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Piccole storie, barche che hanno affrontato il mare.

Giu 27, 2025 | 2025, Storie

C’era, una notte, sapore di limone nell’aria, come se la luna avesse deciso di sgocciolare sulla musica di un vagabondo, che dipingeva una serenata per il suo amore addormentato.

Dall’angolo di una strada, le note sembravano il profumo di un pane al mattino e aprivano le finestre, per raccontare che il buio era solo l’attesa di un sorriso, di un abbraccio che si apre, di uno sguardo che sciolga ogni dolore.

Persino i fiori, che ad ora tarda sentivano quella canzone, decisero di sorgere, tanto prima di ogni sole, per regalarsi a quel sogno subacqueo.

Quella musica era un ballo delicato e segreto, che faceva risveglio in una stanza chiusa e scura; ed era un nome intrecciato per sempre.

E anche il limone, aveva un sapore dolcissimo.

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A certe ore di pomeriggio, il mare sfolgora di fuoco e acqua d’oro, e nel vento, leggero, s’intravedono i corpi d’amanti.

L’uno tende le mani verso l’altra, in uno sforzo intenso, per poterla sfiorare, trattenere, proteggere.

L’altra apre le braccia, per accoglierlo senza che sia possibile, perché il vento li avvicina un istante, senza che possano toccarsi, e li disgiunge poi, indifferente, insensibile alla loro tensione, al loro desiderio.

Innocente come ogni amore, che intorno a sé sparge profumo di petali fioriti ad un sole dolce, e s’offre, vittima di ogni divieto e d’ogni giudizio.

Sono tormentati, Paolo e Francesca, da una tortura ingiusta e sottile; quella d’amarsi malgrado il loro amore sia chiamato colpa.

Il mare però, riduce in sabbia, la Commedia umana.

Fin quando dei bambini, non costruiranno un loro nuovo castello di sogni.

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Camminava da solo, a testa china, lungo il bordo di una strada di periferia.

Era attento a seguire un percorso che gli consentisse d’evitare le automobili che gli venivano incontro, quel tanto che bastava a non farsi investire; quel tanto che bastava a fargli evitare la tentazione di desiderare che un guidatore disattento lo travolgesse.

Camminava esattamente un passo indietro alla propria ombra, senza raggiungerla mai, e sentiva il suo stomaco svuotarsi sempre più e stringersi, e la sua testa galleggiare, come se i pensieri fossero un’acqua pesante che lo sorreggeva senza neppure bisogno di muoversi. Era una sensazione dolorosa e somigliava terribilmente ad un colpo di spada affondato nel ventre, e bruciante.

Non riusciva a trovare le parole, per fermare nella testa quella sensazione, e darle un nome, e si limitava a camminare, come se avesse una direzione ed uno scopo, mentre invece inseguiva soltanto qualche fantasma che di sé lasciava un profumo dolce intorno.

Aveva smesso di sentire il proprio corpo. Andava solo avanti.

Forse era solo un mulo col paraocchi aggiogato ad un pesante carro.

Forse, aveva fame.

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Aveva fermato l’automobile, sul bordo di una strada di montagna.

D’improvviso, mentre guidava, era scomparsa la luce dei fari; forse, per un caso fortuito, entrambe le lampadine s’erano fulminate nello stesso momento, e, guidare al buio, senza fari, non era davvero possibile.

Si trovava per di più, in una zona senza copertura telefonica, e, col proprio cellulare, non poteva chiedere aiuto a nessuno.

Le probabilità che qualcuno percorresse quella strada, erano davvero minime.

L’uomo, dopo aver aperto il cofano dell’auto, ed aver provato anche a verificare l’effettiva rottura delle lampadine, e non magari l’esistenza di un falso contatto, iniziò ad inseguire un pensiero un po’ laterale che gli era venuto in mente.

Si chiedeva, infatti, quali parole “luminose” conoscesse.

Prese un quaderno, e, su ogni foglio, iniziò a scrivere. Le prime parole che gli vennero in mente; una su ogni foglio, scritta grande.

Amore.

Rispetto.

Desiderio.

Pace.

Musica.

Camminare.

Mare.

Luna.

Cinema.

Abbraccio.

Mani.

Da ogni parola, si proiettava sulla strada una luce di polvere sospesa e fiato caldo.

Riuscì a tornare a casa. Tenendo il suo quaderno aperto dall’interno del parabrezza, e girandone ogni tanto le pagine.

A casa, non accese le luci.

Sul suo quaderno, scrisse il nome della donna di cui era innamorato.

E gli parve d’avere nelle stanze, le luci di un cielo colmo di stelle.

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Il giardinetto vicino la stazione, era deserto. A notte alta, la luce dei lampioni accarezzava leggera gli alberi interrati tra le mattonelle, e le panchine vuote.

Tra le strade che lo circondavano scure, il piccolo giardino comunale, sembrava un’isola, immersa in un mare fondo, illuminata leggermente da stelle lontane, il cui amore era talmente potente, da attraversare interi universi, per posarsi lì, tra le braccia di un triste monumento ai Caduti, e la vecchia giostrina, la stessa di quando lui era bambino.

L’uomo camminava lentamente, a testa bassa, mentre tutta la città dormiva.

Arrivò sino alla giostra, e si fermò, ad un passo dalla sua piattaforma rotante. La guardava. Come se solo lei esistesse.

Era vicinissimo a lui, il cavallo nero sul quale saliva sempre, da bambino, quando riusciva a rimediare il soldo necessario a pagarsi un giro.

Ci salì sopra allora, poggiando le mani sulla sua criniera dura, lucente, e sgraffiata, da mille e mille dita di bambini che avrebbero voluto sentire il cavallo staccarsi dal suo palo e correr via.

Chiuse gli occhi.

Ora spronava il cavallo, che galoppava , silenzioso, come un vento caldo.

Sentiva la velocità sulla propria pelle.

Voleva arrivare sino alla luna. E vedere se, lassù, avesse potuto incontrare le sue favole; le storie del caminetto e quelle del balcone innamorato e della ragione perduta.

E avrebbe voluto viverle, le sue favole, col suo cavallo nero, di plastica incantata.

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Il bambino non era stato invitato alla festa.

Nella sua stanzetta, chiusa a chiave, perché nessuno entrasse a chiedergli ragione della sua tristezza, la luce arrivava, tenue, solo dai lampioni sulla strada, molti piani più in basso.

Il bambino stette lungo tempo seduto sul suo letto, a guardare la parete di fronte a sé; poi, il suo sguardo fu attratto dal piccolo monte di giocattoli ammucchiato sul pavimento, a fianco della scrivania, perché gli sembrava che, proprio lì, ci fosse movimento. Come se qualcuno, o qualcosa, volesse liberarsi e dirigersi verso di lui.

Il bambino vide arrivare il suo vecchio orsetto di pelouche, e gli chiese allora, di insegnargli i segreti dei boschi, per trovare i fiori più rari e belli.

E vide poi un pirata dalla benda nera su un occhio, e gli chiese d’insegnargli le strade del mare, per arrivare fino ad isole sconosciute, dov’erano nascosti immensi abbracci.

E ancora, guardò rotolare verso di lui, il suo pallone preferito, e lo vide trasformarsi in un mondo, e il bambino voleva essere dall’altro capo, di quel mondo; in una parte di mondo dove lui non sarebbe mai stato solo, e alle feste veniva invitato.

E infine, vide drizzarsi il suo arco e le sue frecce con le ventose, capaci di arrivare fino alle stelle più alte del cielo, passando attraverso mille gallerie d’autostrada, e portare fin lassù i suoi piccoli sogni segreti che chiedevano d’essere accolti.

Quando il bambino vide quei suoi giochi, allineati vicino al letto, come fossero pronti a rispondere alle sue richieste, restò perplesso, quasi impaurito, e guardò allora lungo tutte le pareti della sua stanzetta come per cercare un aiuto.

Sulla sua scrivania, era aperto un libro di favole, proprio alla pagina dov’era disegnata una bellissima fata.

Chiuse gli occhi allora il bimbo, ed immaginò di poter parlare, a quella fata, e le chiese allora, d’inventare una festa per lui, coi suoi giochi che prendevano vita, coi suoi sogni più belli che coloravano tutti i mondi possibili; coi suoi desideri più teneri, che chiedevano solo d’essere abbracciati.

Lui avrebbe invitato tutti.

Proprio tutti.

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Il ragazzo era vestito poveramente.

Indossava un paio di scarpe da ginnastica lise, e una vecchia felpa bianca con delle scritte nere, nonostante fuori, facesse davvero freddo di neve scesa bassa.

Quando camminava, dalle tasche dei suoi pantaloni, lenti e forse troppo grandi per lui, veniva un rumore di metallo ad ogni passo.

Girava tra gli scaffali del supermercato, con l’aria disorientata di chi non sia abituato a far spesa, e pareva cercasse qualcosa.

Si fermò dove erano collocati i dolci e le tavolette di cioccolata. Ed estrasse dalla tasca un mucchio di monete metalliche, che iniziò a contare, con un’espressione preoccupata del volto.

Alle casse, davanti a lui, c’era un uomo anziano, coi capelli bianchi, e la barba lunga. Il suo carrello era colmo di merci.

Il ragazzo guardava il suo orologio, e, ansioso, la vetrina che dava sull’esterno del supermercato.

Il vecchio, si girò un attimo indietro e s’accorse di lui. Il ragazzo teneva in mano una grande scatola di cioccolatini dalla confezione rossa, a forma di cuore.

Il vecchio, sorridendo, lo fece passare avanti.

Perché chi è innamorato, non è giusto che aspetti.

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La sera era scesa, tra ombre azzurre, diventando notte, anche se più tardi che nei giorni precedenti. L’uomo iniziava a notare il leggero permanere della luce più a lungo tra i suoi pensieri.

Camminava appena oltre l’asfalto della strada, sul bordo di campi sterrati, e sentiva forte il freddo colpirgli il volto e la testa.

Gli parve d’intravedere un leggero movimento, tra le foglie secche sotto un albero nudo, ed entrò nel campo allora.

Un passero era in terra.

Pareva covasse, e non s’era mosso all’avvicinarsi dell’uomo. L’uomo si accuccio’ e cercò di guardare bene se l’animale fosse ancora vivo.

Delicatamente, lo prese tra le mani, e ne sentì battere forte il cuore; tuttavia l’uccello non provo’ a fuggire, e non aprì le ali.

L’uomo immaginò allora, che il passero avesse freddo e avvicinò le mani, tra le quali lo teneva, ed iniziò ad alitare, cercando di fargli arrivare un po’ di fiato caldo.

Gli sembrò che il cuore del passero avesse iniziato a battere più lentamente, come se la paura, e il gelo, stessero allontanandosi. Allora l’uomo prese dalla tasca del proprio cappotto, un guanto di lana e, lentamente, iniziando dalla coda dell’uccellino, ce lo infilò dentro, lasciando che sporgesse solo la testa, e tornò a posarlo in terra, proprio sotto il tronco dell’albero, in un punto leggermente riparato dalla tramontana.

S’alzò, e fece per andare via.

Si voltò un attimo indietro, e vide che il passero aveva tirato dentro il guanto di lana, anche la testa.

L’uomo pensò che sarebbe stato bello, se anche il suo cuore potesse guarire così.

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Il ragazzo s’era addormentato, nel pomeriggio.

Dopo l’intera mattinata in classe, e dopo aver dovuto aspettare davanti alla scuola, da solo, per un bel po’, il padre che usciva dal lavoro, per passarlo a prendere e riportare a casa, aveva mangiato velocemente qualcosa, e s’era buttato sul letto della sua cameretta.

Stanco, e triste.

Durante la pausa di ricreazione, aveva ascoltato la ragazza dai capelli biondi che gli sedeva davanti in classe, raccontare alla sua compagna di banco, che le sarebbe piaciuto prendere una confezione di wafer alla stracciatella, dalla macchinetta automatica che stava nell’atrio della scuola.

Ma lui, non aveva neppure una moneta, per poterle comprare quello che desiderava.

E s’era rassegnato a restare in classe, senza uscire, mentre gli altri studenti sciamavano nel corridoio, fino al suono della campanella, che li avrebbe riportati tutti in classe. Non voleva guardarla dirigersi verso la macchinetta, e non voleva sentirsi inutile, verso di lei; non voleva sentire, di non poter essere, anche per un solo momento, per lei importante.

Lui non era mai importante per lei. Ma non voleva sentirlo con così tanta forza.

E ora, dormiva, come se avesse voluto chiudere la porta a tutte le occasioni di avvicinarsi a lei, sprecate; si sentiva sempre fuori posto, quando le era vicino, mai all’altezza. Almeno nel sonno, avrebbe smesso di trattarsi male e prendersi a cattive parole.

Si svegliò che già era sera.

Suo padre, lo aveva lasciato sotto casa, prima, ed era tornato subito a lavoro. E lui era ancora da solo, nella propria abitazione.

Sul comodino, accanto al suo letto, brillava una moneta.

Come se, una fata, da un Paese sconosciuto alle carte geografiche, avesse fatto un lungo viaggio solo per lui, e solo per rispondere ad una sua muta richiesta d’aiuto.

Avrebbe comprato mondi, per lei, con quella moneta, anche se sapeva, di non poter comprare lei.

Ma, almeno, avrebbe potuto farsi guardare, forse. Per un istante.

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Un paio di scarpe, chiedeva ad un altro paio di scarpe, di ballare insieme.

Un cioccolatino, nato da un uovo, disegnava un grande cuore rosso su una parete di un ufficio.

Le porte, si aprivano e chiudevano, dettando il ritmo alla musica.

Una sedia, era domata da un leone.

Sul tappeto, fiorivano rose blu.

Dalla finestra, è entrato un nido portato via dal vento.

E sotto la pioggia, un cane randagio offriva ombrelli ai passanti.

Forse era un sogno.

Forse erano i disegni di bambini curiosi.

Forse era il mondo che s’era innamorato e lasciava i pensieri, liberi di giocare.

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In montagna il cielo era luminoso come una coperta d’oro poggiata a riscaldare i sogni, e l’uomo era steso sulla neve, immerso nel buio.

Aveva cominciato a contare le stelle, e per ogni stella che contava, ricordava quel che era successo, e quando era successo. E passò ore, a contare le braci ardenti. Una per una, e con la massima precisione.

E quando arrivò alla fine del cielo, sorrise.

Per quante stelle aveva contato, il loro numero era inferiore, alle volte che le aveva detto d’amarla.

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Era entrato nella grotta.

E, come gli era stato detto, aveva bevuto un po’ dell’acqua che filtrava da una sua parete.

E, come gli era stato detto, dopo aver bevuto, la grotta aveva iniziato ad illuminarsi, come se un infinito numero di scintille, incendiasse con dolcezza l’aria.

E, sul terreno della grotta, come gli era stato detto, parevano formarsi parole. Le formule di un rito che avrebbe dovuto compiere.

E, come gli era stato detto, iniziò a compiere il rito.

Cercò delle margherite precoci, tra l’erba bassa, e le raccolse.

Tornò nella grotta, e, con fatica, riuscì ad accendere un fuoco, sul quale gettò i fiori raccolti, come gli era stato detto di fare.

Quando il fuoco si spense, attese che le ceneri divenissero fredde e, allora, come gli era stato detto, le strofinò tra le mani, lungamente.

Con le dita annerite dalla cenere, scrisse il nome del suo amore su un sasso, che lasciò nella grotta, come gli era stato detto, perché quel sasso chiamasse il suo amore, e gli raccontasse il rosso delle nuvole al tramonto, e le stelle innocenti della notte.

Tra l’erba bassa, proprio dove prima aveva raccolto i fiori, le margherite erano nuovamente e subito cresciute, profumando l’aria.

E questo, nessuno glielo aveva detto.

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Le torte di compleanno, non erano mai perfette. Il forno le restituiva un po’ crude e un po’ bruciate. Certe volte, nel tagliare il pan di Spagna, per poterlo riempire di crema, si finiva con lo sbagliare, e il disco aveva spessori diversi, e magari s’era anche rotto, e toccava accostare i pezzi; tanto poi, con una fetta tagliata per essere mangiata, nessuno si sarebbe accorto della rottura.

E questo principio valeva anche per i pezzi di torta che non si separavano bene dalla teglia, e che, col coltello, il più delicatamente possibile, bisognava staccare.

La crema poteva essere un po’ farinosa, o non abbastanza dolce, perché sullo zucchero si risparmiava. E se era una crema al cioccolato, non sapeva mai abbastanza di cioccolato, perché anche sul cacao, si risparmiava.

Spesso la torta era bagnata con liquore per dolci, rosso: certi pezzi inzuppati, altri secchi. A nessuno veniva in mente di scrivere qualcosa sulla torta; talvolta ci si poteva provare, ma le scritte uscivano tremolanti; le lettere, ciascuna di dimensione diversa, tracciate con una crema, che finiva con lo sciogliersi, mischiandosi alla copertura.

Perché in frigo non c’era mai abbastanza spazio, per una torta, che, quindi, veniva conservata in qualche angolo buio, e quasi fresco della casa.

Le candeline erano sempre smozzicate e d’altezze diverse, ma tutte abili nel bruciare le dita, per riuscire ad accenderle, e nel far cadere la cera sciolta sul dolce.

Alla fine però, si faceva festa lo stesso.

Perché il compleanno, veniva una volta l’anno, e perché a tavola, erano poche le occasioni per finire un pasto col dolce.

Forse anche oggi andrà così per chi compie gli anni. E forse la torta, non è importante quanto la fortuna di festeggiare insieme.

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La luce del faro, per un istante solo della sua rotazione, cercava di raggiungere la riva, posata appena sulle onde leggere.

Tra le nuvole, un sorriso di luna schiariva leggermente il cielo, d’un biancore opaco di pensieri a testa china.

Il braccio del molo, illuminato dai lampioni, pareva una strada leggermente curva che s’immergeva, perdendosi, nell’orizzonte della notte.

L’uomo immaginava di nuotare, nel mare nero, dalla spiaggia fino agli scogli dell’isola del faro. Come volare ad occhi chiusi. Senza direzione e con l’unica compagnia della paura.

Era sulla strada oltre le mura alte invece, e sentiva le gocce di pioggia farsi più forti, e larghe.

La luce del faro, per tanto tempo della sua rotazione, era solo il buio dell’attesa e delle onde spente, che cercavano di accarezzare la riva.

La luna era oltre l’ombrello delle nuvole, ed aveva lo stesso tremore del suo cuore.

Immaginò di percorrere il molo e sedersi al suo confine, ad ascoltare il profumo dello scirocco.

Della pelle di una donna che lo chiamava, impaurita, che un’onda lo portasse via.

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Il ragazzo aveva in tasca solo tre euro.

Era martedì grasso.

E lui non sapeva come poter avvicinare la ragazza che vedeva spesso portare a spasso un cagnolino, lungo una strada in discesa, fino al piccolo parco tra i palazzi.

L’aveva vista, la prima volta, in una giornata di vento, quando i suoi capelli biondi, sembravano le onde di un mare dorato.

E, da allora, avrebbe voluto essere, ogni giorno, l’aria che la circondava, quella che lei respirava, e che la faceva sorridere, sempre; e il suo sorriso sembrava già primavera, anche ai primi di marzo, dentro la tramontana tagliente.

Aveva deciso di andare in pasticceria e comprare dei dolci fritti di Carnevale.

Con i suoi tre euro, poteva prenderne solo cento grammi, ma sarebbero bastati.

Era piena la pasticceria.

E ogni persona, prima di lui, portava via i dolci ripieni di ricotta, o di crema, e i vassoi esposti si svuotavano sempre più.

Forse per lui non sarebbe rimasto nulla, e nulla avrebbe potuto fare per attirare la sua attenzione.

Una sola frappa, due castagnole, un raviolo ripieno.

Era tutto quello che era rimasto, quando toccò a lui. Era tutto quello che poteva permettersi. Era tutto quello che poteva inventare, per poter sfiorare, tutto quello che desiderava; tutto quello che aveva voluto, da sempre, tutto quello di cui sentiva il bisogno.

Col suo piccolo vassoietto incartato, sedette su una panchina del piccolo parco, ed iniziò ad aspettare.

Lei arrivò.

Era vestita tutta di nero, e i suoi capelli biondi, parevano la fiamma di una torcia che allontanasse la notte.

Quando lei gli passò accanto, lui aprì il vassoio, e, con un gesto timido, le offrì i dolci.

Lei sorrise, incendiando il cielo, distolse lo sguardo, e proseguì oltre.

Lui decise allora, che quando lei sarebbe ripassata, dopo aver compiuto il giro del piccolo parco, si sarebbe messo davanti a lei, in ginocchio, e, di nuovo, le avrebbe offerto un dolce.

Erano suoi.

Lui non li avrebbe mai toccati.

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Guardava la notte, di nascosto, da un angolo della sua finestra.

E gli sembrava di poter scombinare il cielo.

Con un dito, spostava le stelle, dal loro nascondiglio nel buio. E disegnava farfalle, delfini di luce e draghi ardenti.

Faceva dondolare la luna, con un soffio dolce, come un vento leggero che piegava fili d’erba e inseguiva lucertole che avevano marinato la scuola.

Sentiva, tutto intero il silenzio della notte, e aspettava comete, che scrivessero in cielo il suo grido d’aiuto.

Il bambino era solo, nel buio della sua stanza. I genitori erano usciti e lui aveva paura. Per non pensare a cosa potesse muoversi sotto il suo letto, guardava la finestra. Al riparo, sotto le coperte.

Le luci lontane del cielo notturno, lo portavano via, verso un mondo che lui poteva inventare, e scrivere.

Un mondo dove nessuno lo lasciava solo.

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Erano nate le margherite, nel prato incolto appena dietro la sua casa.

E lui camminava lentamente. Un passo dopo l’altro, poggiando i piedi con grande attenzione, solo dove non vedeva fiori.

Perché non voleva gualcire neanche un petalo. Perché voleva essere perdonato, dalla Terra, per averne colta, e regalata una, un giorno.

Si fermò un istante, e tutto il prato, gli pareva un cielo di stelle leggere e profumate, dai raggi bianchi, delicati.

Sapeva, di non poter nuotare, in quel cielo, e cercò un pezzetto di prato dove i fiori non fossero cresciuti, e ci si sdraiò, poggiando la schiena sull’erba fredda.

Chiuse gli occhi, e gli parve di sentire l’intero mondo rotolare via veloce dentro una musica scura, e non sentiva più, il proprio peso, come se fosse diventato un aquilone, che solo un esile filo teneva ancora basso, prima che fuggisse libero verso le nuvole.

La città rumoreggiava lontana, e lui riaprì gli occhi.

Doveva tornare a lavoro; doveva sistemare tante questioni ancora aperte.

Si alzò, con difficoltà, come se, nel frattempo, avesse scavato radici, in quella terra, e le stesse strappando.

Gli parve di vedere, lontani un bimbo e una bimba che si tenevano per mano, e correvano, ridendo.

Ma era solo un ricordo rimasto impigliato tra i rami del suo cuore.

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Non aveva il permesso d’uscire, perché pioveva a dirotto e lui poteva ammalarsi.

Non aveva il permesso di correre, perché il suo cuore, in corsa, perdeva ritmo come un pallone bucato.

Non aveva il permesso di star fuori la sera, perché col buio si possono fare brutti incontri.

Ma il ragazzo era uscito di nascosto di casa, e aveva corso, nella pioggia, fradiciandosi tutto.

Era arrivato fino alla casa della ragazza delle Magistrali.

E sperava, guardando le finestre del suo piano, di poterla vedere un istante.

Prima che la luna venisse a prenderlo per le orecchie e lo trascinasse a casa.

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Il camino era colmo di cenere, fredda ormai. Una polvere grigia e nera, quasi più leggera dell’aria, sparsa sui mattoni refrattari, consumati ormai da mille e mille fuochi accesi.

Il ragazzo ne sentiva l’odore, di bruciato verde, e gli spiaceva, per i legni andati ormai in fumo, come se uno scirocco furioso, avesse distrutto le torri di sabbia che lui costruiva di fronte al mare, per avvistare le vele delle navi che avrebbero sbarcato la sua principessa al porto.

Senza pensar bene a cosa stesse facendo, immerse una mano in quella polvere alta, sentendo, tra le dita, le schegge dei nidi, protetti da quei rami e le vene senza più linfa dei propri sogni.

Forse fu un lacrima, o una goccia di pioggia entrata fortunosamente dal camino, ad accendere quello che pareva un sogno.

I tronchi d’albero, rinascevano, e da essi spuntavano foglie e gemme, e fiori leggeri e profumi.

E al ragazzo sembrava bellissimo, poter ricomporre quello che era stato distrutto.

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L’uomo e la donna erano seduti in auto. La donna, al posto di guida.

Il cd musicale, spandeva nell’abitacolo, le note di una vecchia beffarda canzone di Kid Creole and the Coconuts: “I’m a wonderful thing”.

E sembrava quasi che la donna lo stesse cantando all’uomo, d’essere una creatura meravigliosa.

Lei gli aveva messo le mani sul volto, e diceva qualcosa, e poi s’avvicinava, e lo baciava ripetutamente; certe volte con passione, a lungo, altre, con un passaggio rapido, volante, come una necessità di bere un sorso d’acqua, per non fermarsi di parlare. Come uno svelto assaggio d’un frutto goloso.

Lui, la guardava stupito, come se non s’attendesse, quel che stava accadendo, ma nello stesso tempo, ne fosse talmente tanto felice da restarne inebetito, senza reazione, e lasciava l’iniziativa tutta a lei.

E il volto di lei, che gli parlava sorridendo, gli pareva un cielo che avesse svegliato il sole; e le labbra di lei, avevano la stessa consistenza di una pesca matura, e il sapore d’un vino ubriacante.

Forse, fu solo perché qualcuno andò a bussare ai finestrini della loro auto, urlando, mentre intorno, un concerto di clacson sbraitava il proprio disappunto, che si resero conto d’essersi fermati ad un semaforo, che aveva già fatto vari giri tra il verde ed il rosso, passando per un veloce giallo.

Interruppero, allora, il loro riconoscersi.

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Aveva visto dei fiocchi di nuvola poggiati sul dorso della collina.

E decise di raggiungerli. Era partito a sera, quando già l’ombra iniziava a diventare notte, e percorreva una strada sterrata che traversava il bosco di faggi. Era faticoso, camminare in salita. Procedeva con la testa bassa, guardando andare i suoi passi. C’era solo il rumore leggero delle pietre sotto le sue scarpe, e un fruscio ondoso di foglie che nascevano nel vento.

Non voleva pensare ai lupi che potevano seguirlo, o a occhi illuminati nella notte, nascosti dietro rocce e alberi. Voleva tenere alle sue spalle, la paura e la fatica, e solo andare avanti; un piede dietro l’altro, un respiro dopo l’altro, fino alle nuvole, dimenticate basse dal cielo.

Appena svoltata una curva, tutto, intorno a lui, iniziò a scomparire.

Le stelle del cielo, e le luci della città lontana. Le cime degli alberi e i fari veloci sull’autostrada. I rumori parevano ancor più chetarsi. Non sentiva più i suoi passi spingerlo in alto, e non vedeva più le sue mani, se stendeva le braccia avanti a sé camminando, per non sbattere in alcun ostacolo.

Stava respirando la nuvola.

La sua acqua di mari lontani; la sua neve di valli perse tra i monti aguzzi.

Gli parve quasi di non sentire più la terra, sotto i suoi piedi e nemmeno più avvertiva il proprio peso, ma gli pareva di muoversi, comunque; di continuare a cercare la cima.

Forse la nuvola, con le sue vele di cotone, l’aveva portato via. Forse s’era perso.

Forse era entrato dentro un mondo diverso; grigio di vapore come ragnatele che cadevano da un soffitto.

S’accorse, che raggiungere la nuvola, non gli era sufficiente. Pensava al fuoco di un fulmine che lo avrebbe riscaldato; ad un raggio di sole che avrebbe tagliato l’oscurità biancastra; ad uno spicchio di luna, che gli avrebbe ricordato la felicità di un’altalena.

Poi, quel biancore, sembrò illuminarsi, e riempirsi di scintille, come lenzuola candide d’un letto d’amore e mani intrecciate, appena rischiarate dal mattino.

Allora si fermò.

Si rannicchiò ai piedi di un albero; chiuse gli occhi. Voleva sognare un letto, luminoso, che galleggiava su una nuvola; le sue mani che s’intrecciavano ad altre mani.

Voleva smettere, d’avere indosso solo foglie secche e spine.

Voleva, almeno in sogno, toccare il cielo con un dito.

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Entrò nel negozio, e, con grande sorpresa del personale e degli altri clienti, arrivò fino ai manichini esposti in vetrina.

Tra questi, c’era il manichino d’una donna vestita di rosso e di nero, che sorrideva.

La prese per le mani, e lì, prima nella vetrina, e poi entro il negozio, iniziò a ballare con lei. Un ballo lento, e dolce, ad occhi chiusi.

Doveva ancora imparare, le magie necessarie a trasformare i propri sogni in realtà; nel frattempo, inventava possibilità.

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Sono disordinati, gli alberi di mele, quando crescono liberi.

Alla loro base, si formano cespugli d’ogni sorta, spinosi alcuni, e nuovi alberi di mele anche, come capelli su una testa. Ed è difficile, perciò, avvicinarsi ai loro rami.

L’uomo, sin dal gennaio, aveva provato ad aprirsi una strada, tra sterpi e rametti, e piccoli tronchi, per arrivare fino ad almeno uno, dei rami bassi di un albero di mele, che cresceva su una piccola piana d’erba alta e rocce.

Su quel ramo, aveva visto scheggiarsi dapprima la corteccia, che s’era tagliata poi, lasciando di sé una ferita rossastra e a aperta, col trascorrere dei giorni, e dei mesi.

E ogni giorno, era andato ad aspettare il suo frutto, penetrando nel piccolo bosco cresciuto sotto l’albero, e graffiandosi anche, di unghiate profonde, come di una belva che si difendesse.

Ma l’uomo, ogni giorno, si recava dal suo ramo, a guardare il sole che diventava fiore, e foglia, e frutto colorato, e profumato. Gli pareva di accarezzare un amore; di raccontargli ogni giorno una favola di pioggia e terra e raggi e cielo, che, insieme, diventavano alba.

Un giorno, quando fu la sua stagione, dal ramo che lui ogni giorno guardava, la mela era scomparsa.

Sentì un vuoto l’uomo, dentro, terribile e doloroso; uno squarcio irrimarginabile.

Sotto l’albero però, c’era una donna, che stava mangiando quella mela e, sulle sue labbra, colava un leggerissimo succo, la cui delizia, s’avvertiva anche da lontano.

La donna gli offrì il frutto, perché anche lui, lo mordesse. L’uomo, restò un momento incerto, poi, prese la mela e le diede un morso. Certe volte, quando si senta freddo, ci si rannicchia ancor più in sé stessi; si piegano le gambe e ci si abbraccia e ci si avvolge in una coperta, quando s’abbia la fortuna d’averne una. Così pareva il gusto di quella mela: un calore che conquisti il freddo del mondo.

S’oscuro’ d’improvviso il cielo su di loro, pronto per scatenare tempesta.

Era dolce, il frutto che quella donna gli aveva offerto. Mai dolce però come un suo bacio, che valeva tutte le tempeste di ogni tempo futuro.

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Sedeva in terra, piegando col proprio peso l’erba bagnata, che restava chinata, quando lui s’alzava. E poi, sedeva sull’asfalto, asciugando un po’ con i pantaloni, lo spazio occupato.

E poi, con le sue scarpe bagnate, camminava sul marciapiede, lasciando le tracce dei suoi passi.

E quando camminava, lasciava cadere dei sassolini in terra, segnando così la propria direzione. Accendeva un fiammifero, per vedere la propria ombra proiettata su in muro, e poi, con un carboncino, ne disegnava la sagoma.

Non si proteggeva con un ombrello, dalla pioggia, e con le mani bagnate, accarezzava una porta, o un albero, o una panchina, imprimendovi sopra le proprie impronte.

E si fermava negli angoli tra i palazzi ed iniziava a parlare, da solo, ad alta voce, raccontando il proprio rapimento e l’incanto. E ai fiori sui bordi della strada, raccontava i propri sogni e il proprio bisogno di futuro.

E certe volte, chiedeva alle nuvole, di piovere il suo amore ovunque.

Voleva solo lasciare tracce di sé, che lei potesse intuire, ascoltare, vedere.

Perché capisse che ogni respiro di lui, portava il nome di lei.

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Gli piaceva davvero quella ragazza.

La vedeva tutti i giorni entrare in una scuola, e aveva immaginato lavorasse lì, magari come insegnante, anche se sembrava poco più grande dei suoi alunni.

Aveva preso l’abitudine, da dietro il bancone del bar dove lavorava, di regalarle sempre un cioccolatino, quando lei, al mattino, entrava per prendere un caffè. Ogni volta inventava una nuova scusa, per regalarglielo.

Per festeggiare una nuova pettinatura; un nuovo giubbotto; un nuovo paio di occhiali; una bella giornata; per un po’ di calore nei giorni di freddo; per asciugare le malinconie di un giorno di pioggia; per l’arrivo delle vacanze di Natale e poi di Pasqua; perché quel giorno, il suo sorriso aveva lasciato l’inverno alle spalle.

Lei accettava, e scambiava qualche parola con lui, prima d’entrare a lavoro.

Un giorno, il giovane, le passò un bigliettino di carta, insieme al caffè. Le chiedeva se volesse uscire con lui, magari a mangiare una pizza insieme.

Lei lo lesse, e lo appallottolò tra le mani. E poi gli diede appuntamento per quella stessa sera. Si sarebbero ritrovati sul tetto di un grande palazzo. Lei gli spiegò che, in cima a quel palazzone, dove abitava, c’era un grande terrazzo, dal quale potevano vedere insieme il cielo, prima d’andare a cena.

Si preparò, per quella sera.

Scelse il suo vestito più bello e nuovo, e le sue scarpe più comode. Andò a farsi i capelli, nel pomeriggio, e restò indeciso, se portarle dei fiori.

Scelse un mazzo di tulipani d’ogni colore, dai petali della stessa morbidezza e profumo, che immaginava della pelle di lei.

Quando arrivò al palazzo, trovò il portone aperto, e decise d’entrare. Cercò ad ogni porta, di ogni appartamento, ad ogni piano, il suo nome sul campanello, senza trovarlo.

Arrivò così fino in cima, e decise di salire comunque al terrazzo.

Era sera, il cielo tramontava e, non c’era nessuno lassù.

Aspettò, mentre diventava buio, col suo mazzo di fiori in mano. Ma la ragazza non arrivò.

Guardò l’orario sullo schermo del proprio cellulare, e s’accorse della data.

Era il primo di aprile, quella sera.

Pensò che forse lei aveva avuto qualche problema. Si sarebbe preso a schiaffi, per non averle chiesto il numero di cellulare; per non averle lasciato il suo.

Sotto di lui, la città era piena di luci, e faceva freddo. Un vento teso, da nord, tagliava le guance, e seccava le lacrime. Il cielo, era basso.

Decise che, l’indomani, i suoi tulipani, li avrebbe portati al bar.

E uno lo avrebbe regalato a lei, quando fosse venuta a prendere il caffè.

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Scuriva il cielo, e si riempiva di correnti di luce, come se le stelle rotolassero via, lasciando dietro di sé scintille d’un fuoco inesausto, che pareva piegare il blu del cielo.

Il mare, mentre l’aria pareva ferma, si gonfiava sotto una tramontana tagliente, innalzando onde arcuate, la cui schiuma pareva voler afferrare ogni pensiero e stringerlo, per poi sommergerlo, e rialzarlo ancora, come un amore sbattuto sugli scogli che si rialzi, e ancora, e ancora.

Sulla riva, una grande conchiglia ciprea, conservava le impronte dei nudi piedi di una Venere di periferia, e ne conservava il profumo del sorriso e dei suoi occhi di donna irridente e libera.

Lei, era un arco leggero, e senza peso, che volava a me abbracciata, sopra i tetti grigi di una città ancora fredda.

L’avevo appena avvolta in un velo d’oro e lacrime di gioia e baciata sulle palpebre, con la tenerezza di un petalo che disegnava musica sui tasti di un pianoforte, e guardata, nuda e potente, sdraiata su un divano rosso, ad occhi chiusi.

Ogni colore della sua pelle, faceva impallidire cielo e luna e mare e tutte le stelle, e mi s’era marchiato addosso, come una follia felice che giocava volando tra pareti infinite.

( Scritto, con la complicità involontaria, di Van Gogh, Hokusai, Botticelli, Chagall, Klimt e Modigliani ).

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Il bambino si guardò intorno.

Nel piccolo parco giochi sembrava non esserci nessuno. Lo scivolo luccicava, deserto, sotto i raggi del sole tramontante; le altalene erano leggermente mosse da qualche folata di libeccio e sotto le panchine, fiorivano piccole margherite bianche e viola, dal cuore giallo limone.

Le ombre degli alberi scurivano i colori e mischiavano i contorni delle stradine in pietra e della grande gabbia piena di palline colorate.

Aveva in mano un aeroplanino di carta, il bambino, e pensava di giocarci, come prima non gli era stato permesso.

Salì fin sulla cima dello scivolo e, da lì, lanciò nell’aria il suo aereo e, subito, si lasciò andare per la discesa, cercando di prenderlo, mentre cadeva, velocissimo. Più e più volte, finché, una volta, il bambino, quando uscì dallo scivolo, invece di atterrare, iniziò ad alzarsi nell’aria, come un incerto palloncino senza un filo che lo tenesse.

E girava, girava su sé stesso, come un girotondo felice, a testa in giù anche, come se fosse dentro una gigantesca bolla di sapone, che rimbalzava pigra sulla luna.

Tornò verso terra, nuotando nell’aria,come un cagnolino curioso, mentre s’accorgeva guardando dall’alto, d’essere davvero solo.

Con una matita allora, scrisse sull’aeroplanino che avrebbe voluto con sé qualcuno con cui giocare.

Salì in piedi sull’altalena, e cominciò a darsi delle gran spinte, e quando arrivò tanto in alto che avrebbe potuto ribaltarsi, tirò in cielo il suo desiderio con le ali.

Ma senza seguirlo stavolta; solo immaginando che atterrasse tra le mani di qualcuno che volesse inventare giochi nuovi con lui.

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C’era una grande balena, dentro il mare.

Doveva nutrirsi, quella balena.

Però, era di gusti difficili.

Si nutriva dei raggi del sole, ma solo di quelli che arrivavano fino al fondo del mare.

E si nutriva dei raggi delle stelle marine, ma solo di notte. E di notte, ogni tanto, si nutriva delle luci delle navi, però solo quando il mare era calmo.

E poi si nutriva della musica; quella del corteggiamento dei delfini, era quella che più le piaceva.

E certe volte, quando s’avvicinava un po’ alla spiaggia, le piaceva gustare le grida di gioia dei bambini che giocavano con l’acqua.

Aveva sentito storie, portate dalle onde che avevano visto gli scogli e raccontavano che, sulla terra, c’erano giostre e che c’erano anche grandi palloni, pieni di soffio magico, che, addirittura, potevano volare.

E aveva pensato di poter volare, la balena. E, per questo, iniziò a saltare sull’acqua, oltre le onde, pesantissima com’era.

E provava a saltare, sempre più in alto. Ogni giorno, come se il suo cuore, volesse cercare una ragione per battere.

Ma si rese conto, con un gran magone, di non poter arrivare alle nuvole, di non poter sfidare gli uccelli, a raggiungere un nido.

Sembrò alla balena di non poter toccare nulla, dei suoi sogni, e di non poter essere nulla, di quello che desiderava essere.

Fu forse per questo, che iniziò a piangere, ma le sue lacrime sparivano nell’acqua, e sembrava così, che nemmeno sentisse dolore. Le sfuggì allora un respiro più forte.

E dal suo sfiatatoio, s’alzò una colonna d’acqua, altissima; così alta, che il vento portò via il mare fino al cielo, in mille e mille e mille gocce colorate.

Arrivò al cielo il suo respiro: volava, formando un infinito arcobaleno.

Anche le balene, possono volare.

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Era una strada povera; tra palazzi nuovi senza forma e strade che non ne incrociavano mai altre.

Ci crescevano, al fianco, sterpi senz’ordine, e alberi sbilenchi. Qualche comignolo fumava, altri, avevano smesso.

Fu lì, sotto l’insegna spezzata di un albergo senza sogni, che la baciò, per la prima volta.

Fu quando i pesci di una fontana iniziarono a volare, e gli alberi, ad intrecciare nidi, da soli, ed il vento faceva suonare i fili elettrici come chitarre innamorate.

Qualcuno racconta, che dopo quel primo bacio, in quella strada, fuori stagione, fiorivano sempre gli aranci, e regalavano frutti dolcissimi, che sembravano non finire mai. E pare persino che, di notte, i gatti organizzino corsi gratuiti di chitarra per serenate stonate.

Magari è solo una leggenda, o una di quelle verità solitarie, viste solo da chi vuol vederle davvero.

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Si guardava allo specchio, e vedeva lei.

Camminava sotto la pioggia, ed immaginava che lei stesse bevendo un bicchiere d’acqua.

Leggeva un libro ad alta voce, perché anche lei lo ascoltasse.

La invitava a ballare, mentre era solo nella sua stanza.

Poi, non resisteva, a starle lontano, e allora prendeva il suo ombrello e lo apriva, e iniziava a volare, felice verso la luna, sicuro che anche lei, la stesse guardando, proprio in quel momento.

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Indossava una improbabile muta da sub dai pantaloni corti e smanicata.

Ai piedi, un paio di vecchi anfibi militari.

Un maglione di lana grossa a collo alto, color vinaccia.

Camminava, cantando, per il corso principale del paese.

Tutti lo guardavano stupiti, e s’allontanavano dai suoi passi, un po’ intimoriti.

Ma lui doveva camminare ancora a lungo, e andare lontano, anche arrampicandosi su rocce fredde e alte, per poi arrivare fino al mare, trasparente come un occhio che incontri bellezza.

E doveva spogliarsi poi, di quel che lo aveva protetto, e immergersi in acqua, mentre continuava a cantare, nei suoi pensieri, e senza stonare mai.

Sul fondo del mare c’era il relitto di un galeone affondato dai pirati.

E, certi giorni col sole, nella sua stiva ermeticamente chiusa e libera dall’acqua, si teneva una festa da ballo speciale.

Senza maglione, e senza scarpe ai piedi, poteva ballare con le stelle di mare, con i fiori ondeggianti delle attinie e con tutta la folla dei propri sogni belli e mai avverati.

Poi, a sera, avrebbe smesso di ballare e sarebbe tornato a terra, nuotando nel tramonto.

Forse, un giorno, avrebbe finito col ballare solo coi coralli e i pesci angelo e le posidonie al vento.

E questo, era il suo sogno non ancora sognato.

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Girava tra palazzi e piazze, della periferia, e del centro.

Giorno e notte, e portava con sé un quaderno con la copertina nera, rigida, e una penna.

Guardava attento, ovunque.

Ogni tanto si fermava, ad un angolo di strada, o su un marciapiede, e scattava una foto col suo cellulare, e prendeva un appunto sul suo quaderno.

Era riuscito ad ottenere un appuntamento con lei, e voleva portarla a passeggio per la città. Ma solo nei luoghi in cui, come stava prendendo nota, tra le sconnessure dei muri, o dell’asfalto, crescevano dei fiori.

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Guardava la sera, da una finestra. Se fosse stato un televisore, pensava, avrebbe potuto cambiare canale. Sintonizzarsi su un’alba, o su una notte.

Ma era sera, e tra poco sarebbe stato buio.

Allora abbassò le serrande.

Pensava fosse possibile così anticipare il corso del tempo.

Buio in stanza, e una piccola luce accesa dentro i pensieri.

E il mattino, sarebbe arrivato prima.

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La luna era il volto di un grande gatto dagli occhi fluorescenti la cui coda si curvava come un infinito cuore di stelle e cielo notturno.

Stese un braccio per accarezzare quel gatto, per nulla furastico, sotto le sue dita.

E gli chiese di portarle un messaggio, il più velocemente possibile, correndo coi suoi stivali delle Sette Leghe.

L’avrebbe amata finché le stelle fossero rimaste in cielo; questo chiese al gatto di raccontarle.

Ogni sera, finché non fosse tornato giorno. Finché lei non gli avrebbe creduto.

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Era strana, quella finestra.

Era tonda, e scandita da dodici linee nere; ciascuna, ad eguale distanza dalle altre.

Due grandi frecce si dipartivano dal suo centro.

Si rese conto, d’essere entro la cassa d’un orologio. E guardava, da lì, il mondo.

Un mondo che sembrava lontano, nebbioso, senza rumori. Le persone camminavano lontanissime da lui, verso direzioni ignote. Forse avevano pensieri belli, e dolci, o forse paure, ma lui non poteva saperlo; prigioniero di quel tempo che non aveva scelto.

Allora immaginava orchestre e balli vicino al fiume. E una donna bellissima, che si proteggeva dal sole con un ombrello bianco, in un campo di papaveri.

E una bambina che leggeva un libro.

E gli pareva di poter toccare il cielo lontano, mentre sentiva il cuore battere, un secondo dietro l’altro, un minuto dopo l’altro, un’ora dopo l’altra.

E allora, iniziò a cercare un buco, un piccolo pertugio, che gli consentisse di evadere da quel tempo. Aveva fiducia. In fondo, la molla che consentiva al tempo di girare era una spirale, che cominciava, senza finire, ma poteva espandersi, e andare oltre quella finestra, se liberata, e non un girotondo che non andava da nessuna parte.

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Non lo sapeva nemmeno, cosa avrebbe dato.

Ci provava, ad immaginare cosa avrebbe pagato.

E pensava che avrebbe trovato un albero alto fino al cielo, e avrebbe dato quello.

Ma non sarebbe bastato, secondo lui.

E allora sarebbe andato, pensava, dove sapeva erano le ostriche: sotto una prateria d’alghe vicino all’isola; e avrebbe chiesto loro di donargli tutte le loro perle blu nascoste, e avrebbe dato quelle.

Ma non sarebbe stato sufficiente, secondo lui.

Allora, immaginava ancora, avrebbe cercato la musica di cantanti girovaghi, di suonatori di serenate d’amore, e avrebbe avvolto le loro canzoni con un velo, giusto il tempo sufficiente per arrivare a dare quella musica, liberandola nell’aria; ma nemmeno questo sarebbe bastato a pagare.

Avrebbe anche preso, senza dubbio alcuno, i raggi del sole all’alba: i primi raggi pieni di colore del giorno, e ancora accarezzati dai sogni belli della notte; così pensava, magari di fare tutto quel che sognava di poter dare, e mille volte di più. E mille ancora.

Ma, sapeva, che nemmeno questo, sarebbe stato minimamente bastevole, ad arrivare fino al prezzo che avrebbe pagato, per averla con lui.

Non un attimo.

Solo sempre.

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Immaginava lei potesse sentire la sua voce, nel trambusto della folla.

Immaginava di poterla portare sulla cima di un monte, e farsi raggiungere dall’intero e sconfinato mondo. Immaginava di poter guardare con lei, la pioggia di migliaia e migliaia di petali di fiore. Immaginava di camminare con lei, per strade deserte, ai lati di enormi palazzi altissimi, e d’ascoltare con lei, l’eco dei loro nomi, uniti in un nome solo, che suonava ad ogni angolo e da ogni tetto. Immaginava di lavorare con lei, nel negozio di ferramenta e legnami, e di potersi riempire gli occhi di lei, mentre lei ordinava i prodotti, e gli appicicava sopra le etichette adesive col prezzo. Immaginava di raggiungere con lei il mare, e di liberarlo, dalla conchiglia in cui era imprigionato.

La aspettava.

Aveva preparato per sé, solo una piccola valigia con appena un cambio. Avrebbe comprato nuovi vestiti e scarpe.

E la aspettava.

Sarebbero saliti insieme, sulla sua trottola; lui l’avrebbe fatta girare, e si sarebbero ritrovati in un posto dove il cielo era più azzurro di una balena volante azzurra, e il tempo era fermo ad aspettare, d’andare avanti, o indietro, o di fermarsi, perché insieme, potessero respirarsi, finché non avessero permesso agli orologi, di continuare a girare..

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Era al confine, tra luce ed ombra, sul balcone.

Guardava sotto, e vedeva la strada, vicina; pericolosamente vicina. Gli pareva di sentire il corpo spingersi, oltre la balaustra, curioso d’arrivare all’asfalto.

Ma ancora non aveva imparato a nuotare, nell’aria, come un seme di soffione leggero e bianco, stellato.

E allora tornava sui propri piedi, alzando lo sguardo fino al cielo, senza incontrare ostacoli, e sentendosi la testa lievemente girare, come se stesse guardando il seno nudo di lei.

Era ora di pranzo. E la madre lo richiamava alla realtà. Erano tutti a tavola, e aspettavano solo lui.

Rientrò in casa ad occhi chiusi, ballando sul ritmo interiore di una canzone dolce, e pareva nuotasse, nell’aria.

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Era molte cose insieme.

Era un ragazzo timido, e aveva inventato una bomboletta spray che spruzzava in cielo nuvole a forma di sogno, e di cuore, in special modo.

Ed era anche un ragazzo fantasioso, che scriveva storie, e le lasciava sotto gli alberi del bosco, che se ne nutrivano, e i loro fiori erano libri di favole senza lieto fine, perché il lieto fine ognuno lo inventa per sé.

Era pure un ragazzo sbadato, perché ogni volta che si preparava un discorso si lasciava sviare dallo sguardo della ragazza che gli piaceva, ed iniziava a cavalcare fiori volanti e a partire insieme a lei verso tempi futuri, invisibili ancora ma possibili.

E infine era un ragazzo povero, perché era solo e senza casa, e viveva correndo in bicicletta e mangiando splendidi piatti immaginari, così da non avere mai fame.

Se non di lei.

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Il vento aveva sollevato una distesa di petali viola.

Pareva un tappeto volante, che avesse perso l’orientamento e cercasse una principessa da trasportare.

Un bambino la guardava correre disordinata nell’aria, e sognava di cavalcarla, fino all’albero più alto della montagna più lontana.

La distesa di petali, s’era separata da una jacaranda lontana, dall’altra parte del mondo, mentre suonava un tango, e una coppia ballava senza più poter distinguere dove iniziassero le mani dell’uno e finissero le gambe dell’altra. Ed ora cercava, indecisa ad un incrocio tra ponente e grecale, un posto dove posarsi.

Sulle lenzuola stese su un terrazzo, o su una sdraio vuota in un giardino.

Entrò da una finestra invece, e si posò su un letto.

Arrivò una principessa e si avvolse tra le lenzuola di petali.

Il bambino iniziò a soffiare, per farla volare sino a sé.

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Il Vagabondo, per la sera di Capodanno, aveva invitato, per festeggiare, nella sua capanna, una donna. Era povero, e aveva speso tutto quello che aveva per una cena dignitosa.

Il Vagabondo s’addormenta, mentre attende la sua ospite, e sogna.

Sogna d’improvvisare un balletto, e, con le forchette, infilza due panini, che diventano due scarpette da ballo, con le quali inventa una danza semplice, e magnifica insieme.

Ma, alla sua cena, non si presenta nessuno.

Niente, racconta meglio il desiderio di poter amare.

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Era il tempo, nei campi incolti, delle spighe verdi di grano selvatico.

Ed era uso, tra ragazzi, strapparle dallo stelo e tirarsele addosso.

Si diceva, scherzando, ma non troppo, che quante spighe tirate, fossero rimaste attaccate alla maglietta colpita, tanti sarebbero stati gli amori grandi che quella persona avrebbe vissuti in vita.

Il ragazzo, su ogni spiga che strappava, provava a scrivere il proprio nome, e cercava sempre di colpire la stessa ragazza.

Ma nessuna delle sue spighe, riusciva mai a restare attaccata.

E forse fu per questo, che il ragazzo smise di credere alla fortuna e al destino.

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C’era un muro, vicino al mare.

Era parte di una casa abusiva, rimasta mozzicone.

Era un muro alto quattro o cinque metri.

E sotto il muro, c’era la sabbia della spiaggia.

Ogni mattina, presto, quando tutti ancora dormivano, il ragazzo saliva fino in cima a quel muro, e si buttava giù.

Una, due, tre, dieci, venti volte.

Provava a volare.

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Era un gatto con gli occhi di brace dorata.

Si muoveva come un’aria senza vento, e, quando saltava, pareva non avere peso.

Decise di seguirlo, per quanto possibile, persino quando si addentrò nel bosco ombroso.

Pareva seguire una strada che solo lui, intuiva, tra le pigne cadute e i rami secchi. Una strada che faceva giri strani, e che sembravano lentamente convergere, al centro di una radura erbosa, illuminata dal sole cadente.

Lì si fermò.

Pareva attendere; forse il tramonto, o forse una stella che avesse voglia di realizzare un desiderio.

L’uomo lo osservò, nascosto dentro i tronchi gemelli di un faggio, cercando di non fare alcun rumore. Pareva quasi trattenere il respiro.

Ad un certo punto, l’ombra, arrivò fino al gatto, proprio nel momento in cui il sole, s’era abbassato sino alla cima degli alberi, rendendo così impossibile, all’uomo, guardare ancora il gatto, avvolto in un pulviscolo lucente e buio insieme.

L’uomo abbassò gli occhi, e vi passò le dita sopra, strofinando, come per cancellare mesi di cecità, e recuperare un po’ di vista, che gli permettesse almeno di riconoscere i contorni del felino.

Ma il gatto era scomparso. Nella radura era seduta una donna, vestita di bianco, e con le gambe nude.

Era bellissima, e disegnava l’aria con le mani, come se ballasse al ritmo di una musica che solo lei ascoltava.

L’uomo riuscì a guardarla negli occhi, che aveva di legno scuro ardente, e sorridevano quegli occhi; forse riconoscendo i contorni di una storia, che solo lei intuiva.

S’accorse allora l’uomo, che un gatto si stava strofinando tra le sue gambe, mentre faceva le fusa.

Forse s’aspettava d’esser carezzato, come ricompensa.

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Aveva deciso che, quel giorno, avrebbe voluto vivere sensazioni, ed emozioni nuove.

Scese dal letto, poggiando in terra, per primo, il piede sinistro; mentre di solito scendeva col destro.

Fece un bagno caldo, invece della solita doccia.

Per colazione, preparò un panino con frittata, invece del solito latte coi biscotti. E prese poi un tamarindo, invece del solito caffè.

Lasciò perdere la propria auto, e uscì con uno di quei monopattini, lasciati un po’ dovunque in strada, e che possono prendersi, usando una applicazione scaricata sul cellulare.

S’era vestito sportivissimo, invece del solito completo con giacca e cravatta.

E aveva sbagliato strada molte volte, prima di capire che, in realtà, forse preferiva non andare in nessun luogo.

Avrebbe potuto anche fare una magia, e mutare sé stesso in un grosso e gentile lupo nero, ma poco sarebbe cambiato, in fondo.

E fu così che, quando si fermò ad una panchina, sulla quale non s’era mai seduto prima nella propria vita, scoprì, ridendo un po’ di sé stesso, che emozioni e sensazioni nuove, gliele dava solo innamorarsi ogni giorno, come fosse la prima volta, della stessa donna.

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Immaginava che, oltre il cielo, ci fossero campi di grano e papaveri. Immaginava di poter camminare tra le spighe e il vento soffiato da vetrai antichi.

E immaginava uccelli coloratissimi che volassero sulla sua sete, e portassero chicchi di farina e gocce di pioggia nei loro nidi sulle nuvole.

Portava una falce, tra le mani, e non voleva tagliare le spighe.

Immaginava l’erba trasformarsi in pane profumato e tulipani, e immaginava una festa, dopo la mietitura.

I tavoli il vino e la danza.

E immaginava di potersi sedere, almeno un istante, vicino a lei. E di arrendersi a lei immaginava; di non aver paura d’incantarsi e imparare le sue parole.

Tra poco sarebbe arrivato il tramonto, e non sarebbe stato saggio, iniziare il lavoro, con poca luce ancora per poco tempo.

Decise di aspettare un po’. Appena il cielo fosse diventato rosso, ne avrebbe preso un pezzetto, e lo avrebbe portato a lei.

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Era bello aspettare.

Persino l’aria intorno, si fermava ad aspettare, e abbassava il volume del mondo.

Neanche le galline, osavano emettere un verso, e i cavalli lontani, tenevano il muso alto, per guardarsi intorno, in attesa di qualcosa che, sentivano, sarebbe arrivato.

Certe volte, davanti agli occhi scorrevano interminate immagini di trasparenza marina e, altre volte invece, aspettare, era come trattenere il respiro, e scegliere d’andare ancor più sul fondo, quanto meno fiato fosse rimasto nel cuore.

Era bello aspettare, quando si poteva sentire l’arrivo della elettricità febbrile.

Quando un solo istante di vento avrebbe rivelato il fiore più segreto, nascosto dentro mura di castello.

Ancora più bello, è pensare di poter aspettare.

Ancora.

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Senza ordine, o connessione, i pensieri gli sfuggivano dalla mente; disordinati, come lampi inattesi di tempesta.

Il rumore del traffico nella strada sotto i balconi, come un aereo carico di bombe.

Il vento, che portava le sue richieste d’esser guardato, tra le foglie chine dei ciliegi.

L’ultimo canto serale degli uccelli; i suoni di una chiacchiera dolce, davanti ad un bicchiere di vino rosso, prima di sognare.

Le pentole metalliche posate in una mensola, che uscivano dalla finestra, gli sembravano una promessa di cura.

E l’abbaiare lontano di un cane ai fantasmi della luna, ch’era un richiamo tenero ai lupi, perché lo riportassero a perdersi in una foresta.

Seguiva ogni scintilla d’elettricità notturna, per ritrovare le luci che gli si erano spente dentro.

E s’accorse d’essere in mare, ai remi d’una piccola barca, mentre le onde erano più alte delle murate.

Ma lui sarebbe arrivato al porto. Ai gabbiani. Agli occhi che lo aspettavano.

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L’avrebbe portata su un pianeta lontano.

Dove non c’erano malattie o paura.

Ma c’erano cinque lune.

Una luna, era fatta della lava di un vulcano ormai spento, che eruttava gelato di stracciatella e caramello pepato.

Una luna era il bocciolo di un fiore blu profumatissimo.

La terza luna era fatta solo di spiagge bianche, mare trasparente, e alberi di fragola, sempre colmi di frutti rossi dolcissimi.

Un’altra luna, era fatta di sabbia, e castelli costruiti su sogni innamorati.

La quinta e ultima luna, era un grande letto bianco e fresco, dove far capriole e rotolarsi, giocando, infinite volte, fino a capovolgere il cielo.

Il treno spaziale, sarebbe partito tra pochi minuti e lui, sul marciapiede del binario, con due biglietti in mano, la cercava tra la folla della stazione.

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