Qualcuno dice che il miglior film mai realizzato, sul calcio, sia “Fuga per la vittoria”, girato dal grande regista John Huston, che, essendo statunitense d’origine, pochissima dimestichezza aveva con questo sport.
Forse, serviva uno sguardo lontano, per trovare gli spazi del racconto cinematografico dentro una partita di calcio.
Quello sguardo, forse, è stato capace di cogliere la drammaturgia di una partita, perché nel 1981 poteva raccontare il calcio di quaranta anni prima, i cui ritmi e modalità di gioco però non erano molto differenti da quello che era il vero calcio giocato, all’epoca in cui fu girato quel film.
In quel film recitarono alcuni grandissimi fuoriclasse dell’epoca; di un tempo in cui la cui visione di una partita avveniva, prevalentemente, all’interno di uno stadio o attraverso brevi sintesi differite degli incontri, realizzate per la televisione. La diretta televisiva era riservata a grandi eventi, competizioni internazionali, partite della Nazionale di calcio.
La spettacolarità delle riprese televisive, realizzate per il calcio di oggi, la loro capacità di raccontare l’evento, dal vivo, drammatizzandolo, con un impressionante spiegamento di mezzi tecnici, rende pressochè impossibile il racconto cinematografico di una partita, e, questa circostanza tra le altre, forse, spiega perché così raramente sia possibile trovare un buon film sul calcio oggi. Ben difficilmente sarebbe possibile imitare infatti – con numerosi attori che dovrebbero avere capacità atletiche e tecniche davvero importanti – il rito collettivo di una partita di calcio giocata agli altissimi livelli cui siamo abituati ormai, da anni di riprese televisive in diretta, sempre più perfette, tanto da rendere troppo spesso, al paragone, scomodo, costoso, e talora purtroppo pericoloso, assistere al gioco all’interno di uno stadio.
Il calcio, inoltre, essendo uno sport collettivo, nel quale certo esistono individualità di rilievo, mal si presterebbe al racconto cinematografico, che richiede spesso protagonisti individuali; per di più, il calcio, ha brevissimi tempi morti nel suo svolgersi, e questo difficilmente consente l’inserzione di parti di una storia, essendo invece quello del gioco, un movimento continuo, ed in sé concluso, visto che, comunque, alla fine del tempo della partita c’è un risultato che ne segna la fine.
Insomma, esistono diverse difficoltà materiali, nel realizzare un racconto credibile, spettacolare e drammaturgicamente sostenibile di una partita di calcio: anche per questo, forse, i Manetti Bros. hanno scelto di raccontare, con “U.S. Palmese”, un calcio dilettantistico che, per un istante, incontra il calcio della Champions League.
Ma il loro racconto consente anche di lasciar liberi alcuni pensieri che riguardano il calcio di oggi, ed il suo rapporto con la passione per uno sport che non smette di incantare ed emozionare miliardi di persone, di tutte le età, in tutto il mondo.
E, nello stesso tempo, il loro racconto permette il confronto con un mondo che è cambiato radicalmente dal 1981 di “Fuga per la vittoria”, e che interseca le vicende del calcio con una realtà di cui, spesso, ci sfuggono gli elementi fondanti.
Un giocatore di altissimo livello, che faccia parte della Nazionale del proprio Paese, e il cui club partecipi a competizioni internazionali, può addirittura arrivare a disputare 70-80 partire in un anno solare. Il che significa però, nella realtà, che le partite, delle quali si possano trasmettere le riprese televisive, sono infinitamente di più.
I calendari calcistici hanno abolito la consuetudine sociale della partita della domenica, e, nei paesi in cui il calcio sia uno sport importante, di fatto, invadono con la loro presenza televisiva tutti i giorni della settimana, per quasi tutto l’anno, senza soluzione di continuità. E questo, senza considerare, ora, tutte le trasmissioni televisive, di ogni genere, in onda ad ogni ora del giorno e della notte, che ruotano intorno al mondo del calcio.
In sostanza, dal 1981 ad oggi, il “sistema calcio”, è divenuto non solo un enorme contenitore di risorse economiche, caratterizzato da sue peculiari ricadute di un meccanismo economico capitalistico-finanziario globale, ma anche, e forse proprio per questo, un veicolo di messaggi universali, tra loro anche contraddittori, ma quasi tutti inquadrati nel segno di una sottomissione al denaro, ad ogni livello sempre più evidente e pervasiva.
Se si volesse giocare un po’ con le parole, si potrebbe dire che il calcio di oggi, è divenuto un ottimo “oppio dei popoli”, funzionale a diffondere una precisa ideologia, fatta di alcuni principi cardine: la competitività, innanzi tutto, tipica certo di ogni sport, ma qui spinta anche parossisticamente ad ogni livello, compreso quello delle squadre di giovanissimi e bambini.
La diseguaglianza divenuta normalità, per via di una cristallizzazione delle risorse economico finanziarie, la cui disponibilità, è la vera discriminante tra “vincenti” e “perdenti”, quasi sempre.
Basti pensare che, dal 1981 ad oggi, in Italia, il campionato di calcio è stato vinto prevalentemente da tre sole squadre : Juventus, Milan e Inter, e che, dal 1990, solo Sampdoria, Lazio, Roma e Napoli, una volta ciascuna, hanno interrotto questo predominio, in un quadro in cui, esattamente come avvenuto per il complessivo sistema economico italiano, il peso economico finanziario e quello tecnico agonistico del calcio italiano, e delle sue vittorie in campo internazionale è progressivamente diminuito, in favore di una egemonia inglese, spagnola e tedesca, ed in parte francese.
Il profitto immediato cui il calcio oggi è del tutto asservito, penalizzando chi decida di investire per il lungo periodo, e favorendo chi possa investire nei migliori atleti del momento, anche attraverso la monetizzazione di ogni aspetto legato al sistema calcio (dal merchandising, alle televisioni private a pagamento che trasmettono le partite, arrivando fino agli stadi, trasformati in centri commerciali del marchio sportivo – oltre che patrimonio immobiliare utile a garantire disponibilità finanziarie -); esattamente come è avvenuto per il sistema capitalistico globale che ha delocalizzato e destrutturato i meccanismi di produzione di beni e servizi, trasformando ogni singolo anello della catena produttiva, in separate aziende, ciascuna impegnata a trarre il massimo profitto immediato dalla propria attività, svolta in una concorrenza al ribasso tra imprese di tutto il mondo.
La spersonalizzazione della proprietà; con i club europei più importanti, divenuti espressione di capitali provenienti da Fondi Azionari o finanziarie del petrolio, che hanno cancellato così, la presenza di larghe parti di imprenditoria locale, non in grado di mobilitare le risorse finanziarie necessarie per competere ai massimi livelli, e trasformato le Società sportive in puri strumenti da cui trarre valore azionario, per il quale, minando alla base lo stesso ideale sportivo, non è necessario vincere una competizione, ma gestire ogni scelta al solo fine di ottenere dividendi da distribuire tra gli azionisti.
La predazione delle risorse del Sud del mondo, che le risorse messe in campo dal sistema calcio consentono, attraverso il reclutamento di giovani talenti, chiamati a recitare il loro ruolo sui palcoscenici del ricco mercato calcistico europeo che, anche per questa via, toglie competitività e futuro alle nazioni più marginali del pianeta.
Questi principi ideologici, tra gli altri, hanno trasformato le competizioni calcistiche in veicoli di comunicazione formidabili che, mentre mostrano ogni squadra composta da persone provenienti da tutto il mondo, d’ogni colore o religione, non riescono in realtà, a cancellare il razzismo dagli stadi, poiché si tratta di processi di integrazione richiesti dal Mercato, e non punti d’arrivo di processi sociali, storici, e culturali.
E questi principi ideologici convivono, talvolta attraverso silenziose complicità segnate da logiche di scambi oscuri, con la presa criminale di gruppi organizzati del tifo, che non esitano ad usare intimidazioni e violenza, per generare, a loro volta, profitti per i loro ristretti “gruppi dirigenti”, impegnati magari anche nel traffico di stupefacenti.
E mentre indicano, in una certa misura, ai giovani di tutto il mondo una possibile strada di ascesa sociale, trasformano il calciatore in un prodotto di mercato che deve essere venduto ad ogni livello, anche in certe sue possibili espressioni individuali di ostentazione dello status, sempre tollerate e giustificate, veicolando anche così, l’idea che al ricco, tutto sia concesso.
La comunicazione costruita intorno al sistema calcio inventa costantemente effimeri fenomeni mediatici, mentre fa riferimento strumentale ad un patriottismo del tifo, in larga parte confuso ed ipocrita, e sposta sul calcio, che resta un potentissimo fenomeno aggregativo, le stesse dinamiche di un capitalismo amorale che, per soldi, fa disputare un Mondiale di calcio in mezzo a deserti caldissimi, tra tifosi che si godono la partita senza perturbanti donne intorno, o che spreme i suoi principali attori ( più che profumatamente pagati spesso ), le cui carriere però si accorciano, e la cui salute è sempre più compromessa da infortuni e ritmi eccessivi.
Tutto questo, costituisce, in fondo, il contesto implicito, in cui si svolge la trama del film “U.S. Palmese”.
Un giovane calciatore francese, d’origine africana, proveniente da realtà difficili, è autorizzato, una volta divenuto idolo degli stadi, a trasformarsi in un egocentrico e disadattato ricco fannullone senza più nessuna aspirazione o passione ed espulso, per le sue intemperanze, dal mondo dorato che il sistema gli aveva costruito intorno, per rientrare nel quale, con una operazione di marketing comunicativo, accetta di trascorrere un periodo di tempo a giocare al calcio, per una squadra di dilettanti di un paesino calabrese, in cui, un pensionato, con una idea un po’ folle, ha messo insieme il denaro sufficiente a pagare l’ingaggio del campione caduto in disgrazia.
L’incontro, tra il calciatore cosmopolita, e la realtà di un paese del Sud Italia, dove certe dinamiche di passione calcistica e di relazioni sociali, sembrano essere eterne, ed in cui è facile riconoscersi in larga parte della provincia italiana, mette in conflitto due dimensioni temporali separate tra loro.
La dimensione temporale veloce di un atleta ai massimi livelli del suo sport, sovraesposto mediaticamente, ma svuotato di ogni suo senso più autentico, e quella lenta di un paesino in cui si parla ancora ai tavolini del bar in piazza, mentre l’ospedale viene chiuso per mancanza di risorse, ed in cui la vita si svolge secondo ritmi e modalità che, in ritardo, incontrano il tempo veloce che i mass media raccontano ogni giorno come unico tempo esistente.
Il film dei fratelli Manetti corre solo il rischio di diventare un impossibile apologo, nel quale, solo il contatto con il tempo “analogico”, si potrebbe dire, di reali emozioni umane, consente di vincere nel tempo “digitale” di una modernità la cui unica anima, è il conto in banca.
O, forse, il film gioca col paradosso dei vestiti del re, che solo l’innocenza di un bambino può svelare nella sua tremenda nudità, indicando così una possibile strada di salvezza, a questo mondo che corre felice verso le proprie catastrofi, gonfio di irrealtà sbandierate per vere.
O, semplicemente, mette in scena l’eterna parabola dell’eroe, che cade in disgrazia per la propria presunzione, e, solo ritornando alle proprie più genuine origini, compie un giusto percorso di espiazione e può risorgere dalle proprie ceneri.
Di certo, dal cinema s’esce con un buon sapore in bocca, forse appena troppo salato, per l’influenza di certi stilemi politicamente corretti che però, se ci togliamo di dosso una certa saccenteria di cultura autoreferenziale, concordiamo magari anche sulla necessità della loro esposizione, in un Paese come l’Italia, dove la volgarità e l’ignoranza, e la mistificazione propagandistica sono padrone del discorso pubblico.
E’ un film corale, su uno sport corale, che schiera sempre in campo alcuni fuoriclasse, come un misuratissimo Rocco Papaleo, che impersona il battito d’ali di una farfalla calabrese, che provoca una tempesta a New York. E come una riuscita Claudia Gerini che bamboleggia una poetessa in cerca di conferme della propria eccezionalità superiore, rispetto alla prosaicità della realtà contemporanea.
Magari il film immagina che la forma della partecipazione diretta delle persone, dal punto di vista economico-finanziario, possa ribaltare lo stato di cose presente; e sarebbe una bella strada da percorrere e sperimentare, ma che, in realtà, potrebbe divenire possibile ove vi fosse un pesante intervento regolatore sui meccanismi di mercato, almeno a livello europeo, tale da consentire un riequilibrio nella disponibilità dei capitali, che potrebbe consentire un allargamento delle società sportive in grado di competere per i titoli, e per questa via forse, un maggiore spettacolo ( anche riducendo il numero delle partite e delle competizioni ), e una più libera espressione delle passioni per il gioco, che restano l’unica anima ancora innocente, dentro un gioco che è diventato peggio di una slot-machine.