteva salvarmi, dall’abisso della consapevolezza del silenzio che mi aspettava, e che, però, non riuscivo nemmeno ad immaginare.

Non poterle parlare, non poterla ascoltare; non poterle scrivere, non poterla leggere. Non poterla vedere; non poter fare l’amore con lei. Non poter camminare con lei. Non poter sognare di lei, di quel che insieme potevamo vivere. Non guardarla mangiare…

Quella che era tutta la mia vita di emozioni e amore, spariva, d’improvviso.

Come se io fossi morto. Come se non ci fosse più, un futuro. E non c’era.

Solo il vuoto.

E poi la paura.

E dentro la paura, la paura che lei in realtà avesse un altro uomo, o cento altri uomini.

Appena lei si è alzata dalla sedia, ed è uscita dalla porta di casa. Il primo pensiero che ho avuto, è che avesse scelto un altro uomo.

Nelle nostre parole, io le dicevo sempre che la volevo mia, solo mia e per sempre mia.

Che detta così, sembra una condanna all’ergastolo.

Ma era solo il mio modo di comunicarle come io immaginassi la mia, di vita, con lei sempre con me.

Era uno dei modi con i quali cercavo di comunicarle cosa lei significasse per me. La sostanza di cui era… è fatta, la mia vita, e la mia vita è fatta di lei. E vivere senza di lei era… è impossibile. Pure se vivo ancora.

E di me le dicevo la stessa cosa.

Che io ero suo, soltanto suo, e per sempre suo. E non era mai, una bugia, ogni volta che glielo dicevo, o scrivevo, ma era proprio come un’onda d’acqua incontenibile che rompe un argine, ogni argine, ed esce fuori e riempie tutto di sé, perché non può fare altro: è la sua natura, e lei era… è, la mia natura. E sapevo… so, che ero e sono suo, solo suo, e, per sempre, sarò solo suo.

E poi aggiungevo, e posso aggiungere anche ora, se serve, che questo non avrebbe mai dovuto farla sentire vincolata a me, in nessun modo: la sua libertà veniva… viene, prima di me.

Era una cosa che le dicevo, perché, mi veniva da dentro, dirgliela, senza nemmeno dovermela spiegare.

Se ora guardo indietro, e provassi a spiegare perché, mi venisse così “naturale”, dirle, e scriverle, quelle cose, proverei a dire che avevo… ho, fiducia in lei, persino adesso, ho fiducia che lei, come me, avrebbe fatto di tutto per amarmi, e per continuare, ad amarmi. Se si senta d’amare qualcuno, e lo si ami con ogni fibra del proprio corpo e dei propri pensieri, non c’è spazio per nessun altro. Non serve, imporsi qualcosa: imporre poi, oltre che sbagliato, è proprio da fessi.

Perchè le persone alla propria libertà di amare, magari anche solo di nascosto, non rinunciano. L’amore bisogna conquistarselo ogni giorno, e meritarselo, e non ha senso pensare che con qualche divieto, si possa conservare l’attenzione che l’altro dovrebbe avere per noi.

Quell’attenzione, o c’è, o non c’è.

E, per di più, io penso, e lo penso davvero, che chi ama sia innocente.

Chiunque, può mettersi in piedi su un tavolo, e giudicare se si tratti d’amore o d’una illusione; o se un amore sia lecito, o meno. Potrebbe persino avere motivi validi perché gli sia concesso di giudicare.

Ma non ne sa un cazzo.

Non si può giudicare l’amore, quando vuole solo il bene dell’altro, quando è arreso, di fronte alla propria forza e profondità. Non si può giudicare un amore, guardandolo da fuori, con gli occhi solo pieni delle proprie regole e pensieri e conoscenze: cosa ne potremmo sapere noi dei sentimenti più profondi che governano l’agire di chi abbiamo di fronte ?

E, francamente, non si può giudicare nemmeno quando si scelga di andare a letto con qualcuno che non sia l’altro della propria coppia.

Si può sentire dolore, quando a noi accada. Anche infinito dolore, ma non ci può essere giudizio.

Se è accaduto, è perché l’amore che c’era, non era sufficiente, semplicemente. E se non era sufficiente, vuol dire che non si è fatto abbastanza. Che io, non ho fatto abbastanza.

E pure quando si pensi d’aver fatto abbastanza, o d’essere stato tutto, e tutto si è dato, in ogni senso, di quel che si aveva da dare, senza pigrizia alcuna, può accadere d’essere lasciati, o che l’altro, o l’altra, decida di sentirsi altre mani addosso.

Succede, e ci si può anche morire di dolore perché è successo, ma succede, e non ci vedo margini per dare giudizi, e non ci vedo colpe. Persino se fossi infinitamente ferito e deluso.

E infinitamente ferito, lo sono.

Nei miei ultimi venti anni, quelli con lei, neanche il desiderio lontanissimo di un’altra donna, m’era mai venuto.

Eppure, il primo pensiero che ho fatto, quando lei si è allontanata da me, era che fosse tra le braccia di qualcun altro. Un pensiero che mi fa orrore. Che mi ripugna proprio. Non dovrei farlo, un pensiero del genere: perché penso di non averne neppure diritto a farlo. Ma lo faccio, e per primo.

Anche ora.

Lei era mia, ma io non la possedevo. La sua libertà più profonda, io potevo accarezzarla, perché tutto di lei volevo accarezzare, solo riconoscendola, e accettandola. Anche se nel mio pensiero io continuavo, e continuo, a sentire quanto era bello, e infinito, che fosse mia.

I pensieri, s’intrecciano, e s’intrecciano parecchio. Perchè mentre pensavo che lei avesse un altro, ho pensato anche, che questo pensiero che m’è venuto… m’è venuto perché poteva succedere a me. Perchè, forse, poteva essere l’unica ragione per allontanarmi da lei, anche se era una ragione che non mi si era mai, nella realtà, affacciata neanche al cervelletto.

O al pezzetto di neuroni che, dicono, abbiamo nello stomaco.

Era una supposizione del tutto teorica, ma mi ha costretto ad un pensiero. Ho provato ad immaginare la situazione in ruoli ribaltati.

Io, nella sua condizione, avrei considerato mio diritto, voler andare a letto con un’altra donna. Per una qualunque ragione, ivi compreso il puro divertimento. Un diritto non discutibile.

Ma io non avevo chiesto tempo, e nemmeno di restare solo.

E rimanevo… e rimango, prigioniero della ragnatela della paura. Prigioniero di immagini oscene e orrende. Un altro uomo che le mette le mani addosso. Che la penetra… e lei che prova piacere.

E lui che ha il cazzo più grosso del mio. E che magari, è più intelligente e simpatico di me.

E, ancora, con fatica, sempre, ogni giorno di questo anno e mezzo lontani, ho cercato, e cerco, di tenere distanti da me questi, che non sono neanche pensieri. E’ qualcosa cui io, semplicemente, non ho il diritto di accedere, lo ripeto. Lei mi ha escluso, dalla sua vita. E io devo starne lontano.

In fondo, è stata una bella scoperta, accorgersi che avere rispetto per le sue scelte, comprese quelle che la porterebbero nel letto di un altro, scatena immediato il mio tentativo di rimozione delle ferite che sentirei e sento: mi posso difendere…ci provo almeno, e provo ad aver rispetto della sua libertà, cancellando i miei pensieri; quelli che non dovrei avere.

Non ci penso, e quindi non esiste.

Magari, fosse così semplice.

Se lei ha chiuso la porta, comunque, io non ho il diritto di spiare dal buco della serratura della mia immaginazione.

Ho cercato, e cerco, di interrogarmi, su quale meccanismo mentale mi abbia scatenato questo terrore infinito.

Se lei andasse, o fosse andata a letto con un altro, sarebbe finita davvero: forse è per questo, che è stato il mio primo pensiero. Per come la conosco io, non sarebbe mai stato, non potrebbe essere, per puro divertimento, ma solo perché lei pensa che sia la cosa giusta da fare: lei lo vorrebbe perché sentirebbe qualcosa di profondo ed importante, per un’altra persona.

E io non potrei fare nulla.

E posso io rassegnarmi all’idea che tutto sia davvero finito ?

Quanto somiglia all’idea della morte.

Io so, che dovrò morire. Ma cerco di vivere. Cerco di dare profondità, e pienezza, al mio vivere. Cerco di essere il meglio che posso, mentre vivo. Ma ci sarà un momento in cui io comprenderò, per un solo istante, l’enorme eternità che mi entra dentro mentre io scompaio. E che tutto quel che ho fatto, o sono stato, non mi difende, da quello che accade.

Ecco, l’idea che con lei sia tutto finito, somiglia all’istante in cui, forse, sarò consapevole della mia morte, e della inutilità, di ogni mia difesa.

Devo togliermi dalla testa, l’idea che lei sia mia.

Io di lei, non possiedo niente. Neanche il ricordo di lei, è mio. Anzi, non ho diritto neanche ad avere, dei ricordi. E poi io, i ricordi, in questo anno e mezzo che lei è stata lontana da me, li ho tenuti a bada.

No, non è vero.

Quante volte, mi sono venuti in mente i nostri momenti insieme, e quante volte, ho cercato in quei momenti, qualcosa che io non abbia fatto, o detto, che poteva renderli migliori, più importanti per lei; più vitali, tanto da farle desiderare nuovi momenti insieme. E quanto sono stato stupido, per quello che non ho fatto, o non ho detto; per non essere stato abbastanza, per lei.

In questo anno e mezzo, io ho parlato con lei, continuamente.

Ho cercato di raccontarle quanto l’amavo… e l’amo. Mi succedeva ad ogni angolo di strada dove eravamo passati insieme. Ogni volta che vedevo… che vedo, passarmi vicino un’automobile come la sua. E quante volte, ho guardato la targa dell’auto, per capire se fosse lei… se fosse sola… in auto. E mi succedeva, e mi succede, guardando i luoghi dove abbiamo fatto l’amore: il nostro letto, la cucina, il divano… il bagno…

E delle cose che sentivo, avevo voglia di scriverne, a lei. E non lo facevo… e non lo faccio.

Non posso raccontarle quante notti sono stato sveglio a guardare fuori dalla finestra, se i fari della sua auto arrivassero a casa; e non posso raccontarle quante volte al giorno guardo il cellulare, per vedere se c’è un suo messaggio. E non posso raccontarle che ogni giorno, quando mi vesto, penso a come lei potrebbe guardarmi, se m’incontrasse vestito in quel modo; e nemmeno posso raccontarle, che, ogni mattina, scelgo mutande e maglietta, immaginando cosa penserebbe lei, se, spogliandomi, mi trovasse con quelle mutande e quella maglietta. Colori abbinati e tutto stirato. Mi stiro tutto. Se lei mi guardasse, vorrei che mi trovasse bellissimo. Suo, nel modo in cui lei potrebbe volermi.

E non posso raccontarle che, mentre corro, io, per la prima volta in vita mia, prego. Prego con le preghiere che mi ha insegnato mia madre da bambino. In ginocchio ai piedi del letto, e con la testa bassa. Prego di avere come unico pane quotidiano il suo amore. Prego che lei sia il mio angelo custode cui sono stato affidato. Prego la Madre perché le mie preghiere siano ascoltate. E accolte, ed esaudite.

E non posso raccontarle quanto chiedo, che ora, esattamente ora, le venisse un pensiero di me. E di me sentisse che esisto, e volesse toccarmi, sfiorarmi, parlarmi, stare con me. Amarmi, magari. Esattamente ora, prego, che le venga in mente il desiderio di vedermi, per un motivo qualunque. Per un qualunque motivo, il più stupido possibile. Che di me senta il bisogno; che voglia allontanare, con un solo gesto della sua mano, ogni ombra e ogni notte.

Adesso, per favore, ora.

E, nello stesso tempo, ogni volta che lei mi ritorna dentro, praticamente ogni minuto, io cerco di pensare ad altro. Di impegnarmi in qualcos’altro. Cerco una canna da fumare che, magicamente, cambi tutto. Io non voglio pesarle addosso, mentre soffro come un cane bastardo. Sento di non avere diritto, a dirle che l’amo. O a proporle d’uscire insieme. Ma, in ognuno di questi cinquecentocinquantotto giorni circa di lontananza, io in realtà, l’ho pensata sempre.

Il primo pensiero appena sveglio. Anche alle tre del mattino, è lei. Dove sia, cosa faccia. Con chi sia. Se si diverta. Se stia bene, o male. Con chi parla e cosa sente e cosa pensi. E pure tutti i pensieri dopo.

In questi cinquecentocinquantotto giorni, in realtà, non c’è stata solo lontananza.

All’inizio, dopo un paio di settimane che mi aveva parlato, le ho scritto un messaggio. Le ho scritto che mi mancava. E lei mi ha risposto, che le mancavo anche io. Poi, il giorno di San Valentino, si è presentata nel mio ufficio, come fosse una qualsiasi cliente, e mi ha lasciato un cioccolatino, un Bacio. Ma io sentivo di non avere diritto, a mangiarlo. E l’ho conservato in uno dei cassetti della mia scrivania. E’ ancora lì, e quando apro il cassetto, cerco di non guardarlo.

E un giorno, è venuta sempre al mio lavoro, ha aggirato la scrivania del mio ufficio, e mi ha baciato, con la lingua e tutto. E io ricordo che ero lì, come un salame. Che non capivo cosa stesse accadendo, e nemmeno perché.

Per provare a difendermi, solo per provarci, m’ero costretto a pensare che lei non c’era più per me, nonostante tutte le volte che m’avesse detto, e scritto, che per me, ci sarebbe sempre stata; e lei viene da me, dopo avermi buttato da parte, e mi bacia. E io non sapevo perché. Avevo talmente tanta paura, che non l’ho abbracciata, non ho fatto nulla. Non ho detto nulla.

Per non pesare, per non disturbare.

Per non sentirmi dire che, anche se mi baciava, non cambiava niente, tra noi. Lei mi sarebbe stata ancora lontana. Mi sta ancora lontana, ma non me l’ha detto, definitivamente. Se le avessi fatto una domanda, magari, mi avrebbe detto ufficialmente che era finita.

E io ho preferito restare col dolore della possibilità.

Io conservo piccole pietre che trovo, quando le trovo, a forma di cuore. E lei, è venuta in ufficio, a portarmi delle piccole pietre a forma di cuore, che aveva trovato lei. Mi ha mandato gli auguri di Capodanno, di Natale, per il mio compleanno.

Ogni volta che leggevo un suo messaggio, mi chiedevo perché, mi scrivesse. Quei messaggi facevano più male a leggerli, che a non ricevere nulla. Cortesi, freddi. Nessuna parola tra quelle usate tra noi. Nessuna apertura o spiraglio a noi. Estrema attenzione a non usare mai parole che concedessero una illusione d’essere amato, desiderato.

Mi facevano quasi rabbia, quei messaggi. Mi sembravano spargere il sale sulla ferita aperta.

Non credo sia difficile comprendere che non potrei mai accettare qualcosa meno di tutto.

Meglio niente. Mi ammazza, e mi ammazzerà, ma meglio niente.

Dopo un primo periodo in cui avevo provato a convincermi che la mia storia d’amore con lei fosse conclusa – un periodo di bruciante dolore e d’incapacità a reagire, se non col suicidio, con una corda, cui ho seriamente pensato – ho passato mesi, ad essere sospeso ad una pallidissima luce che non diventava mai giorno. Mesi, e mesi, e giorni, e ore, e minuti e istanti ad aspettarla. Ad immaginare che accadesse qualcosa che la spingesse a cercarmi. Mesi, e mesi, e giorni, e ore, e minuti infiniti, ad immaginare che mi aveva lasciato… che mi ha lasciato, per un qualche strano motivo nobile; per un obbligo sentito e preso in nome di non so cosa; per un senso di colpa per qualcosa che non esiste. Per qualcosa che sarebbe passato, che stava passando e che poteva lasciarsi alle spalle.

Un segno, cercavo un segno che mi permettesse di rimontare la marea; di avvicinarmi; di avere la possibilità che, una volta risolto qualunque problema, lei potesse tornare da me.

E mentre pensavo questo, sapevo, e sentivo… e so, che se ami qualcuno, e se sai che quel qualcuno è lì con le braccia aperte, ci vai da lui. Non resti in silenzio. Non rimani lontana. Non stai attenta alle parole che dici e scrivi, e a quelle che non dici e non scrivi.

E poi mi chiedevo, e mi chiedo, in cosa io, posso aver mancato.

Non sono perfetto.

Certe volte, quando discutevamo di lavoro, potevo essere troppo arrogante e davo troppe cose per scontate. Ma non penso d’aver mai alzato la voce, nemmeno una volta, per nulla. Penso di aver sempre provato a dare il giusto peso e rilievo alla sua opinione. Posso anzi dire che mi sono sempre sforzato di guardare il mondo dal suo punto di vista, e spesso lei aveva ragione, e ogni volta che aveva ragione, io glielo dicevo. Non era un riconoscimento: non stavo ammettendo controvoglia qualcosa. Non mi sentivo in gara. Le dicevo solo quello che pensavo. Se non ero d’accordo con lei, e quando ero d’accordo con lei; e quando i fatti le davano ragione, e avveniva spesso, in verità. E questo mi spingeva ad avere sempre più attenzione alle sue parole, e ai suoi silenzi.

La verità, è che io avevo bisogno della sua approvazione.

Mi sentivo benissimo, quando lei mi ascoltava, e condivideva il mio pensiero. Mi sembrava di essere importante. Ma, soprattutto, mi sembrava d’aver convinto una persona più intelligente di me, più sensibile, più attenta, migliore.

Se lei mi ascoltava, io pensavo d’essere arrivato vicino alla verità, e che le mie parole erano degne.

Ma qualcosa, dovevo aver fatto, o detto.

Per tutto l’anno, prima che mi lasciasse, abbiamo fatto l’amore solo quattro volte. E non era normale.

Noi facevamo l’amore sempre. Ed in ogni modo possibile e in tutti i modi che immaginavamo.

E giocavamo. Inventavamo storie insieme, e le interpretavamo. Storie di corteggiamento, di nuove conoscenze, di ruoli. Storie di sesso. Facevamo l’amore ogni volta con una persona diversa, ed eravamo sempre e solo noi. Ed era bello.

Francamente, mi sembrava… mi sembra… fosse bello per tutti e due.

Io la fotografavo, anche se lei non si piaceva in foto, e filmavo, mentre facevamo l’amore.

Io sognavo di fare l’amore con lei a novantacinque anni, mentre guardavamo insieme i film del nostro amore di trenta anni prima.

E conservo tutte le foto, e tutti i nostri film. Che solo noi abbiamo visto e voluto.

Ma lei, da un anno, non voleva fare l’amore con me. O meglio: non mi ha mai detto che non voleva. Però succedevano sempre cose che non permettevano di fare l’amore.

Lei aveva male a qualcosa, e io pensavo solo a come potesse curarsi e star bene. Oppure gli impegni la portavano fuori città per lavoro. E poi magari era stanca. Oppure c’erano amici a cena, o parenti; o la sera c’era un cinema, un teatro, un libro da finire, una puntata di uno sceneggiato televisivo.

Quattro volte. Quattro volte solo. Compresa l’ultima, che ancora ricordo. Come un chiodo piantato nel petto, perché quella, volta, mentre ero dentro di lei, mi chiedevo, terrorizzato, se quella non potesse essere l’ultima volta che io facevo l’amore con lei.

Ed è stata l’ultima volta. Ma io non voglio, che sia l’ultima.

Io non protestavo mai, se non potevamo fare l’amore. Non recriminavo nulla, e non potevo rimproverarla, e nemmeno volevo, in verità. Di cosa poi ? Io ero… sono innamorato di lei, e l’unica cosa che volevo fare, quando capivo che non era possibile fare l’amore, era fantasticare sulla prossima volta che avremmo fatto l’amore. Su un nuovo gioco da inventare insieme. Su come darle più piacere che potessi… la prossima volta.

E poi, la prossima volta, non è arrivata mai.

In questo anno mezzo, tutte le foto che ho di lei, e di noi a letto insieme, e tutti i film che abbiamo girato del nostro amore… io non ho più guardato niente.

Io non avevo, e non ho, il diritto di guardare.

Lei si era allontanata da me, e io non dovevo avvicinarmi.

E quando mi sono masturbato, per sfogarmi, per bisogno… in questo tempo di infinita e dolorosa lontananza, l’ho fatto guardando dei fumetti. L’astrazione totale di una donna. Perchè masturbarmi pensando ad un’altra donna che non fosse lei, era… è, per me, semplicemente impossibile. Non ci riesco proprio; l’idea non si affaccia minimamente alla mia testa.

E quando guardavo quei fumetti, qualche lampo di noi insieme, mi attraversava – e io lo sapevo, che sarebbe successo, perché per me, fare l’amore, era… è solo fare l’amore con lei – ma lo mandavo via. Perchè non avevo, e non ho il diritto di avvicinarmi nemmeno al ricordo lei.

Lei non mi ha dato il suo permesso, e, in verità, se lei non fosse partecipe, pienamente, dei miei pensieri su di lei, io non mi masturberei mai, pensando a lei. Mi sembrerebbe di violentarla. Di prendermi un piacere che non mi spetta, perché non è nostro, e se non è nostro, non può essere mio.

Di quello che non è nostro, a me, non frega un cazzo.

No. Non ho cancellato tutto, ancora.

Lo farò, appena me lo chiede.

Perchè se è finita davvero, io non avrò più il diritto, nessun diritto, nemmeno quello dell’amore e della nostalgia e del desiderio, di conservare nulla di noi.

Certe volte, mi sembra di sentire un vuoto pesante nello stomaco, e le gambe camminano male, e tremano e io mi sento come se non potessi respirare, e come se qualcosa mi prendesse tutto quello che ho dentro, e lo annodasse per soffocarlo.

Lo so che devo essere attento, ad usare le parole. Io chiamo dolore, quello che sento; paura, quella che respiro.

Ma non voglio, e non posso paragonare le mie emozioni e i miei sentimenti a quelli di una madre che vede il suo figlio piccolo colpito da una brutta malattia.

Mi vergognerei, a pensare d’essere primo nelle gradazioni del dolore.

Ogni istante, in verità, cerco di immaginarlo come se fossi sotto un suo esame e lo passo a sentirmi addosso gli occhi di lei, e anche per questo, cerco di comportarmi sempre come per lei sarebbe giusto ed accettabile. Cerco di essere alla sua altezza. E per questo, cerco di mettere un qualche messaggio d’amore, in ogni gesto che compio; anche se so che lei non mi guarda, e non saprà mai, quello che faccio, o dico, o penso, l’attenzione, che provo a metterci. E non lo saprà solo perché non le importa. Se fosse per me, le racconterei tutto, sforzandomi di non annoiarla.

E poi, un giorno, sei o sette mesi fa mesi fa, ho deciso di avere coraggio, e le ho chiesto di incontrarmi. Ci siamo incontrati poi, tre mesi fa, circa, dopo un’attesa durissima, per me, e quando per lei è stato possibile.

Ho avuto paura, nel chiederglielo.

E avevo paura, per due ragioni. Da una parte, perché incontrarla, avrebbe significato comunque, provare ad uscire dallo stato di incertezza – del tutto teorica lo so – rispetto alla sua effettiva volontà: incontrarla, avrebbe potuto significare sentirsi dire che era finita davvero.

Ma, dall’altra, chiederle d’incontrarla, avrebbe potuto significare far nascere in lei, una paura.

La paura che al nostro incontro io potessi usare violenza contro di lei, in un qualunque modo.

Io non lo so, se lei lo abbia pensato.

Io, l’ho pensato. Io ho cercato di comprendere se, trovandomi con lei da solo, avrei potuto alzare le mie mani su di lei. O peggio.

Io me lo sono chiesto, perché è sbagliato, per me, non fare a sé stessi tutte le domande. Ed è sbagliato pensare che sia sufficiente, farsi tutte le domande. Perchè esiste comunque una possibilità, che i propri comportamenti, non siano guidati da razionalità, e da amore.

Quando sei felice, magari ti metti a ballare per strada, senza musica, e mentre tutti ti guardano, e pure sapendo che hai lo stesso senso del ritmo di un palo della luce.

Che cosa poteva succedere, quindi, a me, dopo oltre un anno di continua tensione, di rabbia, per come mi sono sentito trattato ? La frustrazione, per essere scomparso dai suoi occhi, e perché lei era… è scomparsa dai miei. L’umiliazione, continua, ogni volta che la incontravo per la città, e che mi salutava, andando via, poi, senza voltarsi mai verso di me. Senza sorridere mai.

Mi sono sentito, e mi sento, un appestato. Un cane randagio. Un niente.

E’ così, che mi sono sentito, e mi sento, per la maggior parte del tempo.

Un niente.

E certe volte, persino un niente, ha bisogno di affermare se stesso, in un qualche modo.

Ma, in realtà, io non ho mai neanche pensato di poterle far male.

Al contrario, io avrei voluto scriverle ogni giorno, per ognuno dei giorni in cui era stata… è lontana da me… che l’amavo, e che l’amo. E ogni giorno, scriverlo una volta in più; fino ad arrivare a scriverlo cinquecentocinquantotto volte in un giorno solo.

E ogni giorno provare a dimostrarle quanto fosse vero, quel che scrivevo.

E non l’ho fatto, per timore di assillarla, di invadere lo spazio e il tempo che mi aveva richiesto. Figurarsi pensare di procurarle dolore. Mai.

E solo questo, le avrei detto; solo questo avrei provato a dirle, se avessi potuto incontrarla: quanto l’amo.

Io le ho sentite, la rabbia, la delusione, l’angoscia, il vuoto, il dolore, l’impotenza, l’umiliazione, ma non ne ho mai dato a lei la responsabilità. Non avevo, e non ho bisogno di dare a qualcuno la colpa di come mi sento, e a lei, meno che mai.

Lei è libera di fare quello che vuole, qualsiasi cosa sia.

E io… io mi confrontavo, e mi confronto, col tentativo di restare vivo e di desiderare ancora una felicità mia; e cerco d’imporre ai miei pensieri che questo tentativo non abbia a che fare con lei, perché le sue scelte me lo impedivano e me lo impediscono. Ma da lei non potevo, e non posso, in verità, prescindere.

Non me ne fregava, e non me ne frega nulla, di un’altra donna, e, francamente, nemmeno di un’altra vita.

Nemmeno suicidarmi, era giusto.

Avevo, ho, la corda giusta, e ho imparato come si fa un nodo scorsoio. Sono bravo. Ma decidere di farla finita, sarebbe stato solo un altro modo di usare violenza su di lei, che non c’entra nulla.

Ho corteggiato, l’idea del suicidio; ho scelto persino la balaustra adatta da cui buttarmi per restare appeso. Ma sapevo che non lo avrei mai fatto.

Lei non meritava, e non merita, che io le faccia una cosa così.

Anche se, a parte drogarmi, non so che cazzo farmene della mia vita, ora.

Le avevo chiesto se volessimo incontrarci a casa nostra.

“Preferirei di no”. Mi ha risposto; come Bartleby lo scrivano di un libro di Melville.

Nei miei sogni più bambini, io immaginavo invece che sarebbe arrivata a casa, e avrebbe parlato con me. E io avrei capito cosa accadeva. E poi avremmo fatto l’amore. E io avrei pianto di felicità. Perchè nasceva una cosa nuova, che non era quella di prima, e che era più bella, di quella di prima.

Non ci credevo, quando lo immaginavo, ma lo immaginavo lo stesso. E tremavo.

Per farla sentire tranquilla, e d’avere sotto controllo ogni cosa, ho lasciato a lei ogni decisione pratica sul nostro incontro: dove vederci, e dove andare e cosa fare, e con quale auto muoverci, se non volesse camminare a piedi.

Con la sua auto, mi ha portato in un’area di parcheggio dell’autostrada. Una di quelle aree senza autogrill. C’eravamo baciati, una volta, lì, quando ancora non vivevamo insieme. E ci aveva colto il desiderio di avvicinarci, impellente, immediato, senza mediazioni. Solo l’urgenza di sentirci.

Ma lei non mi ha portato lì per ritrovare una bella memoria nostra.

Mi ha solo portato in un luogo di passaggio: il primo che le sarà venuto in mente, forse.

Anonimo, in quel momento. E spoglio, e deserto.

Di noi due, di quando ci eravamo baciati, non era rimasto niente.

Mi ha detto che non ha avuto altri uomini, però non mi ha detto che mi amava.
Mi ha detto che ha pensato a me. Ma non mi ha cercato mai.

Mi ha detto che si sentiva in colpa con me. E niente di quel che ho cercato di dirle per provare a toglierle ogni senso di colpa nei miei confronti, è servito a qualcosa.

Io non voglio, che si senta in colpa per me. Non mi deve niente. E sentirsi in colpa, in realtà, significa solo che il desiderio di tagliar via ogni cosa, è frenato, non si sa per quanto, da una specie di inutile senso del dovere.

Non c’è amore, nel sentirsi in colpa.

Ma poi, colpa di cosa ?

Di voler vivere un’altra vita ? Di voler pensare a sé stessa ?

E’ la sua vita. E se non vuole passarla con me, è solo perché io non ho da offrirle nulla che abbia valore, o nulla che lei desideri. E’ libera, anche da me. E’ suo diritto.

Io non metto in discussione nulla, di lei, e delle sue scelte, e non rivendicavo, o rivendico, qualcosa, solo perché l’ho amata.

E io l’ho amata, e l’amo. Talmente tanto che ogni istante passato con lei, quel giorno, avevo dentro un cuore che batteva tre volte più velocemente del normale e mi mozzava il respiro e i pensieri. E mi spezzava la voce e toglieva ogni forza alle braccia.

Avrei voluto prenderla per mano. Ma non potevo toccarla. Non ne avevo, e non ne ho alcun diritto. Avrei voluto dirle tutti i pensieri, uno per uno, fatti in tutti e cinquecentocinquantotto giorni di lontananza: ogni minuto, del giorno e della notte. Solo per provare a farle comprendere cosa avevo dentro… cosa ho dentro. Cosa avesse lasciato in me. Quali macerie.

Quale terribile supplizio vederla dinanzi a me, e non poterla avere.

Degna tortura di Dei greci.

In cinquecentocinquantotto giorni, apparentemente, non era cambiato nulla.

Una cosa sì. Non scuoteva più la testa, guardandomi.

Ma io sentivo, e sento, che quell’incontro, rimandato più e più volte; atteso come una goccia d’acqua dolce dentro un mare salato, era servito solo ad una cosa.

Lei aveva potuto finalmente affrontarmi, e dirmi alcune delle cose che sentiva. E dire le cose che sentiva, era come scriverle. Renderle pietre che costruivano un muro. Lei da una parte, io dall’altra.

Parlarmi, alla fine, serviva a lei solo per farla sentire più libera da me.

E mentre annaspavo, affogando, cercando aria, sentivo, capivo, che, per lei, la sua separazione da me era comunque giusta. E avevo la tentazione di arrendermi. Di dirle io, che era finita, tra noi.

Se fosse servito per farla star bene, sarebbe stato giusto, dirglielo: chiudere io; sarebbe stato un ultimo atto d’amore, che, però, m’avrebbe definitivamente reso ombra. Anzi, nemmeno ombra. Niente. Una polvere lontana e spersa.

E invece, mi sono tenuto al riparo con la mia ultima vigliaccheria.

Accettare che del nostro colloquio non ci fosse una conclusione definita, era l’ultimo velo che avevo a disposizione, per non sentire tutta la disperazione su di me, di una fine senza nessun inizio.

Lasciare che le parole restassero sospese, serviva a continuare a soffrire per la lontananza, e non per la fine del suo amore per me.

Quanto mi piacciono le illusioni.

Ho fatto una cosa che non faccio mai, e che ancora mi pesa.

Dall’aiuola, ho raccolto un fiore, una margherita. Non strappo mai i fiori. L’ho fatto in un accesso di egoismo. Perchè avevo bisogno di avere tra le dita qualcosa che fosse semplice, e bello, e l’ho dato a lei.

Magari cinque minuti dopo lo ha buttato via, e va bene così.

Ma era una cosa che avevo toccato io, e che per un istante è rimasta tra le sue dita.

Posso solo tornare ora alla mia vita senza di lei.

Una vita fatta di tentativi continui di pensare solo a quel che ho davanti. Una vita fatta di tentativi continui di rendere inaccessibile ogni passato, e di non desiderare il futuro. Un passo per volta, a testa bassa verso la notte. E poi ancora, e ancora.

E la consapevolezza che, quando lei pensa al suo futuro, pensa ad un futuro in cui io non ci sono. E questo mi toglie il fiato, e la forza.

Adesso, non ho davvero più niente.

Adesso solo lei, può cambiare il corso dei giorni e della Primavera. Solo i suoi gesti e le sue scelte. Come è sempre stato, peraltro.

Sono mesi, che non la vedo o sento. E non sono mai stato male come adesso.

Mi ha detto che non è felice. E io non potevo dirle che tutta la felicità esistente nell’intero universo infinitissimo, io avrei provato a dargliela.

Perchè da me, non la voleva. Se l’avesse voluta, le sarebbe bastato, le basterebbe, allungare la mano.

(Suono di notifica di arrivo di un messaggio WhatsAp sul cellulare).

E’ arrivato un messaggio, sul cellulare.

Lo ha scritto lei.

Non mi sento più le gambe. Adesso lo leggo.

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