Braci respirano calore rosso
e si perdono in fumo libero
nel buio,
come ogni mio tentativo
di rompere il vetro
che dalla notte appesa
mi separa.
Di scheggiarmi nel sangue
non m’importa
purché s’apra
questo sipario senza spettacolo.
Mi guardano braci
di stelle lontane
in cui orientamento cerco:
la più sicura strada
verso il nulla.
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Alla propria ombra
nascondersi non vale
sempre
prima, sa i passi e
li precede e guida
mentre par che li segua
e i pensieri deve sapere
quelli che restano scuri e fondi
e come lei neri
per dismisura allungarsi
o sparire,
quando amore scompare
ogni mondo intorno
e neppure dell’ombra v’è più bisogno
o del suo respiro
perché ossigeno nutre
dalla bocca dell’altro.
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Io non ho posto,
tra gli alberi, e
neppure in strada.
Mio posto è l’assenza
mia musica, un orologio senza lancette.
Taglia una forbice i miei quaderni
perché dal mio posto non s’alzi
parola.
Il soldato restava fermo,
al solito posto,
dietro la porta della principessa
per novantanove giorni
senza risposta.
Lo cerco un posto
per buttarmi via.
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Ha vuoti gli occhi
di una maschera il Carnevale,
e il naso affilato
senza coprire la bocca che parli
e come un guanto riveli
la realtà lasciata appena indietro;
dei rami già rotti di gemme
e del cielo che resta azzurro
oltre le case e le nuvole, e
del dolore mutato in riso.
Scelgo una maschera
per i giorni prossimi
che mi colori d’Arlecchino i pensieri
e a me nasconda
il mondo.
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Senza scaldarmi
sto davanti al fuoco
mentre sera riavvolge il cielo.
Sono vento le fiamme e
cercano l’alto
per tornare al sole che le attrae
come marea d’alzarsi all’amore bisognosa.
E nera cenere resta il legno
di passione consumato
e non mi conforta, quel carbone scuro
di calore lontano.
Per questo
ardermi le mani desidero.
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È oltre
la notte che si sparge
sulla città e vaga
spezzandomi le braccia
col suo buio vischioso
come il pozzo nel quale ho perso
tutti i desideri,
e non la raggiungo
per quanto scuro io abbia
nelle mie tasche vuote.
Nemmeno il sonno
mi darà la notte che cerco.
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Famm’essere ombra della tua luce
e fammi essere acqua nella tua anfora
e fammi essere vento nel tuo respiro
e fammi essere polvere tra le tue dita.
Chiedo d’essere,
secondo una profezia antica che
m’assegna d’essere a te affidato.
Fammi essere i tuoi occhi che mi
vedono e creano.
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Chiudi gli occhi:
e senti, il rumore lontano
del mondo che ti ignora
e oltre te corre.
Chiudi gli occhi:
e senti il canto dei ricordi,
le sirene di tutto quanto
non sei.
Chiudi gli occhi:
e attendi le labbra
di un bacio
quand’apre la porta
d’ogni mondo e di canto lo empie
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Quattro merli sugli stecchi crudi d’un albero
come ombra di frutti d’inverno inutile
pesante.
Pensieri miei che tengo lontani
e che sento fischiare
da una prigione fredda.
S’allunga il buio indifferente
e m’inchioda
le mani mie vuote.
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Ho visto un raggio di luna vincere
della mia finestra il buio e
leggero posarsi sulle mie dita vuote,
e nude.
Aveva profumo di notte amica
anche se non mi guardava.
E io ne raccoglievo in terra l’acqua,
assetato di luce.
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Dentro il buio anche,
potevo distinguere un nido
tra i rami d’inverno, alti.
Pareva un frutto secco
ischeletrito dal freddo delle ali lontane,
e trapassato dalla luna storta
slabbrato dall’assenza e dal gelo.
Aspettava.
La stagione nuova sospesa tra stelle
e maree.
La cura dei fili d’erba e delle piume, leggere trame di cielo domato.
Aspettava.
Che un giorno s’accorgesse di lui,
e ne scaldasse le sue mani aperte
nascoste.
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Della lama l’ombra aguzza si vede
contro il cielo puntata,
spariglia le nuvole e sangue blu
cerca.
Ma è disposta a frangersi
nello svellere dal muro una pietra
capace di lasciar trascorrere luci
e profumi attesi.
Si spezzi pure ogni ferro
se oscura il buio.
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Buio non c’è,
di togliermi le stelle dagli occhi
capace.
E neanche notte arriva
a fiaccarmi un abbraccio.
So tenere tra le dita
le braci roventi
che sento
e il solo respiro
il calore rosso ne aumenta.
Ho dentro un sole
che di morire non si cura.
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Di me non dovrei avere
rammarico, e non dovrei avere
nuvole pesanti sui miei occhi,
e nemmeno dovrei avere notte
che leghi i miei passi.
Nulla penso dovrei avere
perché mi sia dovuto,
ma almeno il dolore vuoto,
empilo di rose.
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Mi manca una foglia,
per incontrare un albero
che da sé scuota l’inverno.
E mi manca un sorriso
per sfiorare il viola del croco.
E due mani unite mi mancano
per guidare dritto fino all’acqua.
Anche mi manca
un raggio di cielo celeste
per sentirmi il cuore andare.
E niente, è tutto quello che mi manca,
ora che non ho
pane da dividere.
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Mi picchia la pioggia,
sulle tempie e sulle mani nude
e mi svuota più del buio,
le impaurite vene.
Eppure immagino fiorire l’acqua
e il freddo proteggere le radici
ancora nel sonno d’inverno.
Ma troppo però somiglia
alle lacrime della mia sete.
E mi scava.
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Da solo,
guardo un cielo che non è mio
e ascolto scemare il vento
come un fiato che non più ha
respiro
e parole, che più nessuno
raccoglie.
Da solo,
mi conto del cuore
le assenze
e con un orologio guardo
morire il tempo.
E da solo,
prego le farfalle
di portarmi via, in volo,
da solo.
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Apro gli occhi
sugli infiniti nomi dei cieli notturni,
anche da un angolo di strada persa,
pieni del suono d’una foresta d’ombre,
che protegge
tutto quello che non sono stato
e tutto quello che avrei voluto essere,
mentre il tempo non si svuotava e
credevo di poter vivere.
Venderei stelle, e memorie
al mio specchio, che mendica
d’essere spezzato.
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Geme, la cima d’ormeggio,
prima soffiata contro la muratura del molo
e poi ostinatamente strappata, dall’anello di ferro,
che prova a fermare con morso di leone
come una mano che amore cerchi;
scuro, e scosso, il mare
di correnti profonde e schiumosa furia
chiede il prezzo
di tante rotte che l’hanno traversato,
e vinto le onde.
Reclama lo scafo scrostato e sbattuto;
i suoi remi nudi, liberi di percuotere le fiancate
e l’albero maestro,
piegato
come un pendolo senza ritorno,
che piove schegge e lacrime,
La mareggiata tagliente aspetta
un solo momento di sgambetto
per mettermi il respiro sott’acqua.
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Un’ombra mi basta
per precipitare sin oltre
i lividi che mi spezzano
ogni pensiero.
E non trovo modo
di sostenere sulle spalle
qualunque mio andare.
Ci sarà, mi chiedo,
un tramonto per i miei occhi,
che mi risparmi il fuoco
dell’ombra che da me,
non fugge.
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Balla con me, notte,
indossa i tuoi guanti
e accendi i lampioni
e grida i tuoi pensieri e
le catene che indossi,
prima che il vento le porti via
e dopo che i fiori siano
ostinamente, ancora accesi.
Stringiti a me
e toglimi il freddo tigre
e insegnami, dei tuoi occhi la musica e
come farti sorridere.
Fammi guardare notte
le tue labbra che mi parlano
e il fondo delle stelle che,
senza le tue mani,
non mi salvano.
Nessuno mi salva.
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È aspra questa notte
che sta serrando tra dita di gelo
ogni gemma affacciata al mondo
e urla rumore al mio silenzio
e vetri frappone
ogni volta che vorrei toccare
fili d’erba giovane e margherite semplici.
Solo e nudo mi lascia
questo cielo senza schegge di luna
e io andrò a cercare l’alba
e troverò l’alba,
in ogni brace di luce.
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Davanti ad un ramo che protegge nidi,
e di fronte all’alba che il cielo incendia,
e davanti ad un fiore contro il freddo schiuso
e di fronte ad una farfalla controvento
e anche davanti ad una porta aperta,
che mi faccia respirare, io
la testa, la tengo bassa.
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Ho sempre speso, senza risparmi,
le braccia aperte che avevo
e sempre ho smarrito
i risparmi d’inverno
e sempre ho sperso sassi
perché sapevo la mia direzione
verso il fosso arido
senza che m’importasse
del precipite
e sempre sono caduto.
Ho di mio,
solo
l’incavo dell’onda di mare
che il respiro tiene
per più alta possibile al cielo
salire
ed essere nulla, appetto
alla spuma felice
eppure essere.
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Ogni spasmo di muscolo
per restare sopr’acqua, a notte
di naufragio e terra lontana.
Ogni minuta tosse di respiro
per sentirsi il sangue
ancora correre e muovere.
E ogni folgore di pensiero
abbracciata al ritorno
dopo sterminata guerra e pena.
E arriverà infinita la sabbia
che sono sempre stato
a salvarmi e d’olio, cospargermi.
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Mi stai aspettando
freddo vento di silenzi caduti,
e m’opprimi il petto nudo
ma non mi pieghi gli occhi,
rossi di brace.
Scuoti ogni mio ramo
supplice e il cielo
mi togli e chiudi
ma non sento più, il freddo.
Mi trapassi, e ancora,
e m’umili con la tua forza
che non voglio contrastare
e, sebbene la pelle mi strappi,
non mi curo,
perché più sangue da versare
non ho.
Non ti faccio attendere.
Arrivo.
E quel che di leggero mi resta vento,
volerà oltre te.
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Sgraziate gazze
s’un ramo di pino
insieme nascoste
che negli occhi si guardano il volo
e le teste s’accostano
per contarsi l’erba legnosa d’un nido
e le ali
di lucide piume notturne e
sporco bianco
s’intrecciano il respiro,
le nuvole e
di ogni mondo allontanano
il rumore.
Magre gazze
che rapinano due soldi di tempo insieme,
m’hanno raccontato primavera, oggi.
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Non fioriscono i miei rami, a primavera
si è dimenticata di me, l’acqua.
Ho cercato il sole allargando le braccia,
ma nessuna mano teneva la mia.
Solo il vento
non ha smesso di raccontarmi storie
di lune lontane, e
per questo, forse,
di aspettare continuo
che la terra mi generi.
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Da tempo
aspetto sorga la luna,
in questo cielo a tutto attento
meno che alle mie ali.
Da tempo rubo un lume di stelle
per scaldare ogni mio buio e,
da tempo, ho vergogna
delle povere mie mani
senza lavoro e carezze.
Tutto il mio tempo
ho speso nell’ombra di uno spento lampione,
mai visto, o sentito,
o cercato, e solo di buio vestito.
E da tempo mi stringo
tra le braccia
la tenace assenza mia.
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Oso
pensare ad una scala da salire e
ad un’uva che di seno profuma
e al fumo di un fuoco dentro me acceso.
Ancora oso
ascoltare le finestre aprirsi
e le madri chiamare
la pioggia accesa dal cielo.
E infine oso
accarezzare le tue gambe nude
mentre la musica abbatte
i muri e le ore.
E nulla m’importa
se resto senza notte da sognare.
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Era una brace forse
che a notte dal cielo scivolava,
come un inciampo sulle scale
quando felici si corra via
da una prigione.
Un arco di breve luce rossa
spenta poi tra gli alberi lontani.
Neppure il tempo d’accorgersi
del nessun bisogno di formulare un sogno,
ch’era già dentro
prima ancora d’esprimerlo
in un soffio immediato di pensiero.
Che cessi l’assenza di cuore e
che batta, ancora e si ribelli e sempre
sia un sorriso
sull’unico desiderato mondo.
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Di mandorle era un albero
e teneva tra i suoi rami
al risveglio dalla stagione
del sole opaco
il cuore mio
colmo della sua linfa
e del fiume suo
di petali e foglie color di domani.
Mi nutriva da germogliare
anche dinanzi ai muri arsi
di muschio giallo
e bevevo di lui
la pioggia.
Fruttare desidero
i miei nocci di midollo morbido
solo difesi dalla paura
d’essere caduto pel vento.
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Distante
è l’ombra di ogni voluta
luce. A me distante
è ogni passo
che dirige verso
aperte braccia
e solo nebbia mi resta
dove cielo avrebbe dovuto essere.
Distante a me
è ogni sperduto arrivo.
Eppure cammino.
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Seguimi
fino al portatore di luce
dentro questo scuro
che le ombre divide e stacca
dal mio corpo,
come una forbice che mi toglie
il cuore e lo lascia
a sanguinare sull’erba piegata
dalla notturna pioggia di stelle.
E seguimi
se esco dalle strade già camminate
e con me modella
la creta di un bisogno nuovo
e intransigente,
perché può esserci alba
solo se sei con me.
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Mi raccolgo, a sera.
La polvere sotto le scarpe
le mani piene di un altro passo
ancora.
Mi raccolgo, le ali tagliate
e il fiato che pare tuono
lontano
quando i fulmini già sono spenti.
E mi raccolgo
la gola arsa di troppe parole
non dette.
Non raccolgo più
la rabbia feroce rimasta indietro
e nemmeno
il suono del buio che non mi chiama.
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Uccelli senza canto
rovistavano l’asfalto
incupendo l’aria
della attesa mia senza risposta.
Non riuscivo a volgere lo sguardo
all’alba di petali rosa.
Poi sono passato via.
Avevo da cercare ancora
un calore tra le mani
che mi vincesse.
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Sotto la pioggia
allargo le braccia
perché nessuna delle lacrime di cielo
si perda oltre me
ed ogni goccia
m’aiuti la sete
e nasconda
le pieghe del mio dolore.
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Era un vecchio
e aveva onde di mare, sul viso,
e negli occhi,
il fondo dell’acqua e la notte vicina.
Guardava sempre l’orizzonte però,
come se lo conoscesse
come se conoscesse del desiderio
l’inganno.
Ed egualmente volesse
aprire le vele.
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M’ingannano
i fiori di melo dolce.
Mi mostrano che dal secco
d’inverno e silenzio
può sbocciare il bianco di ali
e eterne farfalle.
E di breve stagione ho fame
e profumo aspro.
Mentre già muoiono i petali
sfaldati dalle nuvole
e non riesco, a fermare il vento.
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Scura il controsole
il lampo d’ombra d’un gheppio in caccia
e mi si ferma negli occhi
la freccia rapace che mi cerca.
Di fumo mi lascia un odore addosso:
quello del silenzio nero
sulle ferite ancora mai marginate
sparso.
E di soffocarmi si prova
ogni volta che ad alzarmi mi tento;
ma vola oltre l’ombra
e sui piedi miei, la notte
aspetto.
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Si potessero spegnere,
le voci di tutto quello
che mai ho
il silenzio ancora, ci sarebbe,
a ricordarmi tutto quello che non sono;
e lo scricchiolio della mia mano vuota
non trova porte da aprire
e neppure un buio che m’ingoi.
Dentro una pozza d’acqua non c’è,
il mio volto:
solo un ricordo di me
ondoso di vento.
Solo l’alba non vorrei spegnere,
per ancora illudermi.
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Esclusioni,
colleziono.
Ho interi album di figurine mancanti,
e interi album di figurine immaginate.
Sono escluso dal mare del tramonto
e non ho ombrelli che dalle lacrime fredde
mi proteggano.
Dall’ombra sono escluso,
perché nessuna luce, fermo.
E dalla luce, sono escluso
perché non ho occhi per guardare.
Un passo sempre, mi manca,
per finire il cammino.
Solo lo specchio non mi esclude,
per raccontarmi il tempo
che dal vivere,
in silenzio mi esclude.
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Piega le foglie il vento
mentre risposte cerco e
non so, se il colore sia d’argento o verde
di primavera e vita che
il mondo di sè colora.
In ginocchio a terra
guardo fiori umili e
sorrisi, mi figuro
mentre le nuvole inquiete
biancano il cielo di schizzi
sognati.
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Nelle tue mani
il quaderno strappato
e la rocca invincibile.
Nelle tue mani il vento
e il mio petto nudo senza respiro
e di papaveri appannato e grano.
Nelle tue mani
ogni preghiera mia
in ginocchio sugli scogli
confidata al mare.
Nelle tue mani
ogni mio passo e corsa e
sfiorire di volto.
Nelle tue mani
io.
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Ho dimenticato il mio nome che
mi avevi dato e
dimentico il nome
di un intero senza te universo.
E tutto quello che dimentico
l’ho inciso dentro il mare che nelle vene
m’urla tempesta.
E non s’erode
e mi taglia i piedi se cammino
e tanto bene lo conosco
che lo sogno
futuro nuovo.
E che il dolore mi plachi.
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Avevo scelto una nuvola
per uscire dalla finestra
e uncinare il mio cuore
a tutto quello che di me
non m’importa.
Avevo scelto di camminare
in senso contrario
al verso dell’orizzonte,
ma senza riuscire a perdermi.
E avevo scelto
il colore dei miei sogni
senza in me
avere fiducia.
E in ogni mia scelta sbagliata
avevo ragione.
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Io sì, ci ho pensato
al respiro nel buio
quando non ci sarà respiro
e nemmeno sguardo
ma solo chiuse finestre
e sarà come ora
che luce cerco e
respiro, ancora cerco,
e rompo le finestre scure
e corro
e non pago più
affitto
al mio cuore.
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S’insilenzia la luna
mentre il mare cresce
e alla luna ruba scintille e
lascia parole senza mercato
incise nella salsedine
che m’imbianca la pelle
e la sgraffia fino al sangue.
E nuoto
sino a non avere più fiato
e sentire le gambe dolorarsi
e non poterci più essere avanti;
affondare mi resta
ma non più mi ritiro
fino all’orizzonte nero
e oltre le morte onde.
Scaverò nel cielo
fino alla prossima luce.
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Avevo una vita di pioggia
di terra scavata e pietre
dilavate;
fredda di acqua e cielo scuro,
eppure anche di foglie che il pianto
raccolgono, il capo chinando,
della stessa materia verde
dei semi di perla.
E teneva per mano,
quella vita svanita,
il fango di umana creazione
col sangue che preme nei fiori.
D’ogni vita che ancora
posso mischiare,
solo il canto voglio avere
d’un uccello che chiami
altre ali.
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Hanno tolto il cielo
ad un passero con le ali inchiodate
e hanno tolto il mare
ad una luna che non trova specchi,
e la strada hanno tolto
ad un uomo che cerca casa
e i fiori hanno tolto
ad un albero di mele aspre
e pure hanno tolto
l’istante prima della felicità
ad ogni sogno atteso.
E poi nessun gesto,
ha tolto dal vuoto lo sguardo.
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Sottovoce
raccontavo ad un fiore,
che di notte la luce cigola
tra le sconnessure di cielo,
mentre m’avvolgeva le dita
dei petali suoi,
come un bacio che
posso solo disegnare,
e che nessun buio mai
ne avrebbe potuto spegnere,
il profumo di vita.
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Sconfinare desidero,
oltre i muri di pietre secche
e le recinzioni di spine;
oltre l’angolo di ogni strada
voglio guardare e
abbattere le porte
d’insensate privazioni.
Deviare desidero
dall’educato soffrire
e dal contegnoso nascondersi.
E rompere voglio i sigilli
di respiri miei scelti da altri.
E nemmeno una cassa di legno
voglio per la mia polvere
avere.
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Gira, una luna mezza in cielo;
ascolta una musica saltellante
e insegue una marea
che ogni dolore sommerga.
Si specchia nei vetri spenti
e porta,
la polvere dei miei passi
sino al buio della terra sepolta.
Dove diventa fermento
d’un fiore
e ne colora i petali
dello stesso bianco sconnesso
d’una spiaggia
il cui numero di grani
è minore del numero di tempi
che aspetterò una carezza tua.
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Scivolo via
sfiorando una roccia
che già mi ha dimenticato
e neppure il vento
al mio passare piega l’erba.
Non ho ombra
e da lontano guardo la luce
senza poterne essere colmo mai.
Di me non resta orma
o parola, e sono
solo un gesto allontanato.
Sono già passato,
mentre il giorno innerva gli alberi,
e non mi resta che
sgretolarmi.
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Come un tuono di tamburi
è sorta la luna
mezza e bassa
sognando violini innamorati
e pure lontana,
come una preghiera senza speranza
consapevole, perciò,
che la realtà segue
fili che non si sentono
e mondi che girano
senza giganti che li sorreggano
su spalle piagate.
Riflette però luce
di maree lontane
come ricordi mossi dal vento d’argento
tra le foglie d’un albero
mai spezzato,
e desiderio mi penetra
delle braccia che mi accolgono.
E mai finisce.
=======================================================================
Solo vincere contro me,
dovrei.
Uscire dal fango della mia trincea
e guardare i colpi delle stelle
e della terra gli spini ardenti
col sangue nei piedi
e oltre
la mia comprensione
di ogni possibilità
che sperduta diviene
e inafferrabile
al mio cuore.
Noncurante
di ogni mercato con me,
fino al necessario ghiaccio.
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Prenditi le scintille della notte;
il fuoco acceso
che le stelle incanta e ferma
sulla pelle, mentre al cielo sale
il canto della luce che dentro
spandi e regali
nonostante la sconfitta e il mondo,
per essere
malgrado te migliore
di ogni pianto che versi.
Bello è,
sapersi possibile
sebbene ignorato,
e tutto l’amore che puoi,
mettere in ogni gesto,
che nessuno vede,
e vedrà nessuno,
e solo per te importante.
Il cielo prenditi
ché lo meriti,
anche se, dietro i portali di legno,
resta chiuso,
il tuo più vero sogno,
inutile,
dato che mai realizzato.
=======================================================================
Io corro di notte
verso te
senza te.
Non ho niente in tasca
e nulla tra le mani
e ho solo te
senza te
tra i viali bui e abbandonati
sei in ogni foglia caduta
e in ogni pensiero che non posso avere
sei
un film senza titoli di coda
e sei
il prossimo respiro
che mi manca.
Io corro
fino al giorno
e fino al luogo
di un appuntamento che
non mi hai mai dato e proprio lì
io ti aspetto.
=======================================================================
C’era polvere, sulla luce.
Erano frammenti di pelle e terra.
Erano ritagli di piume e assenza.
Erano salti mai ricaduti sulla sabbia.
E c’erano passi sghimbesci
sin dove non sono arrivato.
E anche qualche carezza c’era,
che nessuno m’ha dato.
Non faceva neppure ombra
la mia polvere sulla luce.
Era solo trapassata.
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Oscillava al vento
in equilibrio dolce su un petalo
e apriva
e chiudeva ali azzurre di cielo sorpreso
dalla carezza
di un inatteso attimo di resa;
il dono di un impossibile
desiderio realizzato
all’ultimo raggio di giorno
prima che la notte
tutto anestetizzi.
Tremavo
sentendo la farfalla tesa,
ad un momento dalle mie dita
che, gelate dalla sua indifferenza,
si chiudevano
impaurite.
Ed è volata via poi
da me lontana.
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Una canzone
al sole cadente, come la sabbia
da un pugno arreso.
Allo scuro che copre
il soffitto che non ho più.
Ad un abbraccio di lana
e sorrisi riscaldati.
Una musica
alla eco dei miei passi
diretti verso strade vuote.
E al peso dell’ascensore
che solleva la fatica di
salire portandosi dietro
ogni propria mancanza.
Che si alzino
canzone e musica
sino al balcone alto sulla luna.
E lascino traccia sui muri,
di lacrima mai asciugata.
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Urlano le stelle
la loro lontana luce
come perduto amore
che non era sole, ma
scintilla che scolava dalla notte
come una tenda vetrosa e colorata
tra visioni di memoria e desiderio
e proteggeva da un orologio fermo
anche a duemila anni luce
dalla gioventù felice
e furiosa
tra lenzuola sfatte e serpenti addormentati.
E nessun raggio di stella
può scaldare più di un bacio, o
più di uno sparo
che ferisca sogni spersi.
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