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L’incertezza delle prospettive, è un fungo velenoso.

Ott 14, 2025 | 2025, Storie

Scrive Mark Fisher, in “Realismo capitalista”:

“…la sensazione diffusa che non solo il capitalismo sia l’unico sistema politico ed economico oggi percorribile, ma che sia impossibile anche solo immaginarne un’alternativa coerente”.

Ci troviamo a vivere in un sistema che fa di tutto per raccontare e raccontarsi come l’unico sistema pensabile e possibile. Il migliore, possibile.

E questo sistema è così forte da occultare anche la possibilità, per noi stessi, di considerare che la nostra condizione individuale, è, in una certa misura, un suo frutto necessario, e obbligato, e che, come suo sottoprodotto non certo secondario, produce in noi una sorta di fantasia alienata su una nostra presunta libertà, che, spesso, guarda solo a quanto quel medesimo sistema esalti, in ogni modo possibile, l’individuo e l’individualità delle scelte e dei gusti nel consumo, con una pluralità quasi infinita di offerte materiali. Come se una presunta libertà di consumo, riassuma in sè una condizione esistenziale, di libertà.

E questo significa che, oggi, quasi tutte, e tutti, pensano che la condizione concreta, propria e di tutti gli altri, sia il frutto delle proprie individuali storie e determinazioni, e non invece anche, e forse soprattutto, di uno schema dal quale fuggire è davvero difficile.

Questa scissione che abita in ognuno di noi, produce quasi inevitabilmente, una considerazione generale: sono migliori di tutti gli altri, coloro i quali possano vantare condizioni materiali e comportamenti e consumi molto oltre l’ordinario, per loro riconosciuto “merito” ( e poco importa il modo in cui si sia raggiunta una certa posizione, e attraverso quali risorse ); per converso, tutti gli altri, e tutte le altre, sono “colpevoli” di non aver sufficientemente lottato per ottenere certi risultati: essi meritano la condizione di inferiorità e subordinazione che caratterizza le loro vite.

Questa lettura del mondo ignora, deliberatamente, le storie individuali delle persone: le smaterializza, le riduce a pura statistica senza indagare mai, il contesto in cui esse si svolgono. L’unica cosa che conta, sono dei numeri. Degli agglomerati statistici. E non si dialoga, e non si ascoltano le persone, ma si interpretano, più o meno correttamente, dei numeri, finendo col considerare ogni traiettoria vitale, quasi predeterminata; in fondo inutile, da percorrere, perché già se ne conosce lo sviluppo e la fine.

Il carico di aspirazioni, e di delusioni, e di sofferenze, o di gioie, che capiti di incontrare nella propria vita, ha molto meno senso, nelle considerazioni comuni, del reddito annuo di una persona, che ne definisce l’appartenenza ad una classe sociale; il tipo di abitazione cui può aspirare; la sua salute e la sua aspettativa di vita…

Se s’appartenga ad una certa fascia di possibilità materiali, diventa prevedibile lo svolgersi della nostra vita, incanalata su binari che quasi sempre prevedono discese, e quasi mai, salite.

Ci ritroviamo perciò costretti dentro una gabbia.

Viviamo secondo le leggi di un sistema che consideriamo, persino a livello inconscio, immutabile, ma di cui pure ne subiamo le storture, che in genere provocano in noi solo rassegnazione, o, al limite, la ricerca di un capro espiatorio, mentre, nello stesso tempo, quel sistema offre alla contemplazione di ognuno, spacciandole per raggiungibili da tutte e tutti, mirabolanti possibilità materiali, considerate “valore” dalla società, cui però solo alcuni hanno accesso, mentre gli “altri”, è giusto restino a guardare.

Se ci trovassimo in una condizione materiale, che non riesce a progredire, ma che si ripete eguale a sé, stessa, e talora persino peggiora, non è perché il sistema offre quasi esclusivamente strumenti, che fanno pendere la bilancia delle possibilità solo a favore di alcuni, perché costruiti esattamente in questo modo; bensì per nostro demerito, per nostra colpa. Siamo noi, ad aver sbagliato strada.

Potrebbe essere il racconto di tante esperienze di vita condizionate dal lavoro frammentato, dalla difficoltà a far accettare sé stessi; dalla sempre più alta tensione tra le proprie aspirazioni e la propria etica, e quel che invece questo mercato capitalistico, in una città come Aquila ad esempio, offre.

La prima esperienza di lavoro, come spesso capita, è “in nero”, in un bar.

A diciassette anni, si è giovani; magari si ha fretta di costruire una propria autonomia, e si entra allora nel mercato del lavoro, dalla porta di servizio.

Come se questo fosse un oscuro processo di iniziazione cui, più o meno tutti, siamo stati e saremo sottoposti.

Se in natura, l’indice di mortalità dei cuccioli è altissimo, è perché sono prede relativamente più “facili”, rispetto ad un esemplare adulto della stessa specie. Similmente, nel nostro mercato del lavoro, sembra operare una legge di natura, che costringe i giovani al pericolo; all’insicurezza; all’assenza di tutele.

Come in una graduale scala delle possibilità sociali, a diciannove anni, si sale un gradino, uno solo, e s’incontra il lavoro nei call center. Ma i call center, più o meno in quel periodo, stabilizzavano una loro divisione nel Settore.

Da una parte, i call center che ricevono telefonate, e per i quali il normale rapporto di lavoro, è quello subordinato ( sia pure tra mille difficoltà ); e dall’altra i call center che invece “fanno” telefonate: quelli che vogliono vendere qualcosa; ai Lavoratori e alle Lavoratrici di queste aziende, uno scellerato patto tra governo, aziende e alcune organizzazioni sindacali, sancì che fosse loro applicabile la tipologia del “contratto di collaborazione”, che oltre ad essere meno costoso di un contratto di lavoro subordinato, non fornisce alcuna tutela collettiva, trattandosi di un contratto individuale, e scarsissime tutele giuridiche.

Il modo migliore, per certe aziende, per avere a disposizione rilevanti numeri di persone impegnate a vendere un prodotto o un servizio, e che percepiscono un salario, solo se vendono, ed in base a quanto vendono ( salvo bassissimi compensi fissi, pagati se, comunque, si totalizzi giornalmente una certa quantità di ore di presenza ).

Una moderna riedizione del commesso che andava di porta in porta a proporre un bene da acquistare.

E può capitare che, in uno di questi call center, spesso usati in campagna elettorale a livello locale, per propagandare l’arrivo in città di “400 nuovi posti di lavoro” ( magari buoni per piazzare qualche amico o parente bisognoso ), si chieda di vendere qualsiasi cosa a qualsiasi persona, indipendentemente dall’età del potenziale cliente, ad esempio, o dalla effettiva utilità di un servizio, rispetto al tipo di persona cui lo si proponga.

Allora, l’etica di una persona può maturare la convinzione che non sia un prezzo accettabile, acquisire una propria, sia pure ridotta, possibilità economica, in cambio del porre la propria consapevolezza fuori dalla porta della propria coscienza ed accettare che vendere qualcosa, significhi solo realizzare un risultato economico, anche a costo di annebbiare la volontà dell’interlocutore.

E proprio per questo contrasto, dopo due anni pieni di quel lavoro, si decide di non accettare l’ennesimo rinnovo di un contratto di collaborazione a tempo determinato.

E, l’anno dopo, si sale ancora uno scalino di una obbligata trafila che dovrebbe condurre, forse, non si sa quando o come, ad un impiego stabile. Il rapporto di lavoro, diventa interinale. Non si è nemmeno assunti dall’azienda che ha bisogno di un lavoro, ma si viene a lei affittati, da una agenzia. Sempre a tempo determinato.

E a questo impiego, ne seguono altri quattro, di impieghi a tempo determinato, presso varie aziende. Viene da chiedersi a quale tipologia di mercato capitalistico, possa corrispondere una situazione del genere.

E’ evidente, come si tratti di impieghi in cui le persone siano facilmente sostituibili; fatti cioè di mansioni abbastanza semplici e ripetitive. Come è anche evidente che le imprese che fruiscano così frequentemente di rapporti di lavoro di questo tipo, usino una serie di meccanismi elusivi, di leggi e contratti che consentono di tenere il costo del lavoro più basso, rispetto a quello di un lavoratore assunto con contratto a tempo indeterminato, e lo fanno perché la loro capacità competitiva, si basa solo su elementi di costo, e non sull’innovazione, a prescindere dai margini di profitto che, in questo quadro, devono comunque restare patrimonio esclusivo della proprietà aziendale senza alcuna redistribuzione.

Stiamo parlando di un mercato capitalistico, della nostra città, fondato prevalentemente da servizi al consumo in grande concorrenza tra loro, perché non sostenuti da un sistema produttivo all’altezza, bensì drogati da una quantità di risorse, poi reinvestite quasi tutti in rendita e finanza, provenienti dalla ricostruzione post sisma, che tutti sanno a termine, e rispetto alle quali nessuno si preoccupa di immaginare come sarà il futuro, quando il processo di ricostruzione materiale sarà sostanzialmente terminato, e le risorse straordinarie non ci saranno più.

Quello che si direbbe un “mercato a scarso valore aggiunto”, che non lascia presagire un futuro da media città europea.

Il racconto di questa esperienza arriva al suo penultimo passo, quando s’incontra un rapporto di lavoro che, per ben undici anni, pur mantenendo una continuità nel luogo e nel tipo di impiego, è un susseguirsi di periodi di lavoro con contratto a termine, con la stessa azienda, alternati a periodi in cui si percepisce l’indennità di disoccupazione, quando magari le leggi sui contratti a termine, non consentono altri rinnovi ( perché altrimenti bisognerebbe assumere a tempo indeterminato ), e sia necessario far trascorrere del tempo, tra una riassunzione e l’altra. E, naturalmente, siccome si può sempre scendere, in questo periodo, arrivano anche i lavori pagati con i cosiddetti “voucher”, che non sono mai lavori “accessori”, come pretenderebbe la legge ( cioè una attività meramente occasionale ), bensì veri e propri rapporti di lavoro, pagati niente.

Il lavoro può anche svolgersi in un ambiente amichevole, ma è sempre sottoposto ad una ferrea logica di compatibilità economiche: quelle aziendali, però.

E’ evidente, a partire da un certo momento in poi, come, lungo questa strada non ci sia progresso, anzi, si viva solo per lavorare, e la necessità dell’indipendenza economica finisce con l’esigere compromessi con sé stessi, a partire proprio dalla tipologia di lavori che si sia costretti ad accettare, mentre invece coetanei che hanno scelto di andare all’estero, vanno avanti, e riescono a costruire qualcosa di ben più gratificante.

Ecco allora, che può avvenire lo scarto, da quei binari già tracciati; ecco allora che può avvenire un tentativo di scegliere una direzione più vicina alla propria umanità, e alle proprie aspirazioni.

Il tentativo di uscire da statistiche che pretendono di tracciare destini, e sentirsi persone, pienamente.

Si riprende a studiare, e ci si laurea.

In questa parte di mondo, tra quelle persone che pensano il progresso, essenzialmente, come un miglioramento possibile dello stare insieme, sempre, se ne intravede la chiave nell’accrescimento del sapere, e nella cultura.

Nell’acquisizione di superiori conoscenze è l’opportunità di autodeterminare la propria condizione.

Dovrebbe essere un principio generale: una condizione dalla quale, se non tutte e tutti, il maggior numero possibile di persone, possa partire per costruire la propria vita.

Mentre invece l’Italia sembra somigliare ad un Paese dei Balocchi, in cui la gran maggioranza delle persone rappresenta il sé stesso che desidera gli altri percepiscano, immerso comunque in una condizione di benessere. Altrimenti sarebbe, e si sentirebbe, un escluso.

Spesso, saperi e cultura sono derisi, come se fossero una zavorra del passato, mentre oggi sembra, che per avere le stesse nozioni, sia sufficiente fare una domanda ad una Intelligenza Artificiale, che pare autorizzi a sentirsi in grado di interloquire su qualsiasi tema, o, peggio ancora, di basare i propri pensieri su fonti di informazione e conoscenza che, in realtà, sono semplici megafoni di propaganda e di notizie false e tendenziose.

Dopo un nuovo lavoro a termine, a laurea conseguita, si decide di intraprendere una propria attività, a partire esattamente dalla formazione che si è scelto di praticare.

Si cerca di essere protagonisti del proprio futuro, anche nella consapevolezza che, comunque, sarà necessario uno sforzo collettivo, per scrivere un futuro davvero degno. Non sarà sufficiente lo sforzo individuale.

Ecco. Credo sia esattamente qui, il punto anche politico, della difficoltà della rappresentanza oggi ( anche nel senso della sempre più ampia e drammatica astensione dall’esercizio del diritto di voto ): la incapacità nel saldare le opzioni politiche, alle individuali possibilità ed aspirazioni di miglioramento e progresso sociale. Non sembrano esserci, in questo momento, soprattutto a Sinistra, le forze necessarie ad analizzare nel profondo la Società, e ad enuclearne le spinte positive e propositive, per farne una politica capace di parlare alle prospettive future, e contrapporsi a chi invece, usa solo la paura e l’ignoranza, per mantenere una situazione sempre favorevole a pochi, e ingiusta con tante e tanti.

Le persone continuano a sentirsi, ed in larga misura ad essere, sole.

Senza una vera rete di relazioni positive e di tutele collettive, entro le quali cercare la propria autorealizzazione. Incerte, sull’esito, e persino sull’utilità, dei propri sforzi individuali, ed anzi sempre più spinte verso una rassegnazione rancorosa, impegnata solo a cercare bersagli facili sui quali sfogare le proprie frustrazioni.

Il percorso dell’esperienza personale qui raccontata, offre uno spiraglio d’uscita, da una condizione di minorità senza sbocco. E’ vero che l’attività da intraprendere, dovrà andar bene e consentire un autonomo e positivo cammino, ed è vero che questo non è un esito scontato.

Ma certo, è un percorso che interroga.

Perchè, in fondo, rivela che la chiave utile per provare a progredire, è nella conoscenza; nei saperi, anche manuali; nella cultura, e che quindi è su questa strada che bisognerebbe, innanzitutto, investire; rivela che quando si prenda coscienza che il nostro, non è il migliore dei mondi possibili, si cerca una soluzione individuale, ma nella consapevolezza che, senza uno sforzo collettivo, che modifichi il contesto, e lo renda più permeabile alle possibilità di progresso e di giustizia, le speranze di riuscita saranno certamente sottoposte a pesanti verifiche; rivela che è possibile preferire puntare su sé stessi, piuttosto che sui compromessi che debbano essere accettati, per forza o necessità, pur di acquisire quanto basta, più o meno, per vivere autonomamente.

Già qui, in embrione, c’è lo spazio di una politica che offra sponda al bisogno delle persone di vivere meglio.

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