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La Scuola ha (troppo) poco Sostegno

Lug 28, 2025 | 2025, Storie

Il cinema ha sempre frequentato le aule scolastiche, per le sue storie.

Certe volte, puntando lo sguardo su alunne e alunni, e, altre, sugli insegnanti, o, magari, sui dirigenti delle istituzioni scolastiche.

E sono decine e decine i film che possono tornare alla memoria, tra quelli girati nelle aule; alcuni importanti, altri di propaganda, altri decisamente brutti e strumentali.

Se volessi cercare tra questi film, credo tutti e tutte ricorderemmo “L’attimo fuggente”, nel quale un appassionato insegnante, interpretato da un sontuoso Robin Williams ( miglior attore protagonista agli Oscar ), cerca di offrire ai suoi studenti, un punto di vista diverso, sulle cose del mondo, rispetto all’educazione tradizionalista e autoritaria che avevano sin lì ricevuto.

Fu un film che, oltre ad avere un grande successo, aprì un ampio dibattito pubblico, proprio sulla figura dell’insegnante e sulle sue responsabilità, generando polarizzazioni anche molto dure.

Oppure, potrei ricordare l’insegnante impersonato da Silvio Orlando ne “Il portaborse”, che, alla vigilia della stagione di “Mani Pulite”, nei primissimi anni ‘90 dello scorso secolo, raccontò con grande precisione il clima di corrompimento progressivo, e generalizzato, non solo della politica e dell’economia nel nostro Paese, ma anche della società ad ogni livello.

Una degenerazione con la quale, come Paese, non abbiamo fatto i conti, ma, semplicemente, rimosso, ed anzi, in buona parte, trasformato in un’etica rovesciata, che esalta il vincente furbo, intrallazzatore, violento e arrogante, evasore fiscale e contiguo alla criminalità anche organizzata.

Ma viene in mente anche un film del 1962 “Anna dei miracoli”, che racconta la storia di una bambina gravemente disabile, e la cui disabilità si riversa in comportamenti quotidiani inaccettabili per la morale della famiglia borghese in cui è nata che, per questo, decide di assumere una insegnante privata, per porre un qualche rimedio all’impresentabilità presunta della bambina. L’insegnante, una splendida Ann Bancroft vincitrice di Oscar per quella interpretazione, divenne l’incarnazione della volontà della società, anche nella sua versione borghese e distorta, di far uscire dall’isolamento e dall’istituzionalizzazione anche coatta, le persone che non si conformavano, per varie ragioni, anche fisiche, ad una “normalità”, che stava divenendo, in ogni ambito, una cappa sempre più asfissiante, sull’amore e sulla possibilità di considerare umano ogni aspetto delle nostre molteplici personalità.

Ann Bancroft, può forse essere oggi rappresentata, in una qualche misura, dai nostri odierni “insegnanti di sostegno”.

Oggi, per poter fare l’insegnante di sostegno, è necessaria una specifica abilitazione, e anche una scelta precisa, da parte delle persone che decidano di intraprendere questo lavoro.

Le due giovani donne, di cui vale la pena raccontare la storia, spiegano che il percorso del reclutamento, nell’ambito della possibilità d’essere assunto, magari con incarico annuale, come “insegnante di sostegno”, dipende dall’aver deciso di concorrere nella specifica graduatoria: non è possibile, infatti, concorrere contemporaneamente anche per la graduatoria da “insegnante”.

Occorre quindi una propria caratterizzante passione, per questo specifico incarico, riservato a chi si prenda cura delle situazioni di difficoltà, consentendo loro di migliorare, per quanto possibile, la propria condizione, e di partecipare alla vita sociale ed educativa della Scuola.

Senza nascondere a sé stessi che, tuttavia, questa specifica scelta, in una certa misura, potrebbe favorire l’assunzione, visto che la richiesta è molta, mentre le persone specializzate per questo lavoro, sono meno del necessario.

E proprio qui, tuttavia, s’inserisce una contraddizione profonda del sistema, che finisce con lo scaricarsi da un lato, sulle spalle di bambini e bambine, ragazze e ragazzi, che meriterebbero percorsi attenti e continui di inclusione, e dall’altro sulle persone che scelgono di intraprendere il lavoro del sostegno.

Si concretizza qui una delle contraddizioni cardine, del sistema che, negli anni, è stato costruito; la costruzione di una condizione individuale dell’insegnante caratterizzata dal precariato, non solo per quanto riguarda l’accesso al lavoro, ma anche per quanto riguarda tutte le condizioni materiali del vivere, intorno al lavoro, e che condizionano pesantemente scelte ed orientamenti.

Per provare a spiegare questa situazione facciamo l’esempio della regione Lombardia, che mette a concorso 2178 posti per il sostegno, e al concorso si presentano in 300 ( dati MIUR ). In Abruzzo, sono stati posti a concorso, 316 posti, per un numero di partecipanti, pari a 8942 ( dati MIUR ).

A prescindere da una verifica sulle effettive necessità della Scuola nelle due regioni, è evidente che, nel caso della Lombardia, il numero di concorrenti all’insegnamento sia di gran lunga inferiore alle necessità, perché nessuno, con lo stipendio da insegnante di sostegno, non si sa per quante ore settimanali, può pensare di vivere in Lombardia, provenendo da altre regioni, e dovendo quindi sostenere spese d’affitto, trasporto, etc.

Questo significa che chi abbia i titoli, e la passione per svolgere questo delicatissimo lavoro, non può decidere della propria vita, ma solo provare ad adattarsi a condizioni che, plasticamente, esemplificano una società bloccata, in cui il lavoro conta pochissimo e molto di più contano le rendite finanziarie, e le posizioni di potere; una società in cui si è fermato il cosiddetto “ascensore sociale”, che permetteva di immaginare per le generazioni più giovani un futuro migliore di quello vissuto dai propri genitori, magari proprio attraverso l’impegno nello studio.

Una società che non ha alcuna cura, per il proprio investimento sull’educazione e sulla formazione, perché non ha interesse a costruire le condizioni migliori, affinché, in tutta Italia, sia possibile soddisfare pienamente le esigenze di studentesse e studenti, assumendo i talenti migliori per l’insegnamento: viene viceversa innalzata la barriera insormontabile del reddito, per cui un insegnante di sostegno, per poter lavorare trasferendosi lontano dalla propria realtà territoriale, dovrebbe spendere forse una cifra più alta del proprio salario. E pazienza se le esigenze educative e formative di studentesse e studenti, restino insoddisfatte.

La tendenza politica, strutturatasi negli anni, che vede con favore l’insegnamento effettuato solo da persone residenti nel territorio, e che subisce come un affronto la presenza di insegnanti meridionali nel Nord Italia, ha certo una responsabilità, nella costruzione di questa condizione.

Questo quadro indica che le generazioni più giovani, in particolare nel Sud Italia, sono condannate ad un futuro incerto, ancora sostenuto dai propri genitori, come capita ad una delle due giovani donne di cui raccontiamo la storia; ad un futuro in cui, come una di loro spiega, si può sì mettere in piedi qualche progetto per il futuro, ma dipende in realtà, dalla grandezza del progetto, la credibilità di una sua possibile realizzazione.

Col lavoro precario, che per molti aspiranti insegnanti è una trafila che può durare anche decenni, si possono sostenere solo piccoli progetti: non si può sognare in grande. E se ne è consapevoli, perfino nel formulare i propri sogni.

La materialità del vivere autodeterminandosi; la possibilità della propria piena autonomia ed indipendenza economica, somigliano ad un orizzonte che si insegue, e che, ad ogni passo, conserva la sua distanza da noi, piuttosto che ad un traguardo, magari distante, ma che possa essere raggiungibile.

Per di più, il sistema del reclutamento scolastico nel nostro Paese, è il frutto di stratificazioni normative talvolta in conflitto tra loro; sempre sottoposto alla possibilità dei ricorsi in sede amministrativa che, magari, possono cambiare intere regole dall’oggi al domani.

Ad essere assunti in ruolo, per primi, sono i vincitori di concorso; ma le graduatorie di un concorso svolto nel 2018, possono essere ancora oggi valide ed utilizzabili, generando, anche per questa via, difficoltà organizzative e gestionali, e profonda incertezza nella vita delle persone.

E i punteggi delle graduatorie, sono determinati anche dai corsi formativi svolti individualmente e a pagamento dagli insegnanti, che, però, concedono punteggi più alti, presumendo così una formazione qualitativamente superiore, quanto più siano costosi. E anche per questa via, si conferma che chi abbia a disposizione maggiori risorse finanziarie, proprie o di famiglia, abbia maggiori possibilità di assunzione in ruolo.

La crisi demografica del nostro Paese poi, e per quanto ci riguarda nello specifico, i fenomeni di spopolamento delle aree interne, sono fattori che ancor più gravano sul futuro delle giovani donne che, dopo la laurea, hanno deciso di intraprendere questa carriera lavorativa.

Credo che, se tutti si soffermassero, per un istante, a riflettere sulla difficoltà a conciliare un percorso educativo, per sua natura pluriennale, con un orizzonte lavorativo che dopo solo qualche mese si interrompe, si potrebbe comprendere appieno quanta inefficacia potrebbe avere il tempo trascorso in un’aula scolastica, soprattutto da un ragazzo, o da una ragazza, che, per le loro caratteristiche, avrebbero bisogno di interventi mirati e personalizzati, e continui nel tempo, per favorirne la crescita e l’inclusione.

Le due giovani donne, dicono che il loro obiettivo è far crescere i bambini che sono stati loro affidati: ora sono in terza elementare, e loro, li seguono dalla prima elementare, e vorrebbero portarli fino a conclusione del loro ciclo scolastico, in quinta elementare.

Ma non sanno, se sarà possibile.

Io mi chiedo se sia positivo, per un bambino o per una bambina, considerare normale l’interruzione di un percorso educativo e della costruzione di una conoscenza e fiducia reciproche, soprattutto in condizioni particolarmente delicate. Se questo non sia una conseguenza di un sistema che sempre meno, sembra avere a cuore la costruzione di una educazione e formazione libera e critica, e, sempre più invece, sembra voler soddisfare solo criteri burocratici, talvolta falsamente efficienti , e comunque astratti, sino al punto da smarrire la consapevolezza che l’insegnamento, è, prima di tutto, una relazione tra soggetti, e se questa relazione si interrompe, non riprende dal momento in cui la si è interrotta ma, spesso, dall’inizio.

Delle due giovani donne, una sta pensando di lasciare l’Abruzzo.

E anche questo, è un indice concreto dei processi in corso nella nostra Regione che, sempre più investe in percorsi formativi, senza sbocco reale sul nostro territorio, costringendo così giovani uomini e giovani donne, che qui si sono laureati e laureate, ad andare via. A migrare, per avere una migliore speranza di vita.

La nostra regione si impoverisce di competenze e passione, in favore di quelle che offrono maggiori possibilità. Le risorse usate, producono frutto per altri.

Noi, siamo condannati a restare subordinati, ad altri.

E nessun elemento correttivo viene introdotto dal Governo.

Tutte e due, hanno iniziato ad insegnare a 26 anni e penso che, per loro, e per tutte le persone come loro; per gli studenti e le studentesse di tutta Italia, sia necessario migliorare radicalmente il rapporto tra reclutamento, e continuità della funzione educativa e formativa. Magari immaginando contratti che, quanto più è possibile, durino per ciascun ciclo formativo.

Magari immaginando politiche urbane che prevedano abitazioni in affitto sociale e facilitazioni vere per il trasporto pubblico di pendolari.

Perchè quando le persone incontrano sul proprio cammino le conseguenze di contesti profondamente segnati dalla diseguaglianza e dal prevalere di istanze egoistiche, è proprio dal quadro generale, che bisogna partire per migliorare le condizioni individuali.

Chi proponga soluzioni parziali, in nome magari di altisonanti paroloni ( Dio, patria e famiglia, ad esempio ), sta solo ingannando le persone.

Le vuole meno libere.

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