Molte persone sono convinte che ad altri non sia possibile provare le proprie medesime emozioni, siano esse positive o negative, se altri non abbiano il medesimo percorso vissuto; se non si sia stati egualmente protagonisti, o vittime magari, di uno stesso evento.
In altre parole, molte persone ritengono che non si sia in grado di comprendere le proprie emozioni, i proprie sentimenti o sensazioni, i propri pensieri, se non si siano vissute le medesime esperienze.
Per dirla ancora in un altro modo, per molte persone è inutile comunicare il proprio vissuto ad altri, ove non abbiano il medesimo vissuto, e non può esservi perciò una possibilità che altri condividano i profondi effetti che accadimenti importanti possono generare in noi.
Potremmo certo dire, ad esempio, che non vi sia il medesimo grado di dolore tra una persona che abbia perduto il proprio genitore e chi, da semplice conoscente , sia presente magari alle esequie, solo per manifestare rispetto e partecipazione.
Significa questo che nessuno di noi, è in grado di comprendere l’altro, se non posto nelle medesime condizioni ?
Dovremmo però, prima di immaginare una risposta, considerare un particolare fenomeno: la rappresentazione di una emozione, ad esempio, può da tutti, potenzialmente essere riconosciuta ( pur se ciascuno esprimerà questo suo “riconoscimento” in modo diverso ): a molte persone accade infatti, di sentire commozione, o di piangere, addirittura, quando nella scena finale del film “Luci della città” di Chaplin, la fioraia riconosce nel povero vagabondo, il benefattore che, dopo tante traversie e generose scelte, le ha consentito di riacquistare la vista.
Sembrerebbe possibile, quindi, comunicare e far conoscere, e condividere le proprie emozioni ed i propri pensieri e sentimenti.
Esiste, allora, una capacità di “sentire l’altro”, possiamo pensare e, talvolta, questa capacità, alimentata dalla nostra immedesimazione nell’altro, può generare analoghi sentimenti o emozioni, o, semplicemente, farci conoscere davvero i più profondi moti del pensiero altrui.
Generando così, comportamenti conseguenti, e adeguati.
Ma “sentire l’altro”, può voler anche dire, riconoscere il proprio limite. Riconoscere cioè che l’intensità delle emozioni e dei sentimenti di un’altra persona abbia una radice che ben comprendiamo, pur se non possiamo, per personale condizione, dirla esattamente nostra; comunque non nel modo in cui un altro sente.
Se accada una tragedia collettiva, vi saranno state, purtroppo, delle vittime, ed il dolore delle persone loro vicine; noi, da spettatori lontani, non possiamo certo sperimentare quel dolore su noi stessi, ma possiamo “sentirlo”: sentirne i morsi feroci e decidere di mobilitarci, in una qualche forma, per portare ristoro a chi sia stato direttamente, ed indirettamente colpito.
In realtà, tutto questo ha a che fare forse, con l’infinita variabilità, e contraddizione del nostro vivere. Con l’inesausto tentativo di cercare un equilibrio possibile tra la nostra capacità di definire l’infinito ed eterno, e la nostra vulnerabilità e finitezza.
E forse, ci vuole un occhio particolarmente profondo e rigoroso, per guardare in faccia questo tentativo, che sappiamo comunque destinato a sconfitta – se non altro perché, qualunque ne sia l’esito, comunque finirà il giorno della nostra morte – e raccontarne i lati più sgradevoli e urticanti, più dolorosi e impotenti, più colpevoli e più innocenti.
Ricky Gervais è un comico, attore, regista inglese, che, tra il 2019 e il 2022, ha scritto, diretto e realizzato, tre serie televisive, dal titolo “After Life”.
Con grande ritardo, rispetto alle uscite, ho potuto vedere tutte le puntate della serie, e molto mi ha colpito, il suo racconto.
Ricky Gervais è noto nel mondo, per i suoi spettacoli teatrali: monologhi talvolta controversi, ma sempre molto ficcanti, con i quali esprime, in forma di comicità e satira, il proprio punto di vista sulle cose del mondo e sulle contraddizioni del vivere odierno; ma è noto anche per aver presentato, più volte, “La notte degli Oscar”, senza lesinare pungenti frecciate all’indirizzo dei protagonisti, universalmente noti, del mondo dello spettacolo.
Il tipo di artista, dal quale, in sostanza, non ci si aspetta una realizzazione come “After Life”.
“After Life”, racconta la storia di un uomo che, a causa di un cancro, perde la moglie, della quale era, e resta, innamoratissimo. La vita di quest’uomo, diviene un continuo e oscillante scontro tra le dolcezze, piccole e grandi della quotidianità, ed il senso di colpa del sopravvissuto, che non sa e non può staccarsi dalla bellezza che prima riempiva le sue giornate. La vita di quest’uomo è una resistenza continua alla tentazione di porre fine ai giorni di un proprio vivere che ha perduto il suo senso più profondo: l’amore. Ed è anche il racconto del suo nuovo punto di vista sulle relazioni tra le persone e sul senso degli accadimenti, più o meno importanti, che gli capita di vivere, o che capitano d’esser vissuti dalle persone che gli stanno intorno: i cittadini di una piccola comunità della provincia inglese; i suoi colleghi di lavoro, i suoi parenti.
E’ proprio il mutato punto di vista sul mondo, ad essere in fondo il protagonista della serie. La perdita del proprio amore più grande, se lascia intorno a sé una deriva di disperazione e nichilismo autodistruttivo, costringe anche ad interrogarsi con brutale sincerità, sull’essenziale; su quel che davvero si desidera e si considera importante, cancellando ogni ipocrisia e nascondimento.
Paradossalmente, la chiusura nel proprio dolore, riesce a mutarsi in una apertura genuina, sofferta e capace di “sentire” le condizioni degli altri e su di esse materialmente intervenire per un bene possibile; limitato magari, ma sempre caratterizzato dalla capacità di mettersi al posto dell’altro, e con lui/lei, comprendere fino in fondo, anche contro il suo stesso apparente volere, cosa sia davvero dirimente per regalare luce ad un vivere sempre più buio e claustrofobico.
Il protagonista, interpretato da Ricky Gervais, s’apre davvero, arreso, solo ad una donna, di lui più anziana che, dopo oltre cinquanta anni d’amore, ha perduto il proprio marito, condividendo con lei, pur senza una formale conoscenza precedente, il rimpianto inconsolabile, per quanto sia stato irrimediabilmente smarrito, e riconoscendo in lei una persona capace di comprendere le più intime contraddizioni, e bellezze, di un amore perduto, e oltre il quale non si scorge orizzonte, e non invece l’unica persona capace di comprendere la sua condizione, perché analogamente colpita.
E questa donna, capace di comprendere, ma anche di rimettere sè stessa in gioco ( nel corso della serie ), lentamente, fa emergere la vera natura, buona, del protagonista; controcanto anche comico talora, alla sua scontrosità asociale, alla sua spietatezza di giudizio, alla sua apparente noncuranza per tutto quello che intorno pulsa e che chiede di vivere, ignaro della sconvolgente finitezza, propria dell’essere al mondo.
Resta irrimarginabile, la ferita dell’amore perduto, e, per quanto più volte sull’orlo della possibilità di intraprendere un nuovo abbandono alla relazione con l’altro, mai il protagonista riesce ad andare oltre la propria vulnerata e inconsolabile nostalgia, che continuamente è alimentata dalla visione dei filmati realizzati insieme alla moglie quando lei era in vita. Come se la sola immagine di lei, potesse riportarla in vita. In un tempo in cui l’immagine, ha sostituito, in larga misura, la realtà.
E’ un cane, accolto nella propria casa insieme alla moglie tempo prima, a salvargli la vita, con la sua semplice richiesta d’esser nutrito. E’ quel cane, ad allontanare da lui il proposito di suicidarsi, sempre comunque presente, in ognuna delle puntate della serie: occuparsi d’una altra vita, sentirsene responsabile, rivela la capacità del protagonista, nascosta sottoterra dal dolore, di considerare comunque la vita degli altri, per sé importante, al punto da rinunciare al proprio desiderio che tutto finisca, perché questo potrebbe far male ad un essere che gli è stato affidato.
Le puntate della serie seguono sempre uno schema abbastanza simile, tra loro; come fossero uno sguardo, da lontano, sulla quotidianità di un uomo che, lentamente, smette di lasciarsi andare del tutto, pur se non rinuncia a momenti di autoannullamento attraverso l’alcool e la droga, ed inizia a costruire una propria possibilità di esistenza, che passa, essenzialmente, attraverso lo sguardo sugli altri, e sulla comprensione che gli altri, tutti gli altri, a prescindere dalle loro manchevolezze, hanno piena legittimità ad aspirare ad un pezzetto di felicità, o di pace, già in questa vita, per quanto temporanee e forse illusorie.
Il protagonista si sveglia, accende il proprio computer e guarda, magari nel letto insieme al cane, filmati della propria vita felice precedente; si reca poi al cimitero, alla tomba della moglie, e lì trova la donna che, anche lei, ogni giorno, si reca sulla tomba del proprio marito scomparso dopo oltre cinquanta anni di matrimonio, e risponde alle sue domande sul proprio stato, mentendo sempre un po’; cercando parole che tengano in un angolo la sua disperazione, ed ascolta poi i ricordi di lei, o le sue considerazioni. E si reca quindi a lavoro, in un piccolo giornale di provincia, dove incontra i suoi colleghi e il fratello di sua moglie, direttore del giornale, che, costantemente, ma invano, cerca strade per ricondurlo ad una vita che immagini un futuro. Interagisce sarcasticamente con i colleghi di lavoro, e poi si reca ad intervistare persone comuni, ciascuna delle quali afflitta da una qualche ossessione, ma, soprattutto, bisognosa di compagnia, di dialogo, di visibilità, per vincere una solitudine spesso devastante. Molte volte, l’unico motivo per cui le persone cerchino di parlare con lui, è perché desiderano che il proprio nome compaia sul giornale cittadino, come se solo la sanzione di una pubblica notorietà assicuri realtà ad una esistenza altrimenti invisibile, come quella della maggior parte delle persone. Nella clinica dove si recava ogni giorno a trovare il proprio padre affetto da demenza, conosce l’infermiera che con dedizione, si prende cura del proprio genitore.
E questa amicizia, prova ad essere, lungo le tre serie televisive, qualcosa di più importante, di una semplice conoscenza, senza riuscirci, però, perché il protagonista del racconto non trova mai in sé la forza, di superare la perdita.
Nel finale della serie, invece, tutte le persone che gli sono intorno ( colleghi di lavoro, parenti, amici, semplici conoscenti ), sembrano aver trovato una loro strada, in compagnia di qualcuno, anche quando si tratti persone improbabili, o affette da tratti del tutto disarmonici ed eccentrici della propria personalità. Anche la donna anziana che ogni giorno incontra al cimitero, pur se assolutamente consapevole dell’unicità di quanto ha vissuto col proprio defunto marito, trova il proprio modo di celebrare l’esser viva, attraverso una relazione col padrone del giornale che, il protagonista, un tempo, ha convinto a non vendere tutto, e a lasciar vivi il giornale locale e i suoi posti di lavoro.
Ricky Gervais procede sempre con “dimostrazioni a contrario”, e mostra tutte le assurdità delle convenzioni sociali, e tutta la presunzione del formarsi una opinione sulle persone senza davvero conoscerle, per enucleare le conseguenze dell’inadeguatezza delle consuetudini e delle regole che governano il cosiddetto vivere civile, e, nel contempo, mettendo invece in luce il nucleo più nascosto delle nostre motivazioni e dei nostri desideri, oltre che l’innocenza di fondo delle nostre contraddizioni. Noi vorremmo solo essere felici, e spesso siamo disposti ad ogni follia, perché qualcuno si accorga di noi, e ci accolga nella propria vita.
Questo processo avviene perché è possibile accostarsi alla propria vita, e a quella degli altri, assumendo, per quanto possibile, il punto di vista degli altri, e quindi rivelando che è possibile “sentire”, e comunicare questo “sentire”, anche quando non si condividano esperienze analoghe
Questo processo avviene, inoltre, attraverso la costante negazione di consolazioni ultraterrene o religiose – Ricky Gervais, anche nei suoi spettacoli, si proclama ostinatamente ateo e devoto al solo sapere scientifico – non tanto, in realtà, per sbeffeggiare il nostro bisogno illusorio di un’altra vita, eterna magari, quanto per costringere tutti a misurarsi, sino in fondo, solo con la propria umanità debole ed incerta; unica però capace di trovare in sé le chiavi per una buona vita.
E le uniche chiavi, sono l’amore e la gentilezza.
Solo l’amore e la gentilezza possono dare senso al nostro vivere.
Ricky Gervais, con “After Life”, dimostra che è possibile “sentire con gli altri”, anche restando ferocemente attaccati al proprio vissuto e ai suoi segreti più intimi e dolorosi, e trova strade assolutamente interessanti per raccontarlo.
Guardare questa serie televisiva, che è certamente un prodotto commerciale, mi ha sollecitato, e mi sollecita, ad essere il meno superficiale possibile e a cercare, sempre, d’essere attento, non so se gentile, e di offrire una possibilità all’amore, che è l’unica chiave che permette l’accesso alla Vita.